Quince sistemò gli occhiali da sole sul naso. Attraverso le lenti il mondo assumeva una gradevole colorazione rosso rubino.
Il signor Bartolemy tamburellò le dita secche sulla scrivania.
«Si ricorda bene il piano?»
«Mi pare ovvio, signore.»
«Non sia tanto arrogante, Quince. La missione è delicata.»
«Come tutte le missioni.» Quince spostò un po’ più in alto la frangia, scostandola dalla fronte. «La Soglia si aprirà alle nove e ventuno, come convenuto?»
Il signor Bartolemy annuì, secco. La sua faccia scavata, da avvoltoio, si storse in un sorriso.
«Mi raccomando, Quince, si attenga ai parametri della missione. I numeri hanno importanza, e ci serve che compaiano altre Soglie. Per il resto, massimi danni possibili.»
L’agente controllò il taschino del cappotto nero e ci trovò solo qualche pallina di lanuggine. La soffiò via.
Non hanno nemmeno la decenza di portare dei tracciatori di flusso. Trogloditi.
Il signor Bartolemy parve leggergli nella mente.
«Nello Specchio non hanno ancora inventato i tracciatori, ma basterà apporre il sacrificio nel luogo in cui uscirà dalla soglia. Le ricordo che…»
«I numeri sono importanti», sbuffò Quince. «Lo so. Nove corpi, ventuno pezzi. Ho capito.»
L’altro tossicchiò.
«Bene. Buon lavoro, allora, agente Quince.»
Lasciò l’ufficio di Bartolemy a passo svelto, la moquette viola della sede centrale che zittiva i tacchi delle sue scarpe.
Fece schioccare la lingua.
L’orologio a muro indicava le nove e ventisette. La lancetta dei minuti si spostò sul ventisei.
Cinque minuti soltanto.
Accelerò il passo e si fiondò nell’ascensore prima che chiudesse le porte.
Pigiò il pulsante fucsia e scese fino al dipartimento Soglie.
Si comincia a fare un po’ di casino, finalmente.

***

Diana cercò a tentoni la maniglia del cruscotto.
«Cazzo», sibilò tra i denti.
La rete di crepe sulla lente superstite dei suoi occhiali le lasciava vedere solo frammenti distorti dell’abitacolo della macchina.
Le unghie graffiarono la plastica liscia sotto alla levetta di metallo, la tirò e il cruscotto si aprì.
Afferrò le scatolette di cartone alla cieca.
Dove cazzo erano le lenti, Dio…?
Tenne per l’astina gli occhiali e si mise davanti la prima scatola, una macchia marrone chiaro.
No, non era quella, ci voleva quella blu. Se la lasciò cadere sulle gambe, la scatola le rimbalzò in grembo e atterrò sul tappetino ai suoi piedi.
Cristo!
Scatola blu, ma scura. Era quella?
Diana la allontanò un poco, la riavvicinò, la allontanò ancora.
«Criso… crisomento… ah, fanculo.»
La lanciò sul sedile del passeggero.
Terza scatoletta, eccola. C’era solo quella.
Sopra il celeste dello sfondo, una goccia d’acqua cadeva su una specie di ovale trasparente.
Infilò il dito sotto la linguetta e l’aprì, tirò fuori il blister di plastica.
Uff, ok. Piano.
Da quanto tempo non portava quelle lenti?
Si tolse gli occhiali e il mondo divenne subito sfocato. Prese la pellicola della prima lente e la tirò via, immerse il dito nel liquido, stando attenta a non tremare.
Proprio oggi dovevo spaccarmi gli occhiali, Dio santo.
Tra la miopia da talpa e lo specchietto retrovisore piccolo ci sarebbe voluto Tom Cruise per infilarsi la lente senza restare guercia.
Alzò bene la testa per specchiarsi e aprì le palpebre con la sinistra. L’aria iniziò a pungerle l’occhio.
Che odio.
Tenne in bilico la lente per un istante sul polpastrello. Nello specchietto c’era solo una macchia bianca su una rosa scuro.
Deglutì e oplà, fatto.
Sbatté l’occhio un paio di volte, la lente si aggiustò.
Il retrovisore, il cruscotto, il vetro, tutto quanto aveva ancora i contorni acquosi.
Merda, sono ancora tarate su cinque decimi.
Almeno ci vedeva quel tanto che bastava per camminare.
Correre, anzi.
Si sforzò di mettere a fuoco l’orologio. Nove e ventisette. Tre minuti per prendere gli occhiali di riserva dalla scrivania e arrivare alla riunione.
Una lente bastava e avanzava.

