È già lunedì.
«Ramos, dove cazzo è il Giò?»
«Non lo so, chef, non mi ha detto niente.»
Sono le dieci e mezza e quello stronzetto è in ritardo di un’ora buona. Non ricordo se sia mai arrivato in orario questo mese, lo fa per provocarmi.
«Ok, metto su io la polenta. Lele, le zucchine mi servono oggi!»
«Sì, chef!» Lele ha le mani di palta, ma almeno si presenta a lavoro.
«Quando arriva, lo metto al muro, te lo giuro.»
«Orcu dighel, non pensarci. Ci parlo io quando arriva. Non fare cazzate, Paul, se no passi dalla parte del torto. Capito?» La faccia di Ramos comincia a solcarsi per le lunghe giornate, la barba brizzolata lo fa sembrare più grande dei suoi quarant’anni. Forse ho quella faccia anch’io.
«Ok, fai tu.»
L’acqua nel paiolo bolle, creo il vortice con la frusta e comincio a buttar giù la farina taragna.
La porta si apre di botto e Giò entra ciondolando con lo zaino in spalla, lo butta in un angolo. Non ha il grembiule e non ha tolto i piercing. «Scusate raga, il treno era in ritardo. Scusa, chef!» Ha gli occhi rossi come peperoni, le palpebre stan su con gli stuzzicadenti, i capelli non vedono la doccia da un po’.
Ramos intercetta il mio sguardo assassino e mi fa segno col palmo di stare calmo. Fisso il vortice d’acqua bollente come potessi affogarci i pensieri omicidi, qualcuno dovrebbe insegnargli che la puntualità è rispetto e che dipendiamo uno dall’altro. Non so se ho caldo per il vapore o perché sono io la pentola a pressione.
Ramos gli appoggia una mano sulla spalla e gli dice qualcosa, ma è solo un brusio incomprensibile. Giò annuisce e va a mettersi il grembiule.
«Ramos?»
«Ohi.»
«Che gli hai detto?»
«Che le ore le recupera dopo servizio e che fa i piatti e le celle. C’ha una tipa che lo tira scemo, non è mica cattivo.»
«Mmh. Sei troppo gentile, quello si ammazza di canne. Noi abbiamo capito la storia perché ci hanno fatto il culo da pischellini. Gli fai un favore, se gli fai cambiare mestiere.»
«Oh, dai, adesso. Le abbiamo fatte anche noi le nostre stronzate da piccoli. Quante volte sei arrivato sbronzo alla mattina? E ce la siamo cavata. Cambia tanto da una bottiglia a qualche canna?»
Ripenso a quando in montagna ci paravamo il culo a vicenda, alle volte in cui tagliavo le verdure senza manco vedere il tagliere, con gli occhi vetrificati e la faccia di cemento, e mi viene da ridere. Certe cose non cambiano mai.
«E allora c’hai ragione. Ma a me Giò m’ha rotto il cazzo, a vent’anni correvamo noi per i vecchi e adesso corriamo per i pischelli. Alla prossima glielo dico.»
«Va ben. Ma vedi che a te c’han provato a farti cambiare mestiere? Ma te sei duro.» Ramos riesce sempre a scrollarsi i problemi della vita con un’alzata di spalle e a rigirarmi la frittata.
Butto in forno gli ossi buchi in un tripudio di salsa e brunoise e metto a sudare la cipolla per il risotto. Dopodomani ci servono ravioli di zucca per centodieci, meglio centoventi, non ci arriviamo manco con un miracolo.
«Osso e riso oggi, chef? Te li vendo tutti!» Abbo mette la testa pelata in cucina. Mi ricorda una tartaruga con gli occhiali, vestita da pinguino.
«Bravo Abbo, numero uno!»
«Numero uno!»
Il servizio se ne va via senza grossi sussulti, Abbo vende e si lamenta di Vale, che non sa manco portare il bere, come sempre. Mafalda fa la ronda silenziosa, fingendo di sistemare le posate. Incrocio un paio di volte Giò mentre gli passo la roba da lavare, ma non dico quello che vorrei. Ha la testa bassa sui piatti.
