Il giorno in cui la vidi per la prima volta fu il vero primo giorno della mia eterna e tediosa esistenza…
Camminava leggiadra tra i campi, nei pressi di un fiumiciattolo di cui stava risalendo il corso, persa nella sua gioviale spensieratezza, non accorgendosi che quel corso d’acqua aveva la sua fonte nei pressi di uno dei tanti ingressi nel mio regno.
La presenza divina non passò inosservata a me, custode di quei luoghi, essendone stato dapprima allarmato, ma quando, per controllare cosa stesse accadendo, emersi con armatura, carro e bidente dalle profondità del mio regno, non ebbi il coraggio di interrompere il canto di quella fanciulla.
Lunghi capelli lasciati sciolti; occhi grandi e limpidi; una voce acuta, cristallina; piccole e leggiadre mani che intrecciavano una corona di fiori variopinta… quindi riconobbi il taglio degli occhi fiero, a tratti arrogante, mio e dei miei fratelli, così come riconobbi le forme tonde, anche se non abbondanti, delle mie sorelle…
Capì chi fosse… la tanto amata figlia di mia sorella Demetra, avuta con un fugace e in realtà indesiderato rapporto con mio fratello Zeus. Kore la chiamava la mia fin troppo gelosa sorella, “la giovinetta”, la primizia degli Olimpi. Persefone, la donna che con il suo solo muoversi mi aveva rapito il cuore.
Uno dei quattro stalloni neri nitrì e lei si girò all’improvviso, spaventandosi per un secondo nel vedermi armato di tutto punto prima di riconoscermi e sorridermi. Mi salutò, mi diede i suoi ossequi e si presentò, poiché lei era stata presentata agli Olimpi, non a me, che per dovere rimanevo rintanato nelle profondità del Tartaro.
Arrivò persino ad inchinarsi a me… mentre io, come il più sciocco dei bambini, balbettavo ed ero incapace di risponderle alcunché! Io! Il tenebroso signore degli Inferi, Ade! Figlio di Crono, portatore dell’Elmo dell’Invisibilità, signore supremo dell’Oltretomba, uccisore di Titani e Giganti… senza parole, inerme davanti ad una giovinetta che, in risposta al suo inchino, ricevette il mio.
Ridacchiò, divertita e lusingata. Balbettando, la salutai e mi presentai anche io, quindi mi scusai per averla sorpresa in quella maniera, avvisandola del luogo ove si stava dirigendo.
“Non è posto per te, bambina – le dissi – il regno dei morti deve essere solo un mio onere, non degli Olimpi, o della loro… leggiadra progenie”
Lei mi guardò, quasi rattristita: “Un peso così grande per le spalle di un sol uomo…” disse con una maturità sorprendente, quindi mi accarezzò il viso, mi salutò ancora e mi sorrise per poi andare via. Una figura emerse dall’oltretomba, portando con sé una torcia accesa. Ecate ridacchiò di me: mi conosceva bene ormai e ben capì come in quel momento stessi solo malamente fingendo di avere ancora un contegno.
Ma io sapevo che Demetra era gelosa di sua figlia, quindi, con severità, proibì alla figlia della Notte di proferire parola con nessuno di quei fatti, pena conseguenze che non avrebbe mai potuto concepire.
Ecate rabbrividì, nonostante il sangue nelle sue vene, e annuì: il terrore era un’arma potente, la mia unica vera arma, ma a poco mi sarebbe servito nei giorni che seguirono.
Io non sono come Zeus, non ho un cielo da cui osservare tutto… io ho solo tenebre e morte attorno a me, e tanto… troppo tempo per pensare. E i miei pensieri erano solo per la bella Persefone, unica nella sua ingenuità a capire il peso che mi era stato affidato. Col trascorrere eterno dei giorni, mi resi scandalosamente conto di cosa stava accadendo.
Ero innamorato dell’adorata figlia di Demetra, che custodiva la ragazza come un gioiello prezioso, quale era, e ne allontanava tutti gli spasimanti, terrorizzata com’era da cosa gli uomini della nostra stirpe potessero farle. E a buona ragione.
Ma l’amore rende ciechi ed io, più cieco di tutti, più cieco della divina Astrea, feci la cosa più sbagliata di tutte: chiesi consiglio a mio fratello Zeus.