***
Quince inspirò a fondo. Aria fresca di metà ottobre, piena di umidità.
Incrociò le braccia. La Soglia era stata impeccabile, nulla da dire.
L’aveva lasciato esattamente nel punto cieco tra le due telecamere sul retro.
Stava per battere il piede sul cemento ma si fermò.
Meglio non fare rumore.
Lo spiazzo sul retro era largo a sufficienza per nove corpi in ventuno pezzi, se ci si metteva un po’ di fantasia.
Quince aspettò che la telecamera di destra si spostasse e avanzò in punta di piedi fino alla porta di servizio.
Si appoggiò al muro e abbassò il pannello del tastierino di sicurezza.
Qual era da noi? 13546998? Quindi qui…
Le sue dita danzarono sui tasti. 89964531.
La tastiera lampeggiò di verde e la serratura della porta fece clack!
Quince non guardò nemmeno la telecamera e si infilò dentro di colpo.
Percorse il corridoio in fretta. Sbirciò la moquette da sotto le lenti. Era di un anonimo grigio topo, solo guardarla gli fece venire la nausea.
Rispetto alla sua sede, qui c’era un odore amaro nell’aria.
Le telecamere a circuito chiuso ora non facevano paura. Era solo un’agente che tornava dalla pausa sigaretta.
Il cappotto pesava come un’incudine, ma non poteva ancora toglierselo.
L’unico inconveniente di quella pagliacciata era che la sua bella giacca della Mayhem si sarebbe rovinata, con tutto quel peso sulle spalle.
I muscoli già gli dolevano.
Sbuffò e svoltò a destra, verso la hall.
Come fanno ad abituarli a portarsi tutta ‘sta chincaglieria?
Una segretaria in gonna corta entrò nell’ascensore al seguito di un agente con il cappotto nero.
Quince sorrise.
Bingo.
Lasciò cadere il pesante cappotto della Mayflower. Ora non serviva più nascondersi.