«Vieni in palestra, Paul?» Ramos condisce la frase con una pacca sulla spalla e un’espressione gentile che mi fa capire quanto gli sembro cotto.
«Dopo. Tiro su l’impasto dei ravioli, domani alla peggio dobbiamo finirli.»
«Ok, a dop!»
Pulisco la zucca cotta e aggiungo mostarda di frutta, menta, mascarpone, grana, patate, uovo, limone. Mixo l’intruglio finché non è una crema e assaggio. Delizioso, uno dei motivi per cui ancora mi sbatto in questo carnaio. Lo copro e vado a stoccarlo in frigo.
«Maledetti, chi ha sfesato così la fesa?! Adesso chi la paga?! Chi ha tagliato l’insalata? Maledetti…» Nella cella intercetto i ricci nero corvo di Mafalda che sbraita contro nemici immaginari, come sempre.
«Che c’è, sciura?»
«So che non sei stato te, ma quelli mi rovinano la roba. Voglio vedere se fosse casa loro.» Sono sempre ‘quelli’ i colpevoli, gli ignoti del Bottegone, autori di atroci crimini e ancora a piede libero. La sciura ha paura a dirmi le cose perché poi tiro su un casino.
«Eh, so’ ragazzi. Ha fatto già gli ordini per domani?»
«Sì, mi hanno fatto il prezzo per il puletro e il ribay, i quanciali arrivano venerdì e le buffole lunedì. Ma sei ancora qua?»
«Il lavoro è lavoro.» Evito di mandarla a cagare. Sto sgobbando gratis per lei da mezz’ora e mi spalmerei a dormire su uno dei tavoli, ma poi chi si ripiglia per stasera? Non faccio in tempo a rientrare a casa, ma se non mi prendo un po’ di tempo mio, ho l’impressione che sia la vita di un altro, che tanto valeva non alzarmi stamattina. Vado a sfogarmi un po’ coi pesi, per cambiare aria.
Come ogni giorno, non ho voglia di iniziare, ma alla fine non me ne andrei più via. Vorrei prendermela con la ghisa, ma finisco a rivangare le mie rogne con Ramos, che passa più tempo a massaggiarsi le contratture che ad allenarsi, sembra un orso che si gratta la schiena sugli alberi.
Diverse serie dopo, le scale del Bottegone aspettano minacciose il mio ritorno. Io non voglio essere lì. Lo spogliatoio è cosparso di resti di tabacco come il bosco di foglie in autunno, Lele e Giò non sanno manco rollarsi una canna in ordine.
Si riparte.
«Ramos, se mi copri, attacco i ravioli.»
«Tranquillo, boss.»
La serata è gestibile, devo sganciarmi solo un paio di volte per fare i cordon bleu. Mafalda insulta gli apprendisti, Giò ride con Lele, troppo, ma con noi nemmeno una parola. L’orologio mi fissa, tiranno e salvatore. Sono le dieci.
«Dai, stacca, finiamo domani.»
È Ramos che mi riporta al mondo reale. Sto per dire di no, ma il mio corpo mi implora di finire lì la giornata. Conto sessanta porzioni chiuse e non sono convinto.
«Ok. Dai che ce la facciamo.» Mento consapevolmente a me stesso.
Spazzo via la farina dal bancone e dai vestiti, passiamo piani e pavimenti e in dieci minuti mi ritrovo in macchina, cambiato.
Dopo mezz’ora di pilota automatico sono a casa senza rendermene conto, mi doccio e raggiungo Giorgia a letto.
«Ciao, amore, com’è andata?»
«Bene, dai. E tu?» Evito di vomitarle addosso le mie rogne e i miei timori.
«Tutto a posto. Dovresti chiedere un aumento, non è vita quella che fai. O cambiare lavoro.»
Mi pugnala così e si gira dall’altra parte, portandosi via la coperta.