Cielo, cosa mi era saltato in mente! Pensare che Zeus potesse darmi la benedizione, in quanto padre della fanciulla, era naive: Demetra odiava Zeus per il rapporto al limite della violenza da cui aveva ottenuto la bella Core… ma era ancora più da ingenui pensare che Zeus potesse darmi un consiglio diverso dal suo comune modus operandi.
Mi mise il braccio sulle spalle, gongolando del mio evidente imbarazzo, e mi consiglio di imitare quello che “il tuo fratellone fa ogni volta”: lui avrebbe chiuso gli occhi, tappato le orecchie e voltato anche il capo mentre io, col mio carro, avrei dovuto rapire Persefone, farla mia e “imprigionata nel Tartaro dandole in pasto un paio di quei tuoi acri frutti, così da non poterla fare più scappare!”
Lui avrebbe fatto il finto tonto, io avrei ottenuto il mio… ah, premio… e Demetra si sarebbe dovuta rassegnare. Niente in questo piano partorito dalla sua testa piena di cumulonembi si sarebbe rivelato corrispondente alla realtà… ma neanche la mia testa era particolarmente pregna di grandi pensieri in quei momenti.
Ponderai innumerevoli giorni e notti, ma l’immagine della bella Persefone affollava la mia mente e impediva lo scorrere lucido dei pensieri… inoltre la ragazza si avventurava troppo spesso nei pressi dello stesso ingresso dove ci eravamo conosciuti. Passava ore a cogliere i fiori che vi crescevano, forse perché crescevano solo in quei particolati punti, vicino al mio regno. Ore e ore a osservare gli Asfodeli, e io a fissare lei, nascosto nell’ombra, senza farmi scoprire ma senza nemmeno il coraggio di fare come avrei dovuto fare.
La madre la accompagnava spesso, tenendola costantemente d’occhio, come la più odiosa delle chiocce: la mia fin troppo invadente sorella non mi avrebbe mia fatto avvicinare alla sua preziosa bambina. Ero uomo, come i miei pervertiti fratelli… ed ero io, soprattutto… il più abietto dei figli di Crono… il custode del luogo più tetro dell’universo… indegno della bellezza di Kore.
No! Non era giusto! Io non ero il tetro servitore del cosmo, smorto e senza volontà! Anch’io ero un Cronide, alto e fiero come i miei fratelli, serio come loro se non di più! Capo di un dominio più sconfinato di Cielo e Mare!
E carico di queste pensieri, di questa furia generata dal vacuo sguardo mieloso della mia fin troppo opulenta sorella, mi armai di nuovo. Basta soprusi, basta essere sempre etichettato come il reietto, come il diverso. Anche io ero un Cronide, quindi anche io avrei fatto quello che mi andava alle mie condizioni!
…
Che grave errore…
Aspettai il giorno in cui la mia odiosa e petulante sorella preferì l’ozio e il riposo all’accompagnare sua figlia nel giro per i campi, quindi, mentre la bella e dolce Persefone era china su un asfodelo appena sbocciato… caricai.
Terrificante sul mio nero carro, la fanciulla urlò di sorpresa e paura quando, con forza e braccio saldo, la rapii, trascinandola nelle profondità dell’Oltretomba. Mi riconobbe quasi subito, ma questo non le impedì di strepitare ed urlare come un’ossessa, dapprima cercando di blandirmi e poi insultandomi per il gesto folle.
Le sue parole mi ferirono profondamente, ma solo perché erano profondamente vere. Hypnos, disturbato dal frastuono, inviò uno dei suoi sogni per placare la giovane, ma ormai le sue proteste avevano fatto effetto… sapevo che ormai non potevo più pensare di conquistare il suo cuore… ma lo stesso la tenni con me.
Le creai una piccola dimora, con un giardino, nel luogo più remoto della piana degli Asfodeli, immersa nei fiori che tanto sapevo apprezzasse, ma quando si risvegliò, Persefone non mi degnò di uno sguardo.
La implorai di capire il perché l’avessi fatto, che non avevo altra scelta… cosa non vera… ma che l’amavo, l’avevo amata dal primo momento in cui i nostri occhi si erano incontrati. Questa era l’unica verità.
Persefone, alla mia confessione, mi guardò con uno sguardo indecifrabile… quello che ora mi fa quando combino qualche guaio nell’escogitare punizioni per i dannati… e nei suoi occhi salirono delle lacrime, che pure non versò. Si limitò a tacere e a sedersi per terra, mentre io ero lì, immobile, a cercare di fare conversazione. Mai stato il dio delle conversazioni.
Passarono i giorni e Persefone rimaneva