***

Si infilò nell’ascensore superando un agente in impermeabile nero.
L’uomo grugnì.
«Vai di fretta, Burgess?»
La voce era di Bruce Clayton.
«Ho perso gli occhiali.» Diana si spostò una ciocca dalla fronte e si schiacciò in fondo all’ascensore per far entrare Clayton e gli altri agenti.
L’odore di sudore che veniva da sotto i cappotti ammorbava già l’aria.
Solita ressa da inizio turno.
Fece per sistemarsi gli occhiali e le sue dita non incontrarono nulla. Si morse il labbro per il nervoso.
Laila, la segretaria di mister Dolarhyde, entrò per ultima.
Il suo volto per Diana era un ritratto impressionista, il rossetto una pennellata cremisi su bianco pallido.
La sua collega tamburellò le dita attorno al simbolo della Mayflower Foundation stampato in bianco sulla tastiera dell’ascensore.
«Andiamo tutti al quarto?»
Alla destra di Diana, quello che le pareva fosse Colbert fece cenno di sì, e Clayton grugnì un assenso.
Una mano bloccò le porte e un ometto dalla giacca scura sgusciò nell’ascensore.
«Scusate, eh.»
Si sistemò gli occhiali da sole. Le lenti rosso scuro, sotto ai neon, gli coloravano il volto di una tonalità strana, un fucsia acceso.
Diede loro le spalle, le porte metalliche gli si chiusero davanti alla faccia.
L’ascensore partì con una spinta morbida.
La macchia cremisi delle labbra di Laila fremette.
Cosa…
«C-sessantaquattro.» Bisbigliò la segretaria, rivolta agli agenti.
Clayton si irrigidì, gli altri agenti si scambiarono un’occhiata.
«Signore, lei…»
La mano dell’uomo schiacciò il pulsante di stop, l’ascensore si arrestò con un singhiozzo.
«Vi chiederete perché vi ho voluti tutti qui.» Ridacchiò.
C-sessantaquattro.
Il braccio di Colbert sfiorò il suo. Diana si spostò di mezzo passo a sinistra, per lasciargli lo spazio per estrarre la pistola.
Un codice C-sessantaquattro, proprio oggi! Che sfiga del cazzo.
«Signore, non si muova!» Clayton spostò il cappotto dal fianco.
L’uomo si girò, gli occhiali in mano.
«A me gli occhi.»
Il timpano di Diana fischiò. Il trillo si trasformò in una nota di violino, così vibrante che le riverberò nelle ossa.
Le formicolava tutto il corpo, come quando un braccio addormentato inizia a riprendere sensibilità.
Non li vedeva bene, i suoi occhi, solo la luce. Una luce fucsia acceso, lisergica.
Il mondo continuava a tremare.
Sbirciò Colbert e pregò che avesse già impugnato la pistola, ma non c’era più la sua faccia.
Al posto della testa aveva un muso da elefante, con la proboscide, le zanne e le lunghe orecchie pendenti.
Le ossa le diventarono di ghiaccio, congelarono la carne.
L’uomo si schiarì la gola.
«Gentili lavoratori, vi ringrazio per esse entrati nella Mayhem Foundation.» Premette il tasto per il quarto piano.
«La riunione di oggi avrà solo un paio di fasi. Per prima cosa ammazzate tutti quelli che trovate. Per seconda cosa penso possiate mangiarvi le budella a vicenda. Ci sono domande?»
Clayton aveva un muso da tigre, Laila quello di un’oca col rossetto sul becco, gli altri erano rane, zebre, galli.
Ringhiarono tutti, una sorta di verso collettivo.
Diana urlò, ma la bocca non le si aprì e uscì solo un mugolio.
Dio, Dio Cristo santissimo! Non è un C-sessantaquattro!
Raggiunsero il quarto piano. L’ascensore fece ding! e le porte si aprirono.
L’uomo fece segno di andare con la mano.
«Buon meeting a tutti.»
Gli animali sciamarono fuori. I loro strepiti graffiarono le orecchie di Diana, ancora piantata sul posto, e vennero subito coperti dai colpi delle pistole.
Gli occhi dell’uomo davanti a lei erano come il rossetto di Laila, due pennellate di fucsia acceso in mezzo al suo volto.
Quello venne verso di lei, le suole ticchettarono sul pavimento di metallo.
Le schioccò due dita davanti alla faccia.
«Allora? Tu non ti muovi? Che cazzo di problema hai? Rispondi.»
La sua voce acuta continuava a sembrare un violino.
«G-gli occhiali.»
«Gli occhiali? Sei miope?»
«Sì.»
Stai zitta! Non gli dire niente!
L’uomo sbuffò.
«Nome e cognome.»
«Diana Burgess.»
Non riuscì a frenare la lingua, parlare sopra quel trillo nelle orecchie era meraviglioso. Si sforzò di muovere ancora le labbra, ma niente.
L’uomo le afferrò il braccio.
«Cammina, Diana Burgess.»
Il modo in cui pronunciava il suo nome le fece venire le ginocchia molli. Strascicò i piedi dietro di lui, continuando a farsi strattonare.
L’uomo si inoltrò tra le scrivanie, passò accanto a una donna con la gola tagliata, riversa a terra.
«Hai degli occhiali di riserva?»
«Sì.» Lei scivolò sulla moquette viscida, ma lui la tenne su per il braccio.
I capelli biondi di Sally si fondevano alla chiazza di sangue attorno alla sua testa.
Diana urlò di nuovo, ma stavolta dalla bocca non uscì nemmeno un rumore.
Dio perché sta succedendo? D-dove sono le contromisure?
«Li tieni alla scrivania, gli occhiali?» L’uomo fece schioccare la lingua.
«Sì.»
Stai zitta! Zitta!
«Dov’è?»
Il braccio di Diana si alzò da solo, puntò la seconda scrivania della terza fila.
«Lì.»
«Ma bene.»
Voleva serrare i denti fino a sentire il sangue sulla lingua, ma i suoi muscoli erano di pietra.
Non c’erano più spari, ma le urla continuavano. Poche file più avanti la figura con la testa da elefante, sfocata, sollevò qualcosa di grosso sopra la testa.
A terra sotto di lui qualcuno strisciava, le unghie piantate nella moquette.
Diana non riuscì a trattenere il fiato.
Colbert schiantò la scrivania sul cranio della segretaria prima che potesse riconoscerla.
«In che cassetto sono gli occhiali?» L’uomo le lasciò il braccio.
«Nel secondo.»
Il cassetto stridette sulle guide, l’uomo ci rovistò dentro e tirò fuori un astuccio nero.
«Qui?»
«Sì.»
Tirò fuori gli occhiali, lo gettò via e aprì le asticelle. Glieli appoggiò con delicatezza sul naso.
«Ci vedi bene, Diana?»
I suoi occhi erano due voragini, due pozzi pieni di quel fucsia lisergico che vorticava senza sosta.
Diana non riusciva nemmeno a piangere.
«Da destra vedo un po’ sfocato, ancora.»
«Perché?»
«Ho la lente a contatto.»
Lui sbuffò tra i denti.
«Oh, ma bene.» La voce acida era infastidita. «Sai cosa facciamo? Cavati l’occhio.»
Diana sussultò. La mano sinistra sollevò gli occhiali, la destra salì lungo la guancia.
«N-no… ti prego.»
Le lacrime iniziarono a uscire, tutte le lacrime che non aveva pianto prima. La mano rallentò.
«Oh, fai resistenza? Fantastico.»
L’uomo si sputò sul palmo e le afferrò il polso.
La pelle di Diana avvampò, una scarica elettrica le attraversò il braccio, lo stomaco, le gambe.
«Ficcati quelle dita nell’occhio e cavatelo con le unghie. Mi stai facendo perdere tempo.»
Le mollò il polso e la mano scattò su. Le unghie si piantarono nella gelatina del bulbo oculare.
Diana urlò, il fuoco le trafisse il cranio. La mano, però, non si fermava.
«Dio!» urlò ancora, le unghie di plastica affondarono e tutto divenne rosso cupo.
La moquette le accarezzò le ginocchia.
«Uhm. Troppo dolore per resistere. Che speco di tempo.»
L’occhio pulsava, le irradiava aghi di dolore dentro il cervello.
Il click metallico di una pistola che veniva armata le fermò il cuore.
«No! Ti prego, ti prego, i-io farò tutto…»
Qualcosa le afferrò i capelli.
Si ritrovò davanti un sorriso e due buchi che davano su un inferno fucsia.
«A me gli occhi, Diana.»
Le mise in mano qualcosa di metallico, pesante.
«Facciamo una prova, eh? Puntatela alla tempia e vediamo quanto resisti. Resta ferma qui.»
Il suo braccio formicolava ancora. La bocca della pistola le strisciò contro la pelle, tra i capelli.
Lui le diede le spalle e si diresse verso il fondo della stanza.
«Uno, due, tre…»
L’occhio bruciava, sulla guancia scendeva qualcosa di caldo, e lei sapeva che non erano lacrime.
Provò a muovere la mano. Le dita le risposero con un tremito leggero.
«… sette, otto, nove…»
Ancora qualche passo, ancora qualche passo e ti…
L’uomo si girò, la mano all’altezza del fianco messa a mo’ di pistola.
«Diana?»
Serrò i denti, ma la bocca si mosse da sola.
«S-sì?»
«Premi il grilletto.»

