Slag insiste perché conosca subito i suoi compagni di viaggio, anche se vorrei tanto aspettare Alec. Lui ci sa fare con le persone, non è come me e Dood. Mi guardo intorno per cercarlo, ma niente. Ancora non è arrivato.
Nella sala fa troppo caldo, c’è troppo rumore. Le unghie di Dood raspano contro il mio spallaccio di cuoio. Gli accarezzo le piume per tranquillizzarlo.
La luce delle lampade mi costringe a strizzare gli occhi, mentre seguo Slag.
Per primo noto un uomo pallido e gigantesco, che siede sulla panca a gambe larghe e parla col ragazzo che ha di fronte, un magrolino in verde, coi capelli rasati. Non riesco a capire cosa si dicono, ma sembra che stiano ridendo e litigando nello stesso momento. Il terzo è un tizio piuttosto anonimo, ben vestito, che ha tutta l’aria di essere un mercante di città. Si guarda intorno placidamente, mentre fuma la pipa. Ne manca uno.
— Credevo foste in cinque.
Slag si aggiusta il mantello sulle spalle e annuisce.
— Moccioso è in camera. Troppa gente per lui.
Come lo capisco.
Appena mi avvicino, le risate si spengono. L’uomo alto mi guarda torvo. Ha un vecchio ematoma giallognolo sullo zigomo destro.
— Tu devi essere Erendhel.
Il suo accento è del Bephigrast. Di Alalia, credo, o forse di Sevnika. Mi sforzo di sorridere.
— Potete chiamarmi Eren. E questo è Dood.
Dood arruffa le piume, senza muoversi dalla mia spalla.
— Piacere di conoscervi, Eren e Dood. Io sono Jack. — dice il ragazzo coi capelli corti.
Anzi, no. È una ragazza. Anche i suoi occhi, come i vestiti, sono verdi.
— E loro sono Tomm e Squalo.
La ragazza indica prima l’impassibile mercante, poi il bephigran. La domanda mi sfugge dalle labbra.
— Squalo? Sul serio?
Il gigante chiamato Squalo ride, ma il suo sorriso è più un ringhio. Assomiglia a una bestia feroce che mostra i denti.
Sollevo il boccale e lancio un’occhiataccia preventiva a Jack.
— Che c’è? — sibila, offesa.
Le labbra le si piegano in un broncio adorabile. Che bugiarda.
C’è che non mi fido di te.
Avvicino la bocca al peltro, piano. Nessun pizzicore, questa volta. Jackie mi guarda come per dire “Visto?”.
La mia birra fa schifo ed è calda come piscio. Il maiale allo spiedo, invece, ha un buon odore. Rosmarino, bacche di ginepro. Allungo una mano sul coltello. La scossa elettrica mi punge le dita. Mi risale lungo il braccio fino al collo.
— Karav!
Cazzo. Lo sapevo.
Cerco di muovere la mano, ma è tutta intorpidita. Jack scoppia a ridere e non la finisce più, la stronza.
La smette solo quando ritorna Slag, insieme a una delle nostre guide. Il nuovo arrivato si avvicina. È per metà elfo di Yeglea, lo si capisce dalle orecchie. Ha i capelli e la pelle completamente bianchi e un grosso gufo delle nevi sulla spalla, bianco quanto lui.
Ci pensa Jackie, come sempre, a fare le presentazioni.
Il mezzelfo mi fissa con gli occhioni slavati. Vuole sapere come mai mi chiamano Squalo. Tomm gli fa subito tutto l’elenco.
— Beh, ovviamente è per i morsi. Da quando lavora con me ha strappato ventisette giugulari, otto nasi, otto trachee…
Esita, quando arriva alle dita.
— Quante sono? Eh, Squalo? Sedici? Diciassette?
L’albino, se possibile, si fa ancora più pallido. Sto per ridergli in faccia.
— Diciannove.
Jack si gira di scatto verso di me, minacciosa.
Slag appoggia una mano sulla spalla del mezzelfo. Quando ride, gracchia come un corvo.
— Non ti preoccupare, Eren, Squalo è un bravo ragazzone.
Tomm si gratta il mento.
— Avanti, sedetevi.
Il mezzelfo obbedisce e si siede accanto a Jackie. Lei gli schiaccia l’occhiolino.
— Secondo Slag sei un ottimo acquisto. La migliore guida della Valle.
L’albino balbetta qualcosa. Il rossore gli colora tutta la faccia, fino alla punta di quelle sue fottute orecchie elfiche.
Il mezzelfo sembra a disagio, quasi impaurito. Squalo e Tomm, da veri bastardi, si divertono a peggiorare la situazione con la storia dei morsi. Parlare di affari è quasi un sollievo.
— Slag mi ha detto che cercate una persona.
Erendhel ha una voce musicale. Mentre parla, accarezza piano il gufo sotto il becco. Dood socchiude gli occhi e lo lascia fare.
