A quest’ora, avrei potuto essere ricco.

Se solo avessi ricevuto un euro – o duemila lire, all’epoca della mia infanzia – ogni volta che qualcuno ha riso del mio nome, adesso non starei qui dentro, in questo food truck di seconda mano, tenuto insieme con nastro adesivo e sputo, ma in uno di quelli nuovi, così lucidi di modernità che ti sembra quasi di star dentro a una navetta spaziale. Quelli in cui ti basta premere un comando sul telefono per far partire i forni e quelli iniziano a preparare i panini da soli. Avrei risparmiato tempo e fatica, ma avrei anche perso il gusto di fare ciò che Nonna B mi ha insegnato: preparare un buon pasto partendo dalle basi.

«Sono cinque euro» dissi sporgendomi sopra il frigo delle bibite. Il truck si chinò in avanti insieme a me con un gorgoglio di ammortizzatori scarichi.

Quando mi guardarono, i cinque ragazzini smisero di ridere. Uno dei cinni mi fissava imbarazzato, le orecchie rosse come il culo di un macaco, lo smartphone bloccato a mezz’aria. Stava per scattare una foto alla mia insegna, ma cambiò idea all’istante, forse intimorito dalla mia stazza.

«Dai, scherzavo» provai a smorzare la tensione, sforzandomi di sorridere a mia volta. «Cosa vi preparo?»

 

Branding Braian: Un racconto sperimentale di cucina evocativa

 

Sì, mi chiamo Braian.

Non Brian. BRAIAN.

Non so bene cos’è successo all’anagrafe. Forse colpa di Nonna B, che aveva fatto solo fino alla quinta elementare, e l’inglese manco sapeva cosa fosse. Stessa cosa si può dire per lo stordito dell’ufficio. Fatto sta che mi son ritrovato con questo nome ignorante che non ho né voglia né tempo di cambiare.

È stata mia madre a sceglierlo. Per anni ho pensato che si fosse ispirata a un personaggio delle soap opera che adorava tanto, o a un artista altrettanto famoso. Solo molto tempo dopo la sua morte, ho scoperto che mi aveva dato il nome di un pattinatore statunitense, Brian Boitano, vincitore della medaglia d’oro alle olimpiadi invernali di Calgary, nel 1988.

Mentre mia madre guardava rapita le evoluzioni e i volteggi perfetti, commuovendosi perché quel ragazzo sembrava volare felice come un angelo, mio padre ha deciso di tornare a casa dal bar.

Quando ha visto i piatti ancora nel lavabo e mia madre davanti al televisore, ha iniziato a darle calci e pugni, scaraventandola per terra, mentre sullo schermo Brian sorrideva e faceva il giro della pista a braccia aperte per accogliere le ovazione del pubblico.

Ho deciso di nascere quel giorno. Più che altro ero curioso di vedere in faccia lo stronzo che picchiava mia madre tutte le sere. Forse anche io le avrei prese di brutto, forse sarei morto insieme a mia madre, ma Nonna B aveva in mente altri piani per noi. È entrata in casa con la zappa in mano, gli immancabili stivali verdi sporchi di fango dell’orto, il grembiule gonfio di prezzemolo, e ha iniziato a colpire il figlio con il manico di legno finché non lo ha fatto scappare via come una bestia feroce.

 

***

 

«Ma scusa, non era “Una carezza in un pugno”? Qui sul menù c’è scritto “Una carezza e un pugno”. Guarda che non si chiama mica così la canzone di Celentano». La saputella, una cinquantenne con un’audace minigonna inguinale, un’abbronzatura falsa come una moneta da tre euro e un top fluo che non avrebbe portato nemmeno una quindicenne sotto acidi, mi guardava in attesa, a braccia conserte, ben premute contro i seni prosperosi, proiettati strategicamente in avanti da quella stretta.

Sospirai. «Lo so, ma posso prendere una licenza poetica?»

