Reveka vedeva il riflesso ambrato dei suoi stessi occhi brillare nel vetro appannato, come due piccole fiaccole smarrite nella confusione della tormenta.

Dregden se n’era andato da ore, ormai, e il suo principe dormiva beato tra le lenzuola di seta Yazirana, disfatte soltanto dal calore dei loro abbracci. Quella sera, però, il ratto e la serpe non avevano fatto l’amore, non dopo tutto quello che era accaduto quel giorno. Il ritorno di Dregden aveva risvegliato ancor più dubbi nella mente già provata della Gorgone. Dopo che il mago se n’era andato, la stanchezza del lungo viaggio di ritorno aveva rapito entrambi i Cacciatori tra le sue spire, costringendoli tra le lenzuola a tentare, almeno, di riposare un po’. Il Vesterith suo sposo s’era addormentato così in fretta da crollare come un ragazzino tra le braccia tiepide della madre. La Gorgone gli aveva carezzato la fronte umida di sudore per molto tempo, ma solo quando gli occhi di suo marito s’erano già assopiti.

Lei, invece, proprio non riusciva a dormire.

Troppi dubbi e ansie nella sua mente e in quella delle vipere sul suo cranio. Le serpi sibilavano agitate, e costringevano la donna a rimanersene sveglia a fissare la pioggia e ad ascoltare i lampi che si schiantavano sulle conifere della Valle di Urwine. Di tanto in tanto, uno di questi illuminava la stanza e il suo corpo nudo immerso nell’oscurità. Reveka era costretta a coprirsi gli occhi per non farsi accecare.

Poggiò la fronte sul vetro freddo e li socchiuse per un po’, solo per sentire il rumore della tempesta batterle giusto a un ciglio di distanza, mentre con le unghie si grattava poco l’addome, sotto la curva del seno.

Cazzo… quanto mi piace il freddo.

Le piaceva perché la teneva lontana da casa, lontana dai suoi ricordi. La teneva lontana dalle violenze e dalle sevizie delle sue sorelle giù a Kharenos, dove la sabbia rovente era l’unica ricchezza, quella stessa sabbia che le si infilava tra le scaglie e le finiva dentro gli occhi. La teneva lontana dal puzzo dell’umido e del sudore di quei portici, dall’arena rossa di sangue delle Ketestoss, dai lividi, dai graffi e dai tagli della lotta. Il freddo la teneva lontana dalla Colonna del Supplizio, dov’era stata incatenata troppe volte, a soffocare di caldo, a piangere e a morire di sete e di fame, a supplicare per ore intere per un goccio di piscio sulle labbra.

“Nate senza una madre, rinnegate dai loro padri”. 

Reveka non aveva timore di morire, perché sapeva che l’inferno non sarebbe potuto essere peggiore dell’Isola Lazzaretto. Anzi, a dirla tutta, sperava quasi di morirci davvero su quelle spiagge, quand’era ancora una marmocchia infagottata abbandonata da suo padre. Tuttavia, se fosse morta lì, non avrebbe mai incontrato il suo ratto…

La gorgone si staccò dalla finestra e si voltò verso il principe addormentato, non negandosi una smorfia d’affetto nel vederlo così vulnerabile.

Ma come fa dormire così bene? 

Gli anni passavano, ma il suo ratto era rimasto sempre lo stesso ragazzino di tanti anni fa. Lo stesso di quando si erano incontrati a Bephigrast per la prima volta, durante la Guerra degli Atolli. Diamine, le sembrava fosse passata una vita intera, e al ripensare a quei giorni ingenui le si disegnò quasi un’accenno di sorriso, su quel suo volto teso e sempre in allerta.

Daryn. Diamine, chissà che fine avrà fatto Daryn… anche se…

Reveka fece per sedersi sul bordo del letto. Poggiò il sedere vicino ai polpacci di lui e glieli prese tra le mani, carezzandoli mentre dormiva.

«Sembra quasi che la tormenta ti tenga sveglia, mia cara».

Le serpi sul cranio della Gorgone e le sue stesse fauci scattarono e sibilarono all’unisono, gettandosi con gli occhi sgranati sull’uscio buio della porta. la voce era venuta da lì. Reveka si staccò dal materasso e si gettò a terra a quattro zampe, come una bestia pronta ad attaccare il collo del cacciatore.