Tomm beve un sorso di vino e annuisce.
— Un mago imperiale. È scomparso nella foresta circa due lune fa.
Il mezzelfo solleva le sopracciglia candide.
— Probabilmente è morto.
Ma non mi dire.
Tomm storce la bocca. Il vino, qui, è anche peggio della birra.
— Aye! Però dobbiamo esserne sicuri.
Slag si sporge leggermente verso Eren. È prudente, il vecchio Slag. Quando parla, lo fa a bassa voce.
— Il mago aveva due oggetti con sé. Oggetti preziosi, che il mio Signore vuole che recuperiamo. Anche se fosse morto, dobbiamo trovare quel che ne resta.
Sempre che resti qualcosa.
Squalo si sfrega gli occhi di continuo. Sta proprio per addormentarsi. Allungo una gamba sotto il tavolo e gli pesto un piede, piano. Lui mi fa un sorriso stanco, alzando appena gli angoli della bocca.
Eren raccoglie dal tavolo un pezzetto di carne e lo avvicina al becco del gufo. Dood lo ingolla soddisfatto e gli strofina la testa contro il viso.
— La foresta è molto grande, ma è difficile spingersi in profondità. Se il vostro mago è morto lì, il corpo non sarà lontano dai confini. I cani di Alec lo troveranno di sicuro.
Squalo sbadiglia vistosamente e io dopo di lui. Mi stiracchio leggermente sulla panca.
— Quando partiremo?
Le orecchie di Eren diventano rosse. Succede ogni volta che apro bocca.
— Giusto il tempo di prepararci come si deve. Tra due giorni, direi. Voi che ne pensate?
Tutti quanti annuiamo. Tutti tranne Squalo, che gli fissa le orecchie. Deve smetterla di fare il possessivo, nemmeno fosse mio fratello.
Eren spinge un po’ indietro la panca e si alza.
— Ora è meglio che andiate a riposare — sussurra — Però c’è una cosa che voglio dirvi subito: è molto importante che non pronunciate i vostri nomi a Illhebron. Mai. Per nessun motivo. La vecchia foresta ha orecchie molto attente.
Squalo sbruffa una risata, ma il mezzelfo ci guarda serissimo. Sul viso giovane, i suoi occhi sono stranamente antichi.
— Rivelare il nome di una persona la incatena per sempre laggiù.
— Stronzate! Favole di contadini! — ribatte Squalo.
Eren gli sorride, ma il suo sguardo si vela di tristezza.
— Sì, può darsi. Però è meglio non rischiare.
Nonostante il calore del camino, un brivido mi passa nella schiena.
Mi metto a ripulire i boccali con uno straccio e intanto osservo la sala. Il Bardo suona una canzone di Urwine, una di quelle nostre ballate che parlano di pini e di praterie. Chissà chi ce l’ha insegnata, a quello.
Il lago luccica, netto come specchio
La cicala mi canta nell’orecchio.
E per un attimo son nel mio villaggio
Nella mia casa, nulla è mai mutato.
Stanco ritorno, come da un viaggio,
Alla mia Valle, ai miei boschi son tornato.
Verde mia Valle, di rovo e di ginepro
Con me ti porto in questo luogo tetro.
Brilla la spada, il sangue pretende
Il sole tramonta, la notte ci attende.
Alec piange come un marmocchio. Prima o poi succede a tutti, quando il Bardo canta, ma lui c’ha qualcosa che non va. Ci faccio segno di avvicinarsi e allora arriva piano piano, strascicando i piedoni e tirando su col naso.
— Ciao, Bery.
— Senti un po’, che diamine ti succede ?
Lui mi si fa più vicino e dice, a bassa voce:
— Eren ti ha già detto di Illhebron?
Faccio no con la testa e lui ricomincia a frignare. Sta proprio messo male: è bianco come uno straccio. Aspetto che vada avanti, ma lui niente.
— Embè? Mi spieghi o no?
— Abbiamo accettato un lavoro da un gruppo di dannati imperiali, che i diecimila inferni se li prendano! Io e Eren dobbiamo portarli laggiù, nella foresta. Dicono che ci pagheranno a peso d’oro, ma diamine, Bery, ho una paura fottuta.
Le loro solite idee del cazzo.
Penso che sono dei veri somari, ma ci dico un’altra cosa.
— E di che c’hai paura? Hai i tuoi cagnacci! E poi Eren c’è pure già stato, a Illhebron.
E ci è quasi morto. O così ha detto Jerry.
Alec si liscia la barba e fissa il vuoto.
— Non lo so, Bery. Ho un brutto presentimento. Sento che non tornerò più a casa mia, come il tizio della canzone.
Indica il Bardo con la testa. Quello, che non capisce di che stiamo parlando, alza il bicchiere di idromele e ci sorride. Se lo scola tutto. Diamine, come cazzo si fa a suonare il liuto conciati così?
–
Racconto di Melissa Negri.
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