«Sì, ma se lo compro, mi dai una carezza o un pugno?»

Eh, che pazienza. «Ti do un panino con un ragù da volar via, proprio come lo faceva mia nonna».

Presi una ciabattina e la spezzai a metà, la buttai nel fornetto per cinque minuti e quando la tirai fuori, la mollica fumava come un drago. Afferrai la pagnotta per la crosta canterina, poi scavai una tana con il cucchiaio e iniziai a riempirla come un portafoglio con quel nettare rosso e denso che continuava a sobbollire sul fuoco.

Rividi il volto di Nonna B, le sue sopracciglia spettinate, i peli bianchi sul mento rugoso, gli occhi lucidi e profondi di chi ha visto l’abisso e ormai conosce il passaggio sicuro per attraversarlo.

La sua ricetta per curare ogni male era cucinare e soprattutto sminuzzare. Potevi capire il suo stato d’animo dalla precisione con cui tagliava le verdure. Più i cubetti erano piccoli, più Nonna B era agitata, arrabbiata, sconvolta.

Un giorno, apparentemente come gli altri, sono tornato a casa da scuola e ho sentito il rumore ripetitivo del coltello colpire il tagliere di legno. Mia nonna era chinata sul tavolo, ogni tanto faceva una pausa e si asciugava le lacrime con il grembiule. Ogni volta che tagliava le cipolle, era sempre così. Ho fatto il giro del tavolo e ho posato lo zaino, carico di libri e quaderni, sulla mia sedia. Poi ho osservato Nonna B con più attenzione: il tagliere era vuoto, macchiato di verde e arancione, ma la nonna continuava a tagliare il nulla. Quando si è accorta di me, è riuscita a recuperare il contegno. Ha fatto scivolare la lama del coltello grattando la superficie di legno e lo ha posato sul tavolo. È così che ho scoperto della morte dei miei genitori, di come mio padre, in permesso premio dal carcere, era andato a cercare mia madre e le aveva fracassato il cranio con un sasso. Poi si era buttato giù dalla Pietra.

Nonna B ha aspettato la mia reazione, ma non ho fatto nulla. Sono rimasto immobile, svuotato, gli occhi incollati alle decine di ciotole piene di verdure sminuzzate sparse sul tavolo apparecchiato. Mi ha osservato a lungo, poi mi ha dato un pelapatate e una carota. Abbiamo mangiato minestrone per settimane, e ancora adesso, quando lo mangio, lo associo alla morte.

Da quel giorno in poi, ho cominciato a sbucciare, poi a sminuzzare e tagliare. L’atto stesso di cucinare è stato come una rinascita, una cura.

«Non devi trattenere niente» mi diceva sempre Nonna B. «Tutto quello che senti, sia bello che brutto, buttalo in una pentola e cuocilo».

Ogni volta che mi lamentavo mentre sminuzzavo le cipolle perché mi bruciavano gli occhi, Nonna B mi rifilava uno scappellotto e sbottava: «E allora piangi, Diobono

Ogni volta che controllavo ossessivamente la cottura di una pietanza a ogni minuto, Nonna B mi invitava alla pazienza.

Nonna B non mi ha mai risparmiato nulla, ma non mi ha mai fatto mancare il suo amore, che trasudava da ogni piatto, da un semplice ciambellone al limone, a un piatto di tagliatelle al ragù. Ed è proprio così che la ricordo: in piedi davanti alla stufa, con il grembiule immacolato sull’abito di cotone a fiori, gli immancabili stivali verdi che battevano il tempo mentre canticchiava “Una carezza in un pugno” – che lei chiamava “Una carezza e un pugno” – e il ragù ribolliva in sottofondo, borbottando arrabbiato nella casseruola.

 

***

 

«Güey, Hombre! Fammi salire» la doppia manata sul portellone del food truck annunciò l’arrivo di mia moglie Amparo: un metro e cinquantacinque di cocciutaggine e scaltrezza, e cinquanta chili scarsi di cuore.