Intanto è la mia non vita che ci permette di andare avanti. Ma forse me lo merito, se non ho mai trovato nulla di meglio. Quante volte ho pensato di cambiare, ma so che in giro è tutta la stessa merda. E se Giorgia spendesse un po’ meno. E tra un mese abbiamo il trasloco.
Vago nel labirinto di quei pensieri, poi svengo, più che addormentarmi. La mia routine.
Martedì mi sveglia in ritardo e a doccia/cesso/caffè sono già sotto pressione come fossi in servizio. Bacio Giorgia e cerco di stampare nella memoria il momento migliore della giornata. So bene che sono fortunato, non capisce la mia vita, ma è sempre con me in tutto.
Un’ora e venti di pilota automatico e podcast di Barbascura dopo sono di nuovo incatenato ai fornelli. È l’ultimo giorno per tirar su il banchetto.
«Ciao, Lele, ciao, Ramos!»
«Ciao, chef.»
«Ma non ci credo… ma Dio…» Giò è uccel di bosco pure oggi, il nostro eterno pezzo mancante.
«Che c’entra adesso Dio.» Proprio Ramos me lo chiede, bestemmiatore professionista quando il servizio gira male.
«È che io avrei sempre ragione, essendo suo cliente. Ma Dio non è che mi fa un gran bel servizio ultimamente.»
«Fagli una recensione a una stella: dispettoso, capriccioso, non ascolta e si diverte alle mie spalle. Ultima volta che prego.»
«Ridi, ridi, Ramos. Tu invece scrivi: mi ha lasciato con una moglie a carico e devo sgobbare doppio per mantenerla. Ogni tanto posso vedere i miei figli. Che scherziere.»
«Che pirla sei!» Ce la ridiamo, mentre tiro una sfoglia all’uovo lunga come il bancone e ci squenello sopra il ripieno a intervalli regolari. Penso alla vita di Ramos e non ho idea di dove trovi la forza.
«Lele?»
«Dica.»
«Non ti da fastidio che Giò arriva quando vuole e ti lascia a sgobbare?» A me lo darebbe, se fossi l’apprendista, correre dietro a uno che è cuoco da due mesi.
«Ma no, chef. Io so che son l’ultimo, a me non pesa. Voglio imparare tutto, così un giorno mi prendo un posto mio.»
«Auguri. Anche Giò era come te, due anni fa, ma è cambiato.»
«Ma no, dai. Giò è bravo, mi insegna un sacco di trucchetti. È che ha un periodo tosto a casa, tutto lì.»
«Tosto come?»
«Ma… non so se lo posso dire…» Lele mi valuta da dietro gli occhiali unti, fermo col pelapatate in mano. Non è ancora capace a lavorare mentre parla. Ricambio lo sguardo mentre ribalto la sfoglia sui ripieni.
«Non ti faccio la spia.»
«Ma… tipo che lui ha fatto la scuola per far piacere ai suoi, ma gli pesano gli orari e sta pensando di cambiare. Non riesce a uscire con gli amici e la tipa lo sta mezzo mollando.» Storia di un cuoco qualunque.
«E tu che ne pensi?»
«Ma, io vorrei essere bravo come lui in cucina, è portato, ma credo che uno debba essere felice nella vita.» Tutta quella verità da un sedicenne mi fa venire il magone.
«Sei un buon amico per lui, non cambiare.»
«Grazie, chef.»
La porta vola sui cardini, Giò entra come inseguito, lancia lo zaino nell’angolo.
«Scusate, ragazzi!» Evito di guardare l’ora e i suoi occhi rossi.
«Scusa un cazzo, Giò, mettiti a pelar patate con Lele. Cento grammi a testa, per centodieci. No, centoventi.»
Giò mette il grembiule e va in postazione. «Il treno…»
«I tuoi treni sono più imprevedibili che in un film con Denzel Washington. Stavolta c’erano i terroristi e gli ostaggi o i freni erano rotti?»
«Ah, ah. Che battuta da boomer, chef.» Per un attimo Giò è ancora l’apprendista sarcastico con cui me la ridevo.
