Se c’è una cosa che ho appreso durante tutto il tempo della mia latitanza è che la gente non sta a guardare troppo quello che succede, soprattutto se si è uno straccione come me. Non so perché, ma credo che il solo pensiero di relazionarsi con un mendicante qualunque metta a disagio, in particolar modo se ci si trova nelle zone centrali di Farayen. Il popolo è troppo impegnato ad abbassare la testa. L’omertà è la vera regina di questa splendida città. Il re? Lui la sposerebbe, se potesse.
Noi, seduti ai lati della strada, non esistiamo, siamo invisibili. Nelle strade principali, nei giorni con più affluenza dovuta al mercato, è usanza calpestare i mendicanti. Noi non siamo lì, facciamo parte della strada. Siamo il mattone, il legno e il ferro, i materiali che si usano per costruire. Siamo considerati tali e, se questa è la verità, non posso biasimare nessuno. Io, delle sorti di un muro, non mi interesserei neanche per errore.
Se questo in un certo senso potrebbe essere considerato un bene, soprattutto per un latitante come me, d’altro canto è una condanna a morte: quasi tutte le notti quelli più sfortunati sono costretti a ricevere abusi dalle guardie ubriache che vogliono ostentare la loro mascolinità. Per le ronde notturne è un passatempo, un gioco a chi è più forte, una storia di eroi che hanno sconfitto il male, una storia da raccontare a qualche puttana, sperando di avere uno sconto.
Come se non bastasse, i poveri abusati vengono lasciati alla loro sorte. A dirla tutta, gli uomini del re si divertono a scommettere se moriranno o no, quando e come succederà. Non è un segreto, infatti, la bisca che si venne a creare dopo che una guardia lasciò in fin di vita un vecchietto, conosciuto da tutti noi come ‘Stretto’. Mi venne raccontato che la guardia, vantandosi dell’atto eroico che aveva portato a termine con l’amico, scherzò sul fatto che sarebbe stato disposto a puntare la paga intera di un turno di lavoro sulla certezza che quel ‘vecchiaccio malefico’ sarebbe sopravvissuto alle bastonate inferte. Inutile dire che l’indomani sarebbe ritornato con molti lividi, procurati dalla sua gentil donzella, scossa dalla stupidità con cui il marito aveva perso tutto quel denaro. ‘Stretto’ morì, e non rapidamente. Soffrì, si lamentò, pianse maledicendo gli dei e, dopo una notte di atroci supplizi, si accasciò con la schiena sul muro, seduto ai lati della strada.
Rimase in quella posizione per molti giorni, forse settimane. Nessuno voleva occuparsene, nessuno voleva toccarlo. Era alla pari di una carcassa di un mostro qualsiasi. Ma i mostri, quelli veri, erano ben altri. Non un vecchietto che faticava anche al solo pensiero di fare due passi.
E i mattoni, il legno e il ferro cosa fecero? Niente. Magari speravano di mandare qualche messaggio. ‘Ci siamo anche noi’, avranno pensato. Nessuno si mosse. Tutti credevano in questa specie di ridicola protesta, tutti cercavano di comunicare con la gente. Non lo nego, per un attimo ci credetti anche io.
‘Stretto’ ormai puzzava e si stava sciogliendo. Che buffo, in un certo senso si stava effettivamente trasformando in ciò che per tutta la vita è stato: il mattone, il legno, il ferro. Il sangue.
Dietro la promessa di un pezzo di pane, il fornaio ‘assoldò’ due senzatetto, spazientito dal fatto che quell’orrore stava inficiando negativamente sugli affari. I due si erano sempre dichiarati vicini a ‘Stretto’. Sono sicuro che gli sono stati vicini quando l’hanno buttato nel fiume. Un semplice pezzo di pane ha rotto l’integrità, l’amicizia e la voglia di portare avanti quella nobile causa. Un pezzo di pane talmente piccolo che non sarebbe bastato nemmeno a un bambino. Un pezzo di pane che provocò il litigio. E dal litigio si finì alle mani. Dalle mani, alla morte di uno dei due. ‘Stretto’ non c’era più, eppure, seduto ai lati della strada, un altro cadavere.
Il pezzo di pane non venne mai mangiato. Rean – il ragazzo scheletrico che aveva ammazzato il suo amico – non riuscì ad accettare ciò che aveva fatto. Il suo volto diventò rapidamente scavato dalle lacrime, i suoi occhi riuscivano a stento a vedere. Piangeva e urlava, correva avanti e indietro, inciampava, si faceva male. Era totalmente impazzito. E quando finirono le urla, i pianti e i passi, tutti capirono che Rean non c’era più.
Era possibile scomparire dal nulla? E se non fosse veramente scomparso? Se l’avessero rapito o fosse scappato? Queste erano le speranze e i dubbi di chi non voleva credere di aver perso tre vite nel giro di pochi giorni.
Ma io sapevo com’era andata veramente. Un pezzo di pane, mai mangiato, aveva ucciso due uomini. O meglio, credevo di sapere.
Rean si ripresentò qualche giorno dopo. Per meglio dire, il corpo di Rean lo fece. Quasi irriconoscibile dai tagli, le scorticature, gli enormi buchi che aveva sulle braccia e sulle tempie, era stato lasciato con gli occhi ancora aperti e una smorfia di dolore in viso che mai e poi mai mi sarei dimenticato.
Il panico fu il secondo ad arrivare. Alle mie orecchie si presentarono voci che dicevano che in tutte le zone di Farayen, partendo dal centro fino ad arrivare alle mura, erano stati rapiti dei mendicanti, per poi essere lasciati, qualche giorno dopo, nello stesso luogo dove erano stati visti l’ultima volta.
Decisi di andare a parlare con Vistra, una delle poche persone che mi erano rimaste vicine. Eravamo stati molto uniti, in un periodo in cui lei si prese cura di me senza volere nulla in cambio. Ma quando litigai con una guardia che stava per tirarle un ceffone, dovetti cercare nuove zone dove poter dormire. Questo non escluse le varie visite che ci facevamo ogni tanto. Trovai Vistra nel suo solito posto. Immobile, giaceva a bocca aperta ai lati della strada, col sangue che non finiva più di sgorgare, con gli occhi sgranati che solo chi aveva sofferto le pene dell’inferno prima di morire poteva avere.
Quando finirono anche le lacrime, mi resi conto che ero avvolto da un clima generale di rassegnazione. Passarono giorni, settimane, mesi. Il mattone, il legno e il ferro aspettavano lentamente di essere abbattuti. Non si parlava più, non ci si muoveva più. Si aspettava.
E, quando vennero a prendere me, avevo già capito fin da subito che sarei ritornato al mio posto da lì a poco, seduto ai lati della strada, con gli occhi vuoti che solo un muro può avere.
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Racconto di Simone Paggetti
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