Aveva studiato marketing in Paraguay ed era finita a pulire culi in Italia.

Nello specifico, è arrivata a casa di Nonna B in un fresco pomeriggio di aprile. Quando ho aperto la porta, insieme a lei è entrata anche una nuvola di piumini di pioppo e, come questi, è rimasta attaccata alla parete del corridoio, a fissarmi con quegli occhi neri dalle ciglia lunghissime.

Solo parecchio tempo dopo, mi ha confessato di aver avuto paura di me non appena mi ha visto. E non le posso dare torto: sono alto più di un metro e novanta, la cucina di Nonna B mi ha irrobustito bene. All’epoca portavo i capelli rasati e le occhiaie sotto i miei occhi blu erano abissi di preoccupazione e sfinimento.

Stavo attraversando un momento terribile. Nonna B aveva avuto i suoi primi episodi di smarrimento e stava diventando sempre più debole. Io mi ammazzavo di turni in ceramica per sostenere le spese e cercare di mettere da parte qualcosa per il food truck, ma non potevo più permettermi di lasciare Nonna B a casa da sola. Così, grazie al passaparola del passaparola, mi sono imbattuto in Amparo.

All’inizio ci annusavamo diffidenti, come cani randagi. Io la seguivo costantemente, pronto a correggere ogni suo minimo errore. Poi ho iniziato ad abituarmi a lei e ai suoi «Güey, Hombre!».

Amparo mi ha raccontato che la prima volta che mi ha incontrato sembravo un diavolo, con baffetti e barba curatissimi. Tutto il resto era uno sfacelo. Poi ha ammesso di aver capito che ero un uomo innocuo, goffo e leggermente simpatico, come un San Bernardo. Per me invece era stato amore a prima vista.

«Stai attento ad Amparo» mi diceva sempre Nonna B, e so che quello che intendeva non era la stessa cosa che mi dicevano i colleghi di lavoro e gli “amici” al bar. «Fai attenzione alla badante. Quella vuole solo sistemarsi». Quei discorsi li ho sempre trovati di una tristezza imbarazzante. La diffidenza nei confronti di tutto ciò che è nuovo, straniero, alieno. Chi meglio di me poteva smentire quegli stereotipi? Io che il lupo l’ho sempre avuto dentro casa, conservato negli incubi di Nonna B.

Era fuggita da suo marito insieme a suo figlio. L’aveva cresciuto, ma lui aveva ereditato lo stesso sangue cattivo di suo padre e, come suo padre, beveva e sperperava lo stipendio alle corse dei cavalli.

Quindi quel «Stai attento ad Amparo» era una supplica a non farle del male, per non rovinarle la vita. Come avevano fatto tutti gli uomini dei quali portavo il cognome.

 

***

 

«Braian. Amparo.»

«Buonasera, agente. Il solito?» mi affrettai a gettare il panino alla barbabietola rossa già tagliato a metà sulla piastra imburrata.

«Come sei formale! Quando ci incontriamo al bar, mica mi chiami agente» Ecco, lui era uno di quelli che mi aveva detto di stare attento alla badante. E quando ho aperto il food truck, è diventato uno dei miei migliori clienti. Ho persino cambiato il nome di un panino per lui: l’Autovelox, precedente conosciuto con il nome di Vamos a la Playa.

Presi la provola dal frigo e ne tagliai un paio di fette spesse che buttai sul panino ancora caldo di piastra. Amparo aveva messo la soppressata piccante nell’affettatrice e canticchiava mentre la lama rotante sussurrava a contatto con la carne. Cinque fette per un panino bello cicciotto. Spalmai la parte superiore con un paté di pomodori secchi e peperoncino, poi presi la carta per avvolgere il panino. Amparo mi fermò, estrasse il suo smartphone e scattò un paio di foto, poi si ritirò in un angolo a scrivere. Era sicuramente entrata nella nostra pagina di Instagram, dove c’erano un sacco di foto di quel panino. Era un codice silente tra noi e i clienti per avvisare che la polizia stradale si era appostata sulla provinciale per fare cassa.