***

Quince si rigirò la pistola in mano.
Così macchiata di sangue aveva un suo senso.
Però mi sporcherà la giacca.
La ripulì sul tailleur di Diana. La canna lasciò strisce rosso scuro sulla stoffa.
Si rimise gli occhiali, per dare a quel posto così grigio un po’ di rosso in più.
I suoi bravi pupazzetti avevano fatto un bel massacro, a dirla tutta. Bartolemy e i capoccia sarebbero stati contenti.
Passeggiò tra le scrivanie spruzzate di sangue e scavalcò il corpo della bionda sgozzata.
«Ragazzi, mi servono nove corpi. Dovete portarli all’uscita sul retro, ma non dovete romperli. Mi servono interi.»
I suoi burattini annuirono tutti assieme.
Chissà se qui alla Mayflower c’è una versione di me che lavora per loro?
Tornò all’ascensore e pigiò il tasto del quinto piano. Infilò di nuovo al pistola nella fondina dentro al giacca e inserì la sicura con un colpo del pollice.
La Soglia poteva attivarla anche dopo, in culo a Bartolemy.
Le porta scorrevoli si aprirono. Sul muro del corridoio c’era una targa di metallo dorato, con la scritta “centro agenti operativi”.
In un grande stanzone, tutto divisori grigi e scrivanie, stavano seduti, a occhio, una quarantina di uomini.
Quince battè le mani per richiamare l’attenzione.
«Signori! Scusate un momento, prego! Signori…»
Alcune teste si sporsero dai divisori, qualcuno sbirciò dall’alto.
Un mormorio basso animò l’intero ufficio.
Quince ridacchiò e attese che le teste fossero almeno una ventina. Un uomo in camicia, con la fondina a spalla e col cappotto nero in mano, uscì dal suo cubicolo e lo scrutò, dubbioso.
«Lei chi è, scusi?»
Quince sorrise e si schiarì la gola.
Abbassò gli occhiali.
«A me gli occhi.»

Racconto di Luca Vitali