Sono a novanta porzioni chiuse e i ragazzi stanno sbianchendo le patate in un pentolone d’acqua bollente. Con questo ritmo, stasera la chiudiamo.
«Cinque osso e riso, chef! Questi tedeschi qua se lo mangiano pure a colazione.» La pelata lucida di Abbo dà il via al servizio, tra i fumi di vapore e il casino di cappa e forno. Il rosmarino mi riempie le narici.
«Ragazzi, spostate il pentolone, che si comincia.»
«Faccio io.» Lele si lancia sulla pentola bollente con due torcioni in mano, come fosse una prova di forza.
«Da solo non ce la fai, sei ‘na sega.» Giò lo sfotte ridendo.
«Fate in due, pesa.» Vado avanti a pulire il bancone, c’è farina dovunque.
«Ce la faccio, ce la faccio.»
«Scommetto di no.»
«Giò, non stuzzicarlo.»
«Ho detto che ce la faccio.»
Lele prende il pentolone con la grazia di uno strongman e parte tutto sbilanciato nella mia direzione.
«Aspetta, va che scherzavo!» Giò scatta per aiutarlo, ma non sa dove mettere le mani, è già troppo tardi. Lele scivola sulla farina, resta in piedi, ma l’acqua bollente fa un’onda assassina, si impenna come uno tsunami, tento di schivarlo.
La mia manica destra è zuppa, è fuoco liquido. Levo la giacca appena realizzo e corro al lavandino, col braccio che brucia come un tizzone ardente. L’acqua gelata è un sollievo passeggero, una cascata di morfina. La pelle comincia già a fare le bolle.
«Orcu dighel, chef! Ti porto al pronto soccorso.» Dalla faccia di Ramos, direi che si è scottato lui.
«E chi lavora?»
«Ma chissene, si arrangiano i ragazzi. Muoviti.»
«I ragazzi stan bene?»
«Si son fatti niente.»
«Meglio. Raga, fatevi aiutare dalla sciura. Quando torno, vi faccio il culo a strisce.»
Lele e Giò mi fissano come un corteo funebre, mentre lascio la cucina.
Arriviamo in accettazione, Ramos si ferma a compilare i moduli, e per la prima volta in vita mia salto una fila. Tra pomate mentolate, garze e impacchi, se ne va un pomeriggio di autocommiserazione e bestemmie silenti. Questa mi mancava, chissà chi ho fatto incazzare nelle mie vite precedenti.
Rientro al ristorante col braccio da mummia e mi intercetta la sciura, che zampetta come una porchetta su tacchi. Ramos la schiva e fila in cucina.
«Madò, Paul, stai bene? Che t’hanno detto?»
«Ustione secondo grado, una settimana a casa per cominciare.» Le porgo le carte dell’ospedale.
«Sai che noi avremmo bisogno. Come facciamo col banchetto?»
«Che, non lo so? Stringiamo i denti e andiamo, il lavoro è lavoro.»
«Il lavoro è lavoro.»
«I ragazzi se la son cavata?»
«Sì, dai. Un po’ lenti, un po’ sporchi, ma se la sono cavata.»
Rimetto il grembiule, spolvero il campo di battaglia con la farina e torno alla mia guerra coi ravioli di zucca, piccoli infiniti bastardi gialli e arancioni, profumati di menta.
La radio è spenta, non vola una mosca, il motore della cappa satura l’udito. Ramos si prepara per il servizio serale. I ragazzi hanno il muso basso sulle verdure e non mi va di far loro il culo. E non riesco a fare niente di utile con la sola mano sinistra.
«Ragazzi, ascoltatemi. Avete visto che succede a scherzare senza testa in cucina.»
«Mi spiace un casino, chef.»
«Lele, fammi finire. Però succede. Adesso vi mettete voi ai ravioli, nei momenti morti e dopo servizio e non si stacca finché non ne abbiamo centodieci… centoventi porzioni, che si sa mai. E me li fate belli come i miei. Capito?»
«Capito.» Giò e Lele rispondono come alle litanie dei santi.
