Da quando ho iniziato a detestare il mondo? Per rispondere a questa domanda serve un atto d’onestà, bisogna ricordarsi che, anche da piccolissimi, è possibile provare autentica disperazione; ci si rende conto che la vita è una pila che si scarica e non c’è modo di ricaricarla, che tutto prima o poi si romperà e che quello che ti fanno vedere nei fumetti e in televisione è falso: non hai superpoteri, non puoi praticare la magia, non puoi conquistare l’universo e non puoi nemmeno sgozzare quel maiale del tuo vicino di casa che finiresti nei casini.
Ti rendi conto che i tuoi compagni di classe sono dei dementi che non vedono l’ora di prendersela con qualcuno: a volte la vittima sei tu, a volte ti unisci a loro, a volte fai la spia; questo sporco giochetto andrà avanti all’infinito perché a nessuno importa che venga inculcata la disciplina e sia imposto lo spirito di squadra, finché non ti beccano continuerai a farla franca.
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Non parliamo poi della cancrena chiamata “relazioni umane”, non puoi dire quello che pensi, non puoi dire quello che vuoi, non puoi essere come desideri, non puoi fare quello che ti pare perché nel migliore dei casi ci sarà una competizione spietata e ci sarà sempre qualcuno in vantaggio rispetto a te, per tutto il resto gli aggettivi si sprecano: insopportabile, disadattato, anormale, psicopatico, megalomane, arrogante, ecc.
Se ce la farete a mantenere un profilo basso buon per voi, ma attenzione ai cercatori di rogne; se si accorgono che non siete come apparite, che vi trattenete, oppure non volete aver a che fare con loro, avranno trovato un nuovo giocattolo: o trovate l’alchimia perfetta bilanciando cosa, come e quando dire, o dovrete metterli con le spalle al muro.
O stabilirete i confini, oppure brameranno vendetta, anche quando il torto lo hanno commesso loro.
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Se riuscirete a sopravvivere e a trovare una dimensione per voi, magari otterrete pure la cosiddetta indipendenza economica, altrimenti ogni istante della vostra vita sarà una coltellata alla vostra pazienza, voi sarete sempre dalla parte del torto perché i quattrini ce li avranno sempre gli altri.
Non importa quanto impegno abbiate profuso o quanto vi siate sforzati per realizzare i vostri obiettivi, se non ce la fate avete fallito e non tarderanno a rinfacciarvelo.
Se poi nascete con dei difetti fisici o per una semplice umidità il vostro ginocchio si trasformerà in un pallone afflosciato, sarete etichettati come un peso, dei parassiti che scroccano alle spalle di quelli bravi.
Non solo soffrirete, ma sarete costretti a sorbirvi i: “Li hai i soldi per le cure?”, o “Sono vent’anni che ho mal di schiena, eppure vado avanti senza lagnarmi come fai tu!”
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Ora che vi siete fatti un’idea generale, vi do una notizia: non sono mai stato un pregiudicato. Ammetto che avrei commesso con estremo godimento un’infinità di crimini e che avrei ricevuto la gratitudine di molti, però non ero ricco e non avevo il potere o le amicizie giuste, perciò mi limitavo a percorrere l’esistenza verso il solito baratro.
La stanchezza di vivere, la frustrazione, le continue insoddisfazioni, la convivenza con individui squallidi e la mancanza di qualunque prospettiva svuotano le persone trasformandole in fantocci incapaci di pensare ad altro, se non a come farcela per campare un giorno di più; proprio quando avevo superato il limite del sopportabile e il martellante battito cardiaco mi impediva di prendere sonno, decisi di concedermi un ultimo viaggio, poi, chissà.
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Era un sabato mattina di novembre: avevo acquistato un biglietto di sola andata per Ivrea, città che ebbi modo di conoscere per essermi intrattenuto con un’indigena durante un periodo in cui ero all’apice delle mie capacità sociali.
Stanco e schifato di tutto, volevo almeno rivedere quella città la cui stazione fu premiata come una delle più belle d’Italia, magari fare due passi per il Naviglio e perdermi in quelle gelide acque.
Sapevo già i dettagli di quell’itinerario, quasi sette ore di treno e tre cambi; se al termine del viaggio ci fosse stato qualcosa o qualcuno ad attendermi, forse avrei provato una certa agitazione, invece… calma piatta.