Lo so, è una cosa che non si fa, ma chi non ha mai usato gli abbaglianti per avvisare di un controllo della stradale? Io e Amparo facciamo più o meno la stessa cosa. Solo che usiamo un panino.

 

***

 

La serata era stata piuttosto movimentata; Amparo si era dovuta assentare un paio di volte per riposare. O meglio, io l’avevo costretta a fermarsi per riposare. Ora stava spazzando il parcheggio e radunando i sacchetti della spazzatura.

«Basta! Vai a casa, qui ci penso io» l’implorai, mentre spargevo un filo d’olio sulla piastra pulita. Il timer del fornetto suonò proprio nel momento in cui il SUV nero si fermò nel piazzale con uno stridere di ruote. Un uomo massiccio scese dall’auto, indossava un improbabile trench color senape e una bandana rossa a coprire i capelli decolorati. Non avevo bisogno di avvicinarmi per leggere “Al Cōgh” stampato in giallo fosforescente sulla bandana. Appassionato di cucina e di wrestling americano della seconda metà degli anni ottanta, si era fatto crescere una paio di baffi a manubrio piuttosto spelacchiati per assomigliare al suo eroe: Hulk Hogan.

«Chica!» ruggì ad Amparo, che si spaventò facendo cadere la scopa a terra. «Güey, Hulk!» rispose lei sorridendo, poi si avvicinò e gli diede un pugno sul braccio.

«Oh no, non distruggermi, ti supplico!» rise Al Cōgh e la seppellì in un abbraccio, chinandosi per ricevere i due baci di rito.

«Non sciupare mia moglie» lo redarguii appoggiando il sacchetto con il pane caldo e croccante e la pentola del ragù su un tavolino già apparecchiato per l’occasione.

La storia di come ho conosciuto Al Cōgh è una cosa che condivido con pochi.

Avevo appena aperto il food truck, e gli affari non stavano andando troppo bene. Per intenderci, non portavo a casa soldi da mesi. Tutto quello che guadagnavo, lo davo ai fornitori. Poi un giorno è arrivato questo omone, proprietario di ben cinque ristoranti in Emilia, Al Cōgh, in preda a un’insaziabile fame chimica. Era l’ora di chiusura e non mi era rimasto quasi nulla, solo il fondo del ragù.

Quando mi ha chiesto di mangiare, io gli ho portato la pentola e il pane scusandomi a profusione. Non volevo farmi pagare.

«Sciocchezze!» ha gridato brusco, mentre mi faceva cenno di sedermi davanti a lui. Ha sollevato il coperchio e uno sbuffo di ragù lo ha raggiunto facendogli lacrimare gli occhi. Ha spezzato il pane e lo ha inzuppato ne sugo, raccogliendo le incrostazioni dal bordo interno della pentola, poi se lo è portato alla bocca macchiandosi i baffi e ha iniziato a masticare lentamente, assaporando il boccone.

Quando ha iniziato a piangere, non sapevo cosa fare. Gli ho passato una manciata di tovaglioli, sperando che non fosse in preda a una sbronza triste, costringendomi ad ascoltare noiose storie piene di rimpianto.

Invece mi ha ringraziato garbatamente e mi ha fatto i complimenti per il ragù. Poi ha indicato la mia insegna. «Nonna B» ha detto pensieroso, soffiandosi il naso con i tovaglioli. «È lei che ti ha insegnato a cucinare?»

Ho annuito sporgendomi verso di lui, fissandolo in silenzio mentre continuava a ripulire la pentola con gli avanzi di pane.

«Ma l’attività e tua. E cucini tu, giusto?» si è pulito la bocca e ha gettato la grossa palla di tovaglioli nel cestino. «Perché non c’è il tuo cazzo di nome sull’insegna?»