Ma la figura rimase immobile. Dietro, i lampi ne rivelarono i tratti, e Reveka per un attimo ebbe paura. Ma solo per un attimo.

«Me… Meandor?».

L’uomo annuì con calma, con gli occhi socchiusi e le mani giunte. Tuttavia, Reveka capì subito che quello lì davanti, non era affatto il vecchio in carne e ossa. I suoi contorni parevano fatti di fumo, e la sua voce di poco prima era come un’eco dentro una specie di grossa pozza d’acqua. La Gorgone distese i nervi e si mise in piedi davanti allo stregone, fiera come se nulla fosse.

«Ti chiederei di abbassare lo sguardo, ma non c’è nulla che tu non abbia già visto, vecchio mio».

L’uomo sorrise ridacchiando, la sua figura di fumo si fece lenta verso il letto.

«Dovresti averlo capito, oramai, che ho ben altri gusti, mia cara».

La Gorgone sorrise, socchiudendo lo sguardo.

«Come mai questa proiezione? Per precauzione? Bastava bussare e mi sarei messa la maschera».

«No, mia cara, non è per precauzione, o almeno non solo per quello».

La Gorgone chiuse gli occhi e ascoltò per un momento i sussurri delle serpi, che parevano calme e rilassate alla vista del vecchio. Stavolta, quel tizio sarebbe potuto davvero essere Meandor.

«Dove ti trovi, adesso?»

«Oh, adesso sono a Uprea, alla residenza estiva di Dama Thetis. Il principe Atalos è tornato a Kerkinta, sotto mio avviso, dopo quello che è successo a suo padre. Tra pochi giorni andrà in sposo alla principessa Hitriel di Yeglea, così ha deciso il Concilio, almeno»

«Hitriel di Yeglea? Una delle figlie di Eltaor?»

«Già».

Reveka smosse il sopracciglio, tornando ad appoggiarsi alla parete vicino la finestra e mettendosi a braccia conserte, continuando a fissare il vecchio.

«Meandor, perché sei qui?».

L’ombra di fumo dello stregone gettò un’occhiata al corpo addormentato di Vesirius, poi s’avvicinò al bordo del letto e ci si sedette sopra.

«Ho letto la missiva di Vesirius giusto stasera. Che cosa è accaduto a Gesimar?».

Reveka espirò voltando lo sguardo altrove e lontano dagli occhi del loro mentore, che sapeva essere pregni di giudizio.

«Cosa è accaduto? È accaduto che stavamo per rimetterci la pelle per colpa mia, ancora una cazzo di volta».

«Reveka…»

«No, è la verità, Meandor. Ecco cosa. Quel “Coso dei Sussurri” m’ha fregata un’altra volta, un’altra volta… e non mi sto dando pace, cazzo. Se gli fosse successo qualcosa, io…».

Reveka gettò di nuovo lo sguardo ambrato verso Vesirius, che si girò nel sonno giusto di poco, ignaro di quello che stava accadendo giusto a pochi passi da lui. Meandor si fece torvo e poggiò il capo sulla mano destra. Al contatto, il suo viso emise uno sbuffo di fumo che deformò il suo volto per un momento.

«Sei sicura che sia stato lui? Voglio dire, quanti anni sono passati? Venti? Trenta, dall’ultima volta?»

«Ventisette» rispose secca la Gorgone.

«Non potrebbe essere opera di qualcun’altro?»

«Non lo so. Ves è piuttosto convinto sia stata opera sua».

Meandor si grattò la lunga barba crespa e si passò una mano sopra la capocchia pelata e piena di macchie scure, visibile nonostante quel suo cranio fosse fatto solo di vapore intangibile.

«Qualcosa non ti convince, vecchio?»

«Sono molte le cose che non mi convincono, mia cara. La Cabala di Baruk che assassina Iskar il Giusto, il Maestro dei Sussurri che ricompare dopo tutti questi anni, e che sembra avere una qualche specie di predilizione per te… poi Sinesgarmo che mi riferisce di uno strano flagello che sta colpendo gli Déi. La morte dell’Oracolo Maledetto, confinato dentro al corpo di un’innocente fanciulla, bruciata sul rogo solo perché il fato le ha passato questo fardello. Non lo so. Più il tempo passa, più accadono queste cose, e più mi tornano alla mente le parole di Cossius in merito all’Apocalisse Bianca, o al Vespro Viridiano. Non lo so, sento come se tutti questi episodi fossero dei pezzi sopra una gigantesca scacchiera, e non sapere chi sia il giocatore che la sta smuovendo, non mi fa dormire la notte».

Reveka deglutì e nulla più. Se la paura si fosse dipinta sul suo volto, Meandor lo avrebbe di certo notato, e la Gorgone detestava farsi vedere spaventata.

«Allora non sono l’unica a essere preoccupata»

«No, mia cara. Direi proprio di no»

«Ad ogni modo io non temerei troppo l’Apocalisse, vecchio, quando abbiamo dalla nostra lo stregone più potente di tutti i tempi».

Reveka squadrò Meandor e lui sorrise in modo caloroso, seppur un lieve velo di melancolia sembrò attraversargli quelle sue iridi di vapore, solo per un istante.

«Lo sai che stasera è venuto a trovarci Dregden?».

Il vecchio s’alzò molto piano col busto, contraendo i sopracciglioni folti sul suo capo.

«Dregden Livington?»

«Già… ha fatto strano anche a me, a dire il vero. Lo davamo tutti per morto».

Meandor abbassò di nuovo lo sguardo a terra, fissando il pavimento di legno umido proprio sotto i suoi piedi incorporei, quietandosi in uno strano silenzio, che in quel momento fece rabbrividire anche le serpi sul capo della Gorgone.

«E che cosa vi ha detto?»

«Che il Pozzo di Vester s’è svuotato».

Meandor non ebbe nessuna reazione inaspettata, nessun sobbalzo, nessun borbottio sorpreso, solo uno sberleffo di rassegnazione.

«Allora Sinesgarmo aveva ragione…».

Reveka si mise di nuovo a braccia conserte, coprendosi i seni e gettando ancora una volta lo sguardo alla tormenta, dando le spalle al vecchio.

«Che sta succedendo, Meandor?».

Il vecchio s’alzò dal letto piano piano, e nonostante non lo stesse vedendo, in quel momento, la Gorgone lo percepì avvicinarsi al suo corpo, e quando lui le poggiò le mani eteree sulle spalle nude, Reveka si sentì come invigorita da uno strano calore, da un’emozione che, in lontananza, risplendeva quasi di speranza, di fiducia. Qualcosa che, in tutti quegli anni, lei non aveva mai provato. Qualcosa che le fece inumidire le iridi ambrate, anche solo per un momento. Quel calore, non era affatto fastidioso.

«Dobbiamo essere pronti, mia cara. Quando muoiono gli Déi, si destano le maree del cambiamento. Io non so ancora a cosa porterà questo disegno, ma su una cosa posso rassicurarvi. Farò del mio meglio, per proteggervi entrambi».

Reveka non si smosse, nonostante tutto non ebbe nemmeno la forza e la volontà di dir qualcosa al vecchio, non una parola gentile, non un cenno di ringraziamento. Qualcosa dentro di lei glie lo impediva. Qualcosa di sé stessa, che la sua parte rettile aveva imparato a riconoscere fin troppo bene.

Meandor si staccò dalle spalle della Gorgone e si incamminò claudicante verso l’uscio aperto della stanza da letto, dando la schiena al ratto addormentato e alla serpe che fissava inquieta la tempesta.

«Solo una cosa, Reveka. Fai attenzione a Dregden, tienilo d’occhio se dovesse rifarsi vivo. Credo che il suo ritorno, potrebbe non essere benevolo come speriamo».

La Gorgone continuò a dargli le spalle senza voltarsi, mentre le serpi sul suo cranio vibravano nel vuoto come fossero immerse in un oceano profondo, gettando sguardi cauti al vecchio, al Vesterith e alla pioggia battente sul vetro di quel castello.

«Fai buon viaggio, Meandor»

«Mi rifarò vivo, non preoccuparti».

Poi il vecchio svanì nel buio della notte, rapito in un battito di ciglia da un lampo brillante in mezzo alla tormenta.

Reveka si staccò dalla finestra e si rinfilò subito tra le coperte calde del letto sfatto, appoggiandosi di lato e posando le sue mani tiepide sul viso dello sposo addormentato. Poi, lo baciò sulla fronte e tornò a distendersi con la schiena, sperando che, almeno stavolta, il sonno la rapisse a sé.

Sarò io a proteggerlo, Meandor. Sarò io a prendermi cura di lui.

Racconto di Tiziano Ottaviani.

Original Art by: Cristiana Schiavo (Cahlline)