Ogni tanto alternavo lo sguardo tra la lettura di un libricino, l’ennesimo controllore che chiedeva il biglietto e le città che apparivano e scomparivano dal finestrino; così fino a Chivasso, ultima stazione di cambio.
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Dopo essere salito sull’ultimo regionale, fu facile trovare uno scompartimento semideserto; in pratica eravamo io e un altro passeggero seduto all’estremità opposta, perfetto.
Il treno ripartì, potei rilassarmi osservando i paesaggi del Canavese e riportando alla memoria alcune specialità locali, come la misteriosa Torta 900 reperibile in qualche rinomata pasticceria, o una più rustica miassa con salignùn, peccato che in quel mese non vi fossero eventi o sagre.
Il viaggio procedette come tutte le altre volte, ormai ricordavo a memoria fermate e intoppi: Caluso, Candia, Strambino, l’infame rallentamento in prossimità del torrente Chiusella e la meta del mio peregrinare, o almeno era quel che credevo.
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Il convoglio raggiunse Ivrea nell’orario prefissato; col consueto sfogo dell’aria compressa, l’elettromotrice abbassò il pantografo, la corsa era terminata.
Proprio quando decisi di alzarmi per prendere le mie cose e uscire, mi resi conto che non ero in grado di muovere un muscolo: all’improvviso divenne tutto opprimente, un’atmosfera di pura angoscia. Sembrava Milano Centrale alle quattro del mattino, ma non erano che le due e mezza del pomeriggio e fino a poco fa splendeva un tenue sole autunnale, che accidenti stava succedendo?
Io ero lì, immobile come un salame, osservavo l’uscita come se fosse una meta irraggiungibile, volevo andarmene ma non ci riuscivo, solo in quel momento capii perché dovevo rimanere incollato a quel sedile.
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D’un tratto entrò lei, la donna più afrodisiaca del sistema solare; una visione talmente sconvolgente da farmi dimenticare quella bomba sexy che vidi vent’anni prima alla fermata della Circumvesuviana, roba che nemmeno il porno col cast più stellare poteva permettersi. Che ci faceva una così in un posto come quello su un treno del genere?
Mentre i dubbi affollavano la mia mente e le mutande cominciavano a stringere, quel distillato di assoluto erotismo avanzava in mia direzione: alta, tonica, straripante, perfetta, statuaria e dannatamente insondabile. Sembrava il prodotto della migliore ingegneria genetica, la donna assoluta, nessun maschio avrebbe potuto resisterle, ma ciò non le avrebbe reso giustizia; non poteva essere una bellezza di questo mondo, c’era molto altro in lei.
Non avrei mai potuto immaginare che espressione avesse, quelle sue labbra lucide e vellutate non tradivano la minima emozione e il suo sguardo era celato da impenetrabili occhiali che parevano più sottili visori ottici.
Muovendosi con sinuosa eleganza si avvicinò a me, l’ultimo dei reietti; non so cos’avrei dato in quel momento per sentire la sua voce e incrociare gli sguardi, ma non fu così.
Anticipando ogni mia mossa, estrasse una busta nera il cui contenuto era protetto da un sigillo in ceralacca e me la consegnò.
Non feci in tempo a placare quel vortice di pensieri che le mie mani strinsero quella lettera, come a non volersene separare. Solo la testa riuscì a seguire i suoi movimenti, non si arrestò mai, mi girai finché non arrivò all’uscita ma persi ogni sia traccia.
“È sparita! Dove diavolo è finita?!” pensai e, dopo la sua scomparsa, ripresi il controllo del mio corpo e mi precipitai fuori dal treno.
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La stazione era deserta: a parte il personale di servizio non c’era alcun viaggiatore, ad eccezione del sottoscritto e del passeggero nel mio scompartimento.
Deciso a trovare una soluzione, tornai in carrozza e gli rivolsi la parola: «Mi scusi, per caso ha visto una donna salire sul treno?»
«Prego?» mi squadrò come ogni normodotato fa con uno sconosciuto che per la prima volta gli rivolge la parola, «Di chi sta parlando? Non mi pare che sia salito nessuno. Comunque si figuri, nessun disturbo, la ringrazio per avermi avvisato.»