Ho sentito la mia faccia diventare una palla di fuoco per l’imbarazzo, per la prima volta da quando la maestra mi aveva sgridato davanti a tutta la classe per una cosa che non avevo fatto. «Il mio nome non ha niente di speciale, quello di mia nonna sì. Sto portando avanti la sua eredità, la sua religione».

Al Cōgh mi ha guardato pensieroso, le braccia conserte, la bandana rossa quasi gli copriva gli occhi. «Capisco, ma il brand è tutto e tu sei il brand, non tua nonna. Se nella tua attività non metti un pezzo di te che sia riconoscibile, rischi di essere sopraffatto dal mercato. Tutti si dimenticheranno presto di questo carretto nel quale hai investito sogni, tempo e desideri. E magari anche tutto quello che avevi in banca. Arriverai presto a odiarlo, a perdere l’amore per questo lavoro. Certo, dopo potresti venire a lavorare in uno dei miei ristoranti, ma non ti vedo chiuso in una cucina, a preparare piatti che non ti rappresentano. Vero?»

Ho scosso la testa sorridendo stancamente.

«Com’è che ti chiami, quindi?»

«Braian. Braian Bertoncini».

«“Panini da Brian”, scritto su una bella insegna anni cinquanta. La spatacchi sul camion ed è fatta» Al Cōgh ha tirato fuori una penna e ha iniziato a scrivere una nota sul tovagliolo.

Mi sono avvicinato per cercare di decifrare la sua scrittura da medico di base. «È Braian, non Brian. A-i-a. Praticamente si scrive come si legge».

Al Cōgh ha corretto la nota, poi ha rimesso la biro nel taschino del trench. «Bella sfiga,» ha commentato, «ma il tuo nome può essere la tua salvezza. Basta solo cambiare il mindset».

Seguire il suo consiglio mi ha cambiato la vita. Certo, all’inizio mi hanno perculato parecchio, ma poi sempre più persone hanno iniziato a fermarsi una volta per poi tornare, non solo per il mio nome, ma per quello che avevo da offrire.  Sono riuscito a portare a casa i primi guadagni e l’ansia mi ha parzialmente abbandonato.

 

***

 

«Oh là là! Posso?» Al Cōgh chiese il permesso prima di toccare il ventre gonfio di Amparo. «Sapete già il sesso del bambino?»

Io rabbrividii. La paura di non essere all’altezza era quasi soverchiante. E se fossi cambiato, e se mi fossi trasformato nella bestia che tutti si aspettavano diventassi?

Le mie mani iniziarono a tremare insieme al mio sorriso forzato.

«Bambina», lo corresse Amparo sciogliendosi dalla stretta di Al Cōgh. Mi raggiunse e posò le mani sulle mie spalle, trasmettendomi calore e calma. «La nostra Beatrice» aggiunse baciandomi la testa. Beatrice, come Nonna B, la donna che mi ha salvato dalla maledizione degli uomini della mia famiglia. La donna che, visto il mio cambiamento e la mia buona volontà, se n’è andata in punta di piedi una sera di ottobre, sapendo di aver fatto un buon lavoro crescendomi. Mi ha salvato dalla maledizione con coltello e pelapatate e ha curato ogni mia ferita.

Io e Amparo abbiamo mangiato minestrone per settimane con la certezza che, qualunque cosa fosse successa tra noi, non ci saremo mai abbandonati alla violenza, ma ci saremo seduti a un tavolo e ci saremo guardati negli occhi. Poi avremmo iniziato a cucinare, buttando gioie e dispiaceri nella pentola, divorandoli con le lacrime agli occhi, sempre grati per gli insegnamenti di quella donna speciale: Nonna B.

Racconto di Daniela Battistini
Vincitore assoluto del contest Stagionale “Cambiamento” del 2023.