INVERSTORM
Dieci giorni dopo il Cataclisma di Farayen.

Slag si fermò davanti alla porta e socchiuse gli occhi, annusando l’aria.
Kitgard.
Inspirò un altro paio di volte l’odore dolciastro della sua pelle e del suo sudore, mescolati a sapone alla lavanda e Fiori della Parsimonia.
È lui di sicuro.
Elias si schiarì la gola. «Entrate pure, Mastro Slag.»
Il mutaforma entrò nella stanza, piegandosi in un leggero inchino. «Vostra Eccellenza. Arcanista Kitgard.»
Il mezzelfo, alle sue spalle, richiuse la porta con un secco clack.
Cardinale e Kitgard erano seduti al tavolo, uno di fronte all’altro.
Il mago afferrò il proprio calice di vino con la mano grassoccia e lo sollevò nella sua direzione, sorridendo. «Ben arrivato, Mastro Slag.»
Aveva le orbite incavate e scure e la barba meno curata del solito.
Slag spinse indietro il cappuccio dal volto. «Come posso servirvi?»
Kitgard indicò con lo sguardo la bottiglia e un bicchiere vuoto. «Per ora bevete qualcosa. Siete in anticipo.»
Il mutaforma arricciò il naso e scosse la testa. «No.»
«Oh, scusate… avevo dimenticato che… ma sedetevi, sedetevi.»
L’unico sedile vuoto era proprio accanto a Kitgard.
Slag si sedette, strinse tutti gli arti contro al busto e, con le braccia umane, sistemò il mantello intorno al corpo. Avvertì lo sguardo curioso del mago su di sé.
«Come state, Slag? Non vi vedo da un po’…
«Non c’è male, fine del mondo a parte.»
Kitgard fece un sorriso tirato. «Già.»
Puzza di paura.
Cardinale ridacchiò. «Suvvia, Slag, non dovresti essere così tragico…»
Lo guardò con aria di finto rimprovero. «Come stavo dicendo a Lord Kitgard, talvolta il caos è positivo. È il motore che porta al cambiamento.»
Spostò gli occhi sul mago. «Non esiste creazione senza distruzione. Un Arcanista dovrebbe saperlo bene.»
Slag abbassò gli occhi sui fiori del tappeto. «Perdonatemi, Eccellenza.»
Gli sfuggì un sospiro impaziente. La filosofia non era mai stata molto nelle sue corde.
Provò a ignorare l’odore del vino che gli pungeva le narici e il ronzio di due mosche prigioniere.
Kitgard si strofinò gli occhi arrossati. «Siete un’ottimista, Cardinale. Non sapete ancora se gli Ascesi possono farlo.»
«Sono convinto di sì. Converrete con me che li conosco meglio di chiunque altro. Se gli Ascesi guariranno Ystoriel, l’intero continente ci sarà debitore. Si inginocchieranno di fronte a Sua Maestà l’Imperatrice di loro spontanea volontà e, se anche non lo facessero, li conquisteremmo facilmente.»
Il faccione del mago si distese un po’. «Immagino di sì. Voi che ne pensate, Slag?»
Il mutaforma si grattò il mento ispido. «Non ne capisco molto, di politica.»
«Però la guerra sapete farla, no?»
«Mi fido di Sua Eccellenza.»
«Anch’io. E prego di non sbagliarmi.» Kitgard fece un lungo sospiro.
«A proposito di guai, temo di avere di nuovo bisogno di una guardia del corpo.»
Slag fece una smorfia di fastidio. Fanculo, mago. Va’ a farti fottere, avrebbe voluto dire. Jack lo diceva spesso.
«Ma certo.» bofonchiò, invece.
Kitgard aveva una passione per le femmine altrui e i duelli d’onore. Peccato che fosse troppo flaccido e pigro per combatterli di persona senza la sua magia.
E stavolta non c’è Squalo ad aiutarmi.
Sua Eccellenza svuotò il bicchiere dall’ultimo sorso di vino. «I miei uomini sono sempre a vostra disposizione, Arcanista.»

 

FARAYEN.
Dodici giorni dopo il Cataclisma.