“Avvisato? Ma questo oltre a essersi perso la gnocca siderale, stava pure per tornare indietro? Sveglio il tipo…” pazienza, «Fa’ nulla.»
Dopo aver accennato un saluto, quel simpaticone prese le sue cose e scese dal treno.
D’istinto nascosi la busta nella mia ventiquattrore e, recuperato bagagli e giubbotto, scesi anch’io, cercando ogni indizio del suo passaggio, nulla.
Come diavolo era possibile che nessuno abbia visto nulla e mi ritrovi una lettera tra le mani?! Cos’era successo in quel frangente?
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Uscii dalla stazione sospirando e tentando di placare la tempesta ormonale che mi aveva travolto, sospirai e respirai una boccata d’aria fresca; il panorama era lo stesso che vidi anni fa: una città tranquilla, operosa, con le sue piccole storie da raccontare e un passato illustre.
Dopo tanto tempo provai un senso di sollievo; sarei riuscito a dormire in una stanza d’albergo priva di tapparelle e senza l’aiuto delle gocce? Una sfida titanica che aveva il retrogusto della resa, per ovviare a ogni inconveniente mi ero portato dietro una ricetta medica e il mio fidato cuscino.
La mia vita era sempre stata un disastro ma sapevo che tutto si fa per interesse e c’è sempre un prezzo da pagare; dal momento che di quattrini da buttare non ne avevo, men che meno voglia di far follie, decisi di non voler saperne nulla di una storia fin troppo losca.
Prima di dirigermi in albergo cercai una farmacia, presi la mia bottiglietta e, non appena uscito, andai alla ricerca di un cassonetto; il pensiero di quel che avevo provato nemmeno un’ora prima non mi dava pace.
Non ci volle molto prima di aver adocchiato un bidoncino dell’indifferenziata; presi la lettera, la strappai e gettai i resti assieme alla ricetta accartocciata, via tutto.
Se da una parte ero dispiaciuto per aver distrutto l’unica possibilità di un futuro incontro con lei, dall’altra mi ero tolto un macigno: basta avventure, basta rischi, basta truffe.
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Raggiunsi la stanza d’albergo e depositai i bagagli; liberatomi dalle zavorre, decisi di approfittare degli ultimi raggi di sole per passeggiare senza meta. C’era ancora molto che non avevo visitato e sembrava l’occasione perfetta per staccare dal mondo.
Ecco come avrei voluto trascorrere i miei ultimi giorni, ritrovare la calma, abbandonare ogni pensiero e spegnere il cervello.
Le ore trascorse all’aperto sortirono il loro effetto, riuscii a liberare la mente alleggerendomi da molti pensieri; erano rimasti l’inconsolabile senso d’inconcludenza del mio vissuto e la rassegnazione all’inevitabile.
La sonnolenza e il torpore mi colsero, avrei potuto completare la mia visita nei giorni successivi, del resto avevo tutto il tempo che mi serviva.
Ricordo ancora quella maledetta notte: nonostante la stanchezza dovetti far ricorso al farmaco per potermi addormentare.
Trascorsero alcune ore e giunse il sonno; superate le interminabili sequenze di parole prive di significato che precedono i sogni, potei godermi una notte di riposo, o almeno è ciò che avrei sperato.
Nel bel mezzo del caos onirico, una voce rimbombava nella mia mente: “Bramo il tuo disprezzo.”
Un improvviso dolore mi assalii, provai la stessa oppressione di quando ero bloccato in treno, non avevo il tempo né la voglia per negoziare: “Prendilo, è tutto tuo, basta che mi lasci in pace!”
“L’accordo è stato siglato.”
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Fu uno dei risvegli peggiori della mia vita: avevo la testa che mi scoppiava, mi facevano male gli occhi e mi era parso di aver stretto un patto col diavolo in un momento di debolezza.
Non appena ebbi trovato la forza per alzarmi dal letto, mi voltai verso la scrivania dove avevo appoggiato la valigetta; un misto tra orrore e frustrazione mi assalì quando rividi lei, la busta nera, intatta e immacolata.
«Ti avevo distrutta, dannazione!» urlai, per fortuna la camera era insonorizzata.