Il servizio non finisce mai. Il braccio destro urla appena sono a un metro da una fonte di calore, mi cadono le cose, e ho pena per Ramos che lavora per due. I ragazzi fanno un centinaio di ravioli, un po’ sghembi, un po’ sani, ma amen. L’orologio indica misericordioso le dieci e pone fine alle ostilità.
«Giò, finiamo io e te, che Lele non può stare dopo le dieci. Ramos mette in ordine. Tu metti i ripieni e chiudi, io li coppo.»
«Ma qua facciamo notte.»
«Guarda.» Gli mostro il braccio fasciato. «È notte pure per me. Vorrei essere a casa con mia moglie a guardarmi qualche stronzata Netflix, ma son qua.»
«Ma è una tua scelta, mica è colpa mia…»
«Appunto, devi scegliere se fare il cuoco o la persona normale, che esce la sera e sta a casa quando si fa male.» Lui mi guarda muto e mi rendo conto di quanto sia giovane e indifeso sotto i piercing da ribelle. «L’unico vantaggio è che trovi sempre, sto lavoro non ce lo rubano né le intelligenze artificiali, né gli immigrati.»
«Bel quadretto di merda.»
«Se hai pazienza, magari tra dieci anni trovi in mensa o in casa anziani, con turni più normali.»
«Non lo so, chef, come sogno fa un po’ schifo.»
«Fa proprio cagare. Cambia, finché sei in tempo.»
«Io non lo so se domani mi presento. A che serve?»
«Probabilmente a riempire le tasche di Mafalda, che vuoi che ti dica? Dai, mettiamoci all’opera.»
Un’oretta dopo siamo in linea con tutto, potremmo cavarcela. Anni fa ci saremmo fatti una birra, ma ora ognuno va per la sua strada, cercando di strappare qualche brandello di vita ai minuti di giornata che rimangono.
Per la prima volta dopo tanto tempo, faccio la strada verso casa consciamente, la mano pulsa. Non ho detto un cazzo a Giorgia e lei mi sputa in faccia tutti i motivi per cui dovrei restarmene a casa in infortunio, come se non li conoscessi. Ma forse l’unico motivo per cui si fa questo mestiere è la fissa per le cose fatte bene, fino in fondo, e un pizzico di spirito da martire, che qualcuno lo deve pur fare. Però poi le passa e mi cambia la medicazione, e mi abbraccia forte. Cerco di dormire sul fianco sinistro, ma l’ustione e i pensieri mi lasciano poco respiro.
Mercoledì, giorno del banchetto.
Arrivo in cucina col peso di fine giornata sugli occhi e Giò non solo c’è, ma è pure cambiato e in orario. Ramos sta smanettando in ginocchio per accendere i fuochi e Lele mi guarda come se mi stesse chiedendo scusa.
«Orcu dighel, non si accendono i bastardi, non esce gas.»
«Che succede, Ramos.»
«I fuochi non vanno.»
«Spe, vado a chiedere alla sciura. Magari non ha pagato la bolletta.»
Mafalda è in sala che smadonna al telefono, urla più del solito. Preme una decina di volte il pulsante per riattaccare, sempre più forte.
«I bastardi hanno staccato il gas per fare lavori, senza avvertire. Mannaggia, mo’ che facciamo?» Con gli occhietti spiritati la sciura sembra un cinghiale con la permanente.
«Spe, ci penso io, tu non preoccuparti.» Lo dico per evitare ingerenze indigeste, ma non ho idee brillanti. Torno in cucina.
«Come cazzo facciamo, mo’? Il bollitore è a gas, la stufa è a gas.»
«Gli diamo solo i taglieri di salumi e i tiramisù.» Solo Lele sorride alla propria battuta.
«Chef, posso?» Giò alza la mano, appoggiato al bancone, formalità sarcastica.
«I ravioli li facciamo nel forno, a vapore, basta cuocerli il doppio, il burro e salvia lo sciogliamo sulla piastra elettrica, una pentola ci sta. I filetti li infariniamo, li friggiamo in friggitrice, li finiamo in forno. La salsa al pepe verde la tiriamo sempre in pentola sulla piastra.»