La macchia rigogliosa era quasi scomparsa, i pochi arbusti rimasti erano spogli e rattrappiti.
Cordis afferrò un ramo secco e lo sbriciolò tra le dita.
Ystoriel sta morendo.
Gnonor storse il viso. «Bisogna fare in fretta. Anche noi perdiamo forza.»
Si avvicinarono alla riva senza parlare. L’acqua del Mare Chiuso era scura e coperta dal ghiaccio. Era molto spesso, eppure trasparente.
Cordis si coprì la bocca con le mani.
Sotto il ghiaccio galleggiavano centinaia di cadaveri. Arn e elfi, nani, uomini e dryen. Gli Angeli non avevano fatto distinzioni.
L’urlo di Iustus lacerò l’aria come un tuono.
Cordis avrebbe voluto imitarlo, ma dalla sua gola uscì soltanto un singhiozzo.
Moyson le asciugò le lacrime con le dita affusolate. «Non piangere, dolce sorella. Canterò per loro. Li guiderò fino alle Rive dell’Aurora.»
«Ci sarà tempo per il cordoglio, Moyson,» sibilò il Druido «Ora dobbiamo raggiungere il Portale.» I suoi occhi scuri lampeggiavano di rabbia.
Si misero in cammino. Il canto del Compositore era dolce come voce di madre, come carezza di amante. Leniva il dolore e la fatica della marcia.
Cordis, non riusciva a staccare gli occhi dai morti. Erano tutti a pancia insù, intatti. Le fanciulle coi capelli sciolti e fluttuanti, belle come fossero vive, i bambini paffuti e sorridenti. Il pianto cadeva dalle sue ciglia e le si gelava sulle guance.
Si trovò davanti a un grande vuoto vivo.
Le sembrava di aver camminato per poco, anche se la Trama del Mondo le diceva che l’illusione di Moyson li aveva guidati per molte ore.
Cordis guardò dentro quel nulla e seppe che si stava ingrandendo, un morso alla volta.
Si girò a cercare lo sguardo dei compagni. I loro occhi dicevano tutti la stessa cosa.
Anche se fosse la fine degli Ascesi, dobbiamo chiuderlo.
Gnonor si schermò gli occhi dalla luce verde. «È una ferita, una spaccatura nella Trama… »
Iustus appoggiò la mano sulla spalla di Cordis e la strinse. «Comincia tu.»
La melodia di Moyson cambiò e crebbe d’intensità. Cordis iniziò a tracciare i sacri simboli nell’aria. Gnoror e Iustus si scambiarono un cenno di intesa e la imitarono.
Cordis percepiva il potere dei compagni fondersi al suo, come voci in un coro. Cantarono la richiesta di chiudere il Portale.
Il potere scivolò fuori dai loro corpi e avvolse la spaccatura. Il vuoto ribollì e sibilò. Si opponeva a loro.
Cos’è questo rumore?
Oltre al sibilo del Portale, Cordis sentiva qualcos’altro. Un ronzio così forte da sovrastare le note del Liuto Dorato.
Un brivido di terrore le corse lungo la spina dorsale. «Sta arrivando qualcosa»
Tutti e quattro alzarono lo sguardo. Un Angelo volava verso di loro su grandi ali da insetto. Intorno a lui, uno sciame si muoveva come una sola creatura, avvolgendolo in una nube.
«È La Piaga» gemette il Compositore, smettendo di pizzicare il liuto.
Cordis trasalì. Il ronzio degli insetti faceva vibrare il ghiaccio sotto i suoi piedi.
Gnonor la afferrò per i polsi. «Cordis, guardami. Il rituale… devi continuarlo tu.»
Iustus annuì. «Il Druido ha ragione, devi farlo tu. Moyson e Gnonor ti proteggeranno, e io mi occuperò di…questo.»
L’Angelo era sempre più vicino, un ammasso contorto di rostri e chele.
Iustus strinse l’impugnatura del martello, gli occhi splendenti come fiamme azzurre. «Buona fortuna, fratelli miei.» Si lanciò in direzione del mostro.
Moyson posò a terra il liuto con delicatezza, accanto ai propri piedi. Strinse le mani del Druido, in modo che Cordis si trovasse tra i due.
Cordis si trovò circondata da una sfera di luce dorata.
Il tempo vorticava intorno a lei, lei bambina che giaceva in una radura. C’erano fili d’erba e foglie morte e fango. Il cielo tra gli alberi era come un grande occhio azzurro.
Rovesciò la testa all’indietro, le dita sempre in movimento per tracciare i sacri simboli. Ordinò a Ystoriel di guarire la ferita.
Rami incrostati di ghiaccio scrocchiavano sotto i suoi stivali. Vide un uomo morto, le viscere sparse nella neve.
Gli insetti, fuori dalla sfera, ronzavano sempre più forte.
Cardinale era così giovane. Aveva addosso la camicia rubata, di seta rossa. Accostò il viso al suo e le sfiorò l’orecchio con il naso.
La Porta era sempre più piccola, sempre meno viva.
Alla fine, ha smesso di lottare.
Dietro di sè, sentì Gnoror gridare dal dolore. Vide i denti bianchi di Moyson stretti in una maschera di sangue. Gli insetti avevano divorato labbra e palpebre, prima di passare agli occhi.
Il nulla tremolò e scomparve.

***

Cordis aprì gli occhi. Il cielo sopra di lei non era più un orrendo pantano verdastro.
Quanto tempo è passato?
Ruotò la testa alla sua sinistra. Gnoror le era disteso accanto, la pelle e gli abiti già intatti e immacolati. Si puntellò coi gomiti e si mise seduta. Anche Moyson era ancora terra e stringeva il Liuto Dorato contro il petto che si alzava e si abbassava.
Iustus! Dov’è Iustus?
Poi lo vide. Riverso sul ghiaccio a faccia in giù, in una pozza scarlatta.
Cordis balzò in piedi e raccolse le vesti. Divorò i metri che la separavano da lui e crollò in ginocchio al suo fianco.
Iustus rantolava nella pozza di sangue, soffiando deboli bolle rossastre dal naso.
È vivo!
Cordis lo girò verso di sé e se lo strinse al petto.
Lui socchiuse gli occhi e tossì. Un colpo di tosse lungo, doloroso. «L-l’ho ucciso. È sparito…»
Non le sembrava così umano da moltissimo tempo.
Cordis gli sfiorò il viso. «Lo so. Ce l’abbiamo fatta. È finita, è finita.»
Iustus scosse la testa e le strinse le mani. «No, ce ne sono altri. Dovete fermarli, devi prometterlo.»
Lei abbassò lo sguardo sul petto squarciato del compagno.
Non guarisce. Perché non guarisce?
«Sono stato corrotto. Non puoi salvarmi, Cordis, non questa volta.» Un gemito gli sfuggì dalle labbra. «Prometti che li fermerai…»
Lei aprì la bocca per rispondere, ma Iustus smise di respirare.
Cordis si chinò su di lui e rimase per un istante con le labbra impresse sulla sua fronte. «Addio, Giustiziere.»
Con una carezza, gli accompagnò le palpebre.

LANDEN.

Icarus oltrepassò il gruppetto fermo all’angolo. Gli uomini smisero di chiacchierare e lo salutarono. Probabilmente stavano per rientrare a casa, dove li attendevano pane, birra e pancetta.
Dove s’è cacciato Squalo?
Un fischio gli vece voltare la testa.
Il bephigran era di fronte alla casa di Jim-Tre-Dita, con una mela sbocconcellata in mano e la schiena appoggiata contro il muro.
Non era solo. Accanto a lui c’era un ragazzo mingherlino, coi capelli rasati.
Il chierico evitò un paio di galline, scavalcò un rigagnolo di piscio e li raggiunse.
«’Sera, Squalo.»
Squalo diede un ultimo morso alla mela e lasciò cadere il torsolo a terra. «Icarus.» Sorrise e gli bussò con le nocche sul pettorale della corazza. «Sei proprio tirato a lucido; ti trovo bene. Come sta Leda?»
«Bene, è sempre più alta. Mi ha chiesto di salutarti.»
Icarus si avvicinò al magrolino. Sembrava molto giovane, con un bel viso fresco, senza un filo di barba e grandi occhi verdi e distanti.
Allungò la mano verso di lui. «Icarus Hale.»
Il ragazzo l’afferrò e la strinse. «Jack.»
«Oh.»
Sono un’idiota.
«Ma certo, sei la maga. Squalo mi ha parlato di te.»
Lei alzò gli occhi sul bephigran, accigliata. «Davvero?»
Squalo allargò le braccia. «Mi fido di lui.»
Icarus annuì, trattenendo il sorriso. «Sono il suo confessore.»
Jack sembrò studiarli entrambi per qualche istante, poi sbruffò una risata.
«Beh, piacere di averti incontrato, Icarus Hale.» Sfiorò il braccio di Squalo, di nuovo seria. «Meglio che vada. Ci vediamo alla nave.»
Voltò le spalle a entrambi e camminò via, svelta e dritta, verso il Molo Vecchio.
Il chierico tossicchiò. «E quindi questa è “Jackie”. Ha l’aria di essere guai fatti persona.»
Squalo la stava ancora seguendo con lo sguardo. «Per questo mi piace.»
«Vivere nel peccato offende i Quattro.»
Il bephigran sollevò un sopracciglio.
«Se ti piace tanto, dovresti prenderla in moglie e farne una donna onesta.»
«Vuoi farmi la predica, Hale?» Squalo fece il suo solito ghigno feroce.
Icarus alzò gli occhi al cielo. «Ci vorrebbero giorni, non ho tutto questo tempo. Che volevi dirmi?»
«Devo metterti in contatto con una persona. Si chiama Dunk, è uno della Sezione.»
«Cosa vuole da me?»
Squalo abbassò la voce. «Sta cercando gli assassini della Deronnay, i due sultharis, Kaya e Sefu. Facevano parte della sua squadra.»
«Questo non me lo avevi detto.»
Il bephigran chinò il capo. «Speravo di non coinvolgerti.»
«Ma lo hai fatto.» sibilò Icarus «Perchè non ci pensi tu?»
«Non devo immischiarmi, ordini di Slag. E poi, ho già rimandato la partenza anche troppo.»
«Posso fidarmi?»
«Di Dunk?» Squalo ridacchiò «Cazzo, no! Ma finché vuole quello che vuoi tu, ti può servire. È molto in gamba.»
Icarus sospirò. «D’accordo.»
Squalo gli appoggiò una mano sullo spallaccio. «Ti aspetta domani sera, alla sesta campana. Fatti trovare a…» Abbassò gli occhi di scatto. «Che cazzo è?»
Il chierico sussultò. «Le lacrime di Iustus…»
La fiaschetta di Lacrime si era messa a brillare. Non era mai successo, non così. Icarus la sfilò dalla cintura. Il bagliore si affievolì e si spense. Era vuota.

VALLE DI URWINE.
Un giorno dalla fine del Vespro Viridiano.

Conred si voltò indietro e alzò gli occhi. Il fuoco aveva già divorato tutto il colle. Vide il mostro muoversi tra gli alberi fiammeggianti, alto come una torre e avvolto da una nube di fumo.
Ricominciò a correre. Il lago Veitkarm non era lontano. Poteva ancora raggiungerlo.
Il fumo era dappertutto, scuro e denso. Impossibile non respirarlo.
Il ragazzo tossì e tossì. Aveva la bocca secca, gli occhi pieni di lacrime.
L’incendio correva più veloce di lui, iniziava a sentirne il calore.
Sto per morire. Non morirò.
Alle sue spalle, gli arbusti crepitavano e si schiantavano. Un cervo lo superò al galoppo. Era avvolto dal fuoco, gridava come un bambino.
Conred sentì qualcosa sotto il piede, un sasso, forse una radice. Poi il vuoto e l’impatto della terra contro le ginocchia.
La testa gli girava. Il fumo lo soffocava.
Non morirò.
Si rialzò, cadde di nuovo. Erano voci, quelle che sentiva? Si rimise in piedi aiutandosi con le mani e barcollò in avanti verso il Veitkarm.
Ancora pochi passi.
C’erano altre persone sulla riva, o immerse nell’acqua bassa. Nessuno faceva caso a lui, guardavano verso il centro del lago, spaventati e sorpresi.
Conred si avvicinò, stringendosi la fitta che sentiva al fianco. E le vide.
Tre figure vestite di bianco. Fluttuavano sulla superficie dell’acqua, non molto distanti dalla riva, formando un cerchio. Una di loro stava suonando un liuto, le altre cantavano.
Non era una vera canzone, ma più una specie di lamento. Non c’erano parole, o forse Conred non poteva capirle.
Gli sembrò che la terra piangesse, gli alberi, le rocce, il lago e i monti fino alle sorgenti dell’Urwanen.
L’essere immenso di fumo e tizzoni gridò, un boato come quello di un tuono nella valle. L’acqua del lago lo avvolse in una stretta.
Il ragazzo chiuse gli occhi e sentì le lacrime scorrere sulle guance.
Era nel vento, nelle nuvole. Non era più niente. Era ogni cosa.
Uno scroscio di pioggia lo investì. Acqua gelida, bellissima.
Conred si accorse di essere in ginocchio. Alzò il viso verso il cielo e bevve la pioggia mescolata al pianto. Sapeva di sale e fuliggine.
Il cielo era di un celeste pallido. Candido come un pomeriggio d’estate. Non ne vedeva uno così da tanto tempo.
Un miracolo. Ho visto un miracolo.

Racconto di Melissa Negri