“Mantieni la calma” con un ultimo barlume di raziocinio cercai di fare ordine nella mia mente, “Non può essere uno scherzo, l’unica persona che è entrata sono io; se la lettera è in qualche modo collegata a ieri notte, basterà sbarazzarmene una volta per tutte. Non posso permettere che uno stupido sogno rovini i miei ultimi giorni.”
L’aria si era fatta pesante, con gesti frenetici aprii la finestra, mi lavai, mi cambiai, presi quella maledetta busta con me e mi allontanai da quella stanza.
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Una volta uscito, mi procurai un accendino e un flacone di alcool etilico: “Vediamo fino a che punto sfida le leggi di questo mondo.”
Ossessionato da quel pensiero, mi incamminai verso gli argini del fiume, avrei preferito gestir meglio la domenica, magari visitando gli uffici della ex Olivetti, ma i miei piani erano stati stravolti.
Assicurandomi che non ci fosse anima viva nei paraggi, discesi fin quasi a sfiorare il letto; poggiai la lettera a terra, le spruzzai un bel po’ d’alcool e le detti fuoco.
La osservai bruciare e, con la punta della scarpa spostai i frammenti inceneriti nel fiume: “Perdonami, Dora, mi spiace sporcarti.”
Le acque del fiume trascinarono e dispersero quei rimasugli, rincuorato da quella visione mi diressi verso il duomo, forse ero ancora in tempo per ascoltare.
Nonostante la mia diffidenza verso il cattolicesimo, riconoscevo l’esistenza di sacerdoti capaci; magari avrei trovato parole ispiratrici nell’ultima omelia, purtroppo giunsi in ritardo e persi la possibilità di poter ascoltare una voce amica.
⁂
Vagabondai per la città, trovai un chiosco e mi rifocillai; il senso di sazietà alleviò in parte i miei pensieri. Per scacciare la noia accesi il telefono, non l’avessi mai fatto! Decine di messaggi di un ex collega.
«Ma che vuole questo? Non ci sentiamo da più di un anno e all’improvviso mi cerca?»
Per fortuna mi trovavo all’aperto e il mio sfogo cadde nel vuoto.
“Non si è mai fatto vivo, che cosa vorrà? Non mi piace per niente.”
Tra i vari messaggi uno in particolare mi colpì per la sua sgradevolezza: “Non vedo l’ora di rivederti, ho una sorpresa per te!”
Quando qualcuno parla di sorprese non c’è mai da aspettarsi nulla di buono, soprattutto se si tratta di persone dall’ego ipertrofico e dalla moralità da numero immaginario; ogni traccia della sua presenza nel mio telefono fu eliminata alla velocità del disgusto.
Il pomeriggio scivolò via rapito da nuovi cattivi pensieri, la sera giunse e il mio umore non era mutato di una virgola; troppe sensazioni orribili mi avevano appesantito l’animo e chiuso lo stomaco.
«Dal momento che sto vivendo un incubo e le sfighe non arrivano mai da sole, domattina ricomparirà tutto ciò che ho tentato di eliminare.»
⁂
Sospinto da quella certezza, raddoppiai la dose di gocce assunte la sera prima e attesi il momento in cui il farmaco entrò in azione.
La stanchezza era tale che dimenticai qualsiasi sogno, ciononostante, la mattina seguente, mi svegliai verso le sei intontito e svogliato, aprii la finestra e i raggi solari mi diedero il colpo di grazia; il mio umore era già pessimo e mi era sembrato di aver rivissuto la giornata di ieri quando, accanto alla valigetta, quella maledettissima busta nera era lì, a sfidare i miei ultimi rimasugli di pazienza.
In preda alla frustrazione, alzai le mani in segno di resa e dichiarai la mia sconfitta: «Va bene maledetta bastarda, hai vinto.»
Mi scappò un amaro sospiro, poi, in preda alla rassegnazione, decisi di aprire il contenuto: un foglio nero su cui erano incise tre parole: “Lavora per me”.
Subito dopo averla letta, la lettera si disgregò in un pulviscolo oscuro e svanì.
“Era questo il modo per eliminarti? Per chi diamine dovrei…”
Nemmeno il tempo di elaborare un pensiero che mi assalì una tremenda emicrania, caddi sulla moquette e coprii gli occhi con entrambe le mani, ma dovetti toglierle subito perché iniziarono a bruciarmi.