«E che siamo, al cinese?»
«Ma no, lo fa un australiano, uno bravo, funziona. Fidati.»
«E te dove l’hai visto?»
«Su youtube.»
«Andiamo bene.» Sbuffo più che altro per fare il boomer, come dicono loro, non mi piace cambiare metodi, ma so che potrebbe funzionare. «Proviamo. Lele, comincia a fare gli affettati.»
Due ore dopo, i clienti sono seduti.
«Numero uno, sono in centoquindici, non centodieci.» Abbo è carico nel completo da pinguino.
«Te pareva, ve l’ho detto!» Non c’è una volta che prenotino per il numero giusto. «Fuori i taglieri.»
Metto le teglie forate di ravioli a vapore, dodici minuti, Ramos scalda il burro e salvia, Giò riconta i piatti.
Il forno suona e assaggio uno dei piccoli bastardi alla zucca: perfetti, meglio che nel bollitore. Do un pezzettino anche a Giò e a Ramos che annuiscono.
Li lascio a impiattare – li rallenterei solamente – mentre butto in friggitrice con la sinistra sei filetti alla volta. Una volta dorati, teglia e forno con la sonda. Belli son belli, ne tasto uno con la punta del dito ed è un burro. Metto la salsa al pepe a scaldare.
«Complimenti per i primi, ragazzi!» Abbo rientra col carrello di piatti leccati, non è rimasto nemmeno un raviolo, il miglior feedback possibile. «Uno vuole la carne senza salsa, tre ben cotti e due vegani solo i contorni.»
Tiro via i filetti più bassi e larghi e li spillo, sono i più cotti.
«Orcu dighel, le patate hanno il burro!»
«Sì, ma ormai la mucca il latte l’ha fatto, salviamo il mondo un’altra volta.»
«Per una volta li costringiamo a mangiare bene.» Ce la ridiamo per il meme più vecchio della ristorazione.
«Fuori i secondi!»
Lele mette le patate, Giò le verdure, io impiatto i filetti con la sinistra e Ramos salsa. Rosmarino, burro e senape riempiono l’aria. Abbo, Mafalda e Vale fanno sparire i piatti dal pass tre alla volta.
«È andato tutto?»
«Andata, chef!»
«Giò, prendi i tiramisù che mettiamo il cacao. Lele, chiudi tutto il resto e comincia a lavare.»
«Arrivo.» In realtà è una scusa per parlare.
Mettere il cacao a velo con la sinistra è più rognoso di quanto pensassi.
«Giò, grazie.»
«Ma di che, chef? Scusa tu, che è tutto il mese che faccio stronzate. Non è che non ci tengo, ma è tosta.»
«Lo so, ho parlato con Ramos e Lele. Ho avuto pure io la tua età. Ma pure tu devi essere tosto. Il discorso di ieri, te l’ho fatto perché avrei voluto che qualcuno lo facesse a me, all’inizio. Avrebbe cambiato la mia vita, forse. Però magari è la tua strada.» Il suo sguardo è timido, come celasse una rivelazione.
«Non serve, chef, finisco l’anno e cambio. Torno a studiare. Ho parlato coi miei. In realtà ci pensavo da un po’, ma le storie degli ultimi tempi mi hanno convinto.»
Non so cosa dire. Se da una parte so che è giusto così, dall’altra non vorrei averlo influenzato male. Cambiare implica sempre un rischio, una scommessa, una che non ho mai avuto il coraggio di fare. Un consiglio sussurrato male può piantare il germe di scelte imprevedibili in ottica futura. Ma qualcosa mi dice che Giò se la caverà.
«E che vai a studiare di bello.»
«Psicologia. Potrei aiutare qualcuno a cambiare in meglio, eh?» Giò mi dà di gomito, il sorriso che gli accende il volto mentre pensa al futuro è una promessa di felicità, un bel cambiamento.
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Racconto di Gianvito Cirami
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