La notte è appena andata via e il cielo è ancora scuro. I suoi occhi, quando li riapre per guardare in alto, si specchiano nel vuoto e sono languidi e neri. Vedono l’erba, ma erba non c’è intorno a lui, solo umidi sassi. Tutto si incanta e si incarna nel pallido sottobosco, e dietro è il padrone che già lo chiama.
«Vie’ quà, Buffone!»
Non si muove bene, però. Stenta a raggiungerlo con quelle gambe secche, il collo proteso, gli arti mollicci che penzolano in avanti. Pare quasi che gli dèi si siano fatti beffe di lui non appena fu nato. Adesso insieme ci pensano gli altri paesani, ma lui ride e poco capisce. Gli basta fare qualcosa, portare la legna, un lavoro, una mano che lo accarezzi, una che lo picchi, una pagnotta calda al mattino. Il latte di sua madre non se lo ricorda, o forse era quello dell’asina, ha scordato tutto. Guarda solo al compito che deve svolgere, prendere l’ascia, sollevarla, sfracellare il ramo. Così ci saranno i fasci, così la notte si starà al caldo, così è utile lui.
Fa questa cosa tante e tante volte, non le conta perché non ha mai imparato, e forse non gli serve. Gli serve stare dritto con la schiena, quello è difficile. Si cade quasi sempre, perché la legna pesa sopra il collo. A volte si sente schiacciare. Eppure, dal ruscello che breve passa vicino alle caviglie, nota qualcosa. Non più grigio, pensa, è verde. Verde come certe zuppe di piselli che mangia da Judith quando fa il bravo, quando ha raccolto tutta la legna. Quando ha fatto il suo lavoro e il cibo rimane, ché sciuparlo è un peccato e ai cani non piace.
Vuole scrollarsi il peso di dosso per donarlo al mulo lì accanto. Il villaggio è ancora lontano e la zuppa lo aspetta. Lì tra le montagne di Yeglea. Non sanno da quanto tempo non passi una carovana da quelle parti. È troppo freddo, dicono. In braghe e stivali però si sta bene. Il mulo non c’è, se n’è andato di nuovo a farsi un giro. Perché a volte non vuole portare il peso addosso. Lo capisce, pensa. Pensa che dopo gli darà una manata sul muso, per educarlo. “Un albero si raddrizza quando è ancora un germoglio!”, lo dice spesso il suo padrone a lui, anche se lui è già un tronco bello che duro.
«Vai a riprendere la bestia, muoviti!»
Sì, ora va, ora va, e ciondola verso il basso.
Così i rami lo accolgono, graffiando le sue guancie, lacerando i calzoni. Non se ne cura. Sta solo attento a non inciampare, è una cosa difficile. I rami ti cingono e ti attirano, ti puoi far male, puoi sbattere la faccia, puoi frantumarti le ginocchia. È sempre una brutta cosa. Scosta le fronde oltre l’irto dipinto, vede una strana luccicanza.
È il fiume? Ma lì fiume non c’è. Si avvicina.
C’è un lago, pensa, ma non è un lago, è più piccolo, forse neanche una pozza. Lì è strana cosa perché una volta c’era l’erba fresca e ora è tutto secco, immobile. Eppure, guardando meglio, sembra quasi una scia che si trascina fino a Sud, si inalbera tra le fronde e non si fa vedere più. Apre la bocca in placida attesa, mulo non si scorge. Si vede la grande vetta da qui. Però qualcosa la sente: è un vagito trascinato, quasi un lamento stridulo. Esonda per l’aria e squarcia le sue orecchie, che lui copre in modo istintivo. Guarda avanti e poi lo vede, lì nella luccicanza che sembra una bava, c’è un neonato che si agita, ma non è un neonato. È qualcosa di oscuro e viscido che ora mormora senza più voce. Viola e porpora la sua pelle, cerca di gridare col muso semiaperto, e più va avanti e più si fa leggero e minuscolo. Fino a scomparire.
Il Buffone vorrebbe capire, ma non capisce, mugugna qualcosa e cerca rifugio nel padrone che tanto l’aveva chiamato. Corre da lui, va e si agita.
«Muuuulo… c’è là… via…»
«Ma che cazzo dici?»
«Vieni, padrone… mu-mu-muuuulo ‘o c’è…»
«L’hai fatto scappare di nuovo? Pezzo di ritardato! Quella bestia vale più di quanto non vali tu, vallo a prendere. Imbecille.»
Così dicendo, gli assesta una manacciata proprio dietro al collo, non riuscendo a spostarlo manco di un centimetro. Quello, nemmeno l’avesse sentito, ricomincia ad agitarsi più forte ora prendendogli il braccio e trascinandolo.
«Oh, ancora? Che forza c’hai in questa mano?» continua, non potendo fare a meno di seguirlo. «Arriviamo a casa e ti meno il doppio, altroché!»
Dopo molte imprecazioni e altrettante bestemmie, i due si fermano proprio davanti alla scia e lì il silenzio li avvolge. Non sentono nemmeno il suono delle cornacchie. Non c’è neanche il vento a sibilare per le montagne. Il verde giorno li accoglie con la stessa quiete della notte passata, ma senza il brusio delle nottule, quasi che il tempo si fosse fermato per davvero.
«Embé?», emette in uno zufulo soffiato, guarda lì tra la bava, qualcosa però lo trattiene. Ha le lunghe e folte sopracciglia aggrottate, nere come il carbone, la faccia contorta in una smorfia, le spalle larghe e spioventi. S’è piazzato a cercare di capire, ma più si sforza e più una strana ansia lo assale. Non sa cos’è, e ora ha paura. Si volta verso il Buffone, sgrana gli occhi e gli regala un manrovescio.
Quello riceve il colpo di frusta in pieno naso. Un rivoletto di sangue gli imbratta il labbro e, quando lo assaggia, si sente inondare di un fuoco che mai ha provato. La testa gli pulsa.
Urla come un disperato.
«Che cazzo c’hai da gridare, imbecille? T’avrei dovuto lasciare lì dove ti ho trovato, abbandonato vicino al pozzo da tua mamma puttana! T’avrei annegato ma il prete m’ha detto no, porca di quella miseria ladra! Manco i maiali t’hanno voluto mangiare per quanto eri buono a niente…»
L’altro si avvicina con le braccia che non sanno dove andare, lo sguardo che passa dalla disperazione alla rabbia più cieca. Lo guarda, lo guarda e lo guarda ancora, ma non si ferma, non riesce a fermarsi, ha le mani già al suo collo, la schiuma tra i denti.
Il padrone cambia colore e gonfia la testa sotto alle sue dita, come un rospo. Prova a scacciarlo ma non ci riesce. Così indietreggia. Mette il piede in fallo e cade all’indietro, proprio in mezzo alla luccicanza. Ora è libero dalla sua morsa e può respirare. Si alza ma le gambe non lo reggono più, quasi fossero fatte di cartapesta, sente le ossa cedere e una scossa si propaga in tutto il suo corpo. Non ha il tempo di gridare. Non ha più tempo, diremmo. Perché ora si fa canuto, rughe sparse si disegnano sul suo viso e solcano la carne inesorabili. I denti cadono, gli organi cedono. E si fa polvere.
***
Quando arriva al villaggio senza legna e senza padrone nessuno si cura di lui che entra disperato. Nel pagliaio dove sta di casa dondola giorno e notte e non dorme più. Un giorno però se ne accorgono. Dov’è il tuo padrone, chiedono? E la legna? Pure Judith si è messa a fargli la predica. Lui però non sente e non li guarda. Solo la provvidenza potrà salvarlo, pensa. La provvidenza ha un saio da prete e una testa calva, lo giudica dall’alto in basso e se la prima volta lo aveva salvato adesso lo condanna, e lo condannano tutti.
Nel giorno più verde e più caldo di questa estate maledetta, il Buffone sale sulla forca, spinto da mani nemiche. La provvidenza parla:
«Rispettabili cittadini, amici, fratelli: oggi siamo chiamati a giudicare questo figlio di Cordis. Guardatelo. Egli si è macchiato del più atroce dei crimini in questo continente: ha ucciso e nascosto colui che, quando era ancora un infante, lo ha salvato e portato sotto la sua ala. Egli è degno o no della nostra indulgenza? Come può un individuo rivoltarsi contro la mano che lo ha sollevato e che gli ha dato da mangiare? Come può nascondere le sue atroci nefandezze sotto un velo di stupidità e stoltezza? Giudicate voi, amici miei, questo figlio di Cordis è degno o no della nostra indulgenza?»
Un coro di voci agitate e furiose si solleva. Gridano assassino, nessuna pietà, spezzategli il collo. E il Buffone non capisce. Gli sembra tutta una farsa o un gioco, o un compito da svolgere, quello di rimanere lì in silenzio e a bocca aperta. Quelli si ammassano vicino al palchetto di legno traballante, infuriano come bestie, schiumano dalla bocca, si spintonano e si sgolano. Il boia esegue. Prende di peso il Buffone e lo fa stare in piedi su uno sgabello, gli mette un cappio al collo e poi attende il segnale della provvidenza.
Se prima le voci concitate spegnevano la quiete, ora i popolani ingoiano il silenzio. Mai attesa fu più lunga di questa. Gli uccelli del mezzogiorno volano sulle loro teste, e quando la provvidenza abbassa il braccio che prima teneva alzato, lo sgabello ruzzola e la corda si tende. Qualcosa sfreccia sopra le teste degli spettatori.
Con uno strappo sordo la corda si spezza e il cielo si fa ancora più verde del solito. Il Buffone cade in ginocchio, le mani e i piedi ancora legati, inala e ansima.
«Fermi dove siete! Non osate toccarlo!»
La voce che sentono proviene dal punto da cui è partita la freccia, ed è una figura labile e storta. Un incappucciato con una balestra tra le mani in sella a un nero destriero. La folla si disperde e grida di disperazione. Nessuno vuole essere ammazzato. Così anche la provvidenza se ne va lasciando da solo il suo antico protetto.
L’incappucciato si avvicina al palchetto, afferra il fagotto di corde e strepiti che è ora il Buffone e lo fa salire. Cavalca indomito verso l’orizzonte.
***
«Finalmente ti ho trovato», rivela la voce tra le fiamme scoppiettanti di un falò.
Il Buffone gli sorride perché gli ha salvato la vita, o perché forse ha guadagnato un nuovo amico. C’è carne secca per colazione, che lusso! Il tizio è serio, le sue sopracciglia sono arcuate come quelle del padrone, ma sono anche più chiare, la sua fronte è corrucciata. È uno che ne ha viste tante. Eppure sembra davvero una brava persona, i suoi occhi grigi non mentono, non tremolano alla luce della fiamma.
«Non sai da quanto tempo ti stavo cercando. Il continente è ormai in rovina e loro…», si guarda intorno, «loro sono tornati. Non so fino a quanto potremo resistere. Qui da queste parti nessuno lo sa, sembrano tutti così sciocchi…
In effetti nessuno di quel buco di culo del tuo villaggio li ha mai visti, figurati se hanno mai letto qualcosa. Però tu mangia, mangia, il tuo corpo mortale deve stare in forza. Su, non fare complimenti. Ecco, bravo. Dicevo, comunque, che è meglio sbrigarci. Sono usciti fuori da Farayen e l’hanno distrutta, l’isola non esiste più. Non sai che casino hanno lasciato tutto intorno, porca miseria. Quando sono passato da lì c’erano incudini che galleggiavano. Incudini! Ci pensi? Tu però non sembri consapevole, per adesso non puoi permetterti di fare ragionamenti complicati, ma ora sistemiamo tutto. Non preoccuparti, ti porterò io. Tu mangia. Stai tranquillo.»
Il Buffone addenta un altro pezzo di carne, soddisfatto. Quell’altro, con un bastone ricurvo, comincia a tracciare un cerchio attorno a lui e al falò. Si fa scuro in viso e agita mani e braccia. Nel verde e fresco giorno la sua voce cantilenata risuona e fa scappare prede e predatori. Gli uccelli svolazzano in cielo mentre inizia questa strana e pazza danza. Poi si ferma e recita:
«Sale e carne ti ho dato.
Carne di squalo dell’empio abisso.
Sale fino ti ho già portato.
Ingoia e mastica fino in fondo.
Rinasci, oh asceso.
Rinasci dio nel giorno fecondo.»
Il Buffone lo guarda attonito, poi si alza, come comandato. Porta una mano alla bocca dello stomaco e sfocia in un rutto baritonale che si estende per tutta la vallata.
***
Due giorni sono passati da quella volta e i nostri eroi sono su una barcarola malridotta verso la fu ormai Farayen. Chissà che fanno laggiù, direte voi. E lo dico anche io, in verità. Non sapete in che condizioni versa quell’isola inabissata e l’acqua tutta intorno. C’è un mare di nebbia che si estende oltre la vista e le onde si agitano e si smuovono, una strana spuma nera cerca di infiltrarsi tra le fessure della barchetta. Il Buffone trema, ma il suo compagno sembra fiero e indomito come un caprone alfa. Questa volta non ci sono le incudini ma nuvole gialle che fanno piovere denti. Sì, denti. Non chiedetemi nulla. Mentre cercano di ripararsi come possono, ecco che lì si intravede la Porta, o forse è un nero vuoto che si estende, che risucchia, che mastica. Quando sono a poche remate di distanza c’è un vento che si fa più forte. Li respinge, ma loro insistono. Il Buffone ci è abituato al duro lavoro, l’incappucciato invece è una testa di coccio.
«Eccoci, ci siamo! Amico mio, è il tuo momento! È l’occasione che hai sempre aspettato. Chiudila! Mostrami i tuoi antichi poteri! Fallo!»
Mentre l’incappucciato continua a remare per cercare di tenere la barca proprio di fronte alla grande e alta Porta che sputa sassi e detriti, il Buffone smette e si guarda intorno. Non sa che fare.
«Forza! Non posso resistere ancora!»
Il vento sferza, l’aria è putrida, sembra che un grosso cinghiale abbia fatto una scorreggia in faccia a loro, ma il Buffone a questo punto si illumina. Ha capito. Prende un sasso e lo lancia. Sì, lo rimanda indietro.
Quello lì non ci rientra, piuttosto pare impattare contro una superficie elastica. E rimbalza e ritorna, ancora più veloce, ancora più forte di quanto lui lo ha lanciato. E così va non al suo proprietario, non a quella mano molle, ma sulla tempia dell’incappucciato, che perde i sensi e cade giù a picco fuori dalla barca.
Mentre questo scompare, risucchiato dagli abissi, il Buffone non può fare più niente. Non ha mai potuto fare niente, in fondo, lo sapevamo già dall’inizio. Si vede arretrare spinto dal vento, con il corpo libero ma il cuore più pesante.
–
Racconto di Liliana Costa.
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