Un minuto di dolore straziante e urla soffocate, poi a fatica mi trascinai in bagno, l’acqua del rubinetto raffreddò le mani, potei lavarmi e ripulirmi dalla bava e dalle lacrime.
«Non ce la faccio più, voglio farla finita.»
⁂
Nonostante la voglia di trascorrere gli ultimi istanti in pace e lontano dallo schifo di vita che mi perseguitava, il senso di disgusto era tale da aver rovinato ogni cosa; maledetto da un’entità misteriosa e perseguitato da un individuo spregevole, decisi di troncare la mia già breve vacanza e affrontarlo con tutta la rabbia che mi era esplosa in petto.
Feci in fretta le valigie, inviai un messaggio al soggetto e lasciai l’albergo.
«Bel lunedì» sospirai, «Un idiota mi rovina la vacanza e infastidisce la mia famiglia, ma che ha in mente?»
Tralasciando l’ennesimo monologo, tornai in stazione e presi il primo treno per il ritorno; una volta preso posto in una carrozza deserta, dopo che il regionale partì, ripensai allo schifo della mia vita, dalle pessime scelte scolastiche alla disastrosa carriera lavorativa, per non parlar del fatto che ero una calamita per casi umani e individui dall’animo ripugnante.
Non che fossi un santo, ma almeno un minimo di senso di decenza ce l’avevo e facevo sempre la figura del bastardo asociale perché volevo scrollarmi di dosso quella feccia umana.
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L’estenuante viaggio terminò e tornai alla stazione di partenza, qualche centinaio di metri e caricai i bagagli in auto e dovetti percorrere altri quindici chilometri.
Credevo di aver visto ogni cosa ed eviscerato ogni forma di stupore, ma, proprio all’ultima curva che conduceva alla via di casa, vidi l’auto del mio ex collega precedermi di una decina di metri.
Il laido non era venuto da solo, accanto a lui avevo intravisto una chioma bionda che avrei riconosciuto tra centinaia: quella era la mia ex. Ciò che mi lasciò sconcertato fu che dovette percorrere almeno ottocento chilometri per andarla a prendere e mostrarla come se fosse un trofeo di caccia, così, per il gusto di sbattermela in faccia, ben sapendo quanto mi fossi dannato per lei; un atto di cattiveria gratuita e immotivata.
Non ero mai stato particolarmente coinvolto da questioni sentimentali, ma quella donna mi aveva fatto stravolto la vita. È ovvio che non mi sarei mai dovuto fidare di una come lei, un’arpia travestita da sirena. Fu la più disastrosa relazione della mia vita, finita nel peggiore dei modi tanto che mi ci vollero mesi per riprendermi; al peggio non c’è mai fine.
⁂
Ci fermammo davanti all’ingresso di casa, non avevo le forze per parlare, i muscoli avevano cominciato a tremare e mi era tornato quel terribile mal di testa; non so dove trovai la forza per aprire lo sportello e avvicinarmi alla sua macchina, so solo che lui fece altrettanto e, come Giuda, corse ad abbracciarmi e a chiedermi come stavo, come se gli fosse importato qualcosa.
Nemmeno il tempo di permettermi di esprimere pensieri sensati che si sciolse dall’abbraccio, aprì la portiera destra e la fece scendere: «Hai visto che sorpresa ti ho fatto? Non sei contento?»
“Che ha detto quella merda?!” Ormai avevo perso ogni contatto con la realtà, non riuscivo a capire che razza di espressione facciale avevo, ero solo accecato da un odio esplosivo.
Nemmeno mi resi conto che avevo emulato una pistola con la mano destra e gliela stavo puntando contro, le parole uscirono da sole: «Ho proprio voglia di ammazzare qualcuno.»
Stavolta fu lui a non capire cosa stavo facendo, col solito sorriso infame cercò di allontanarsi ma fui più veloce; l’indice toccò la mia tempia e… bang! Un bel buco in testa e litri di sangue schizzarono sulla coppietta e negli interni della sua macchina.
Salutami le forze dell’ordine, figlio di una cagna.
Sembrava che, dopo tutto quello che avevo dovuto sopportare nella mia vita, fossi giunto al capolinea, invece fu proprio quello l’inizio della mia discesa verso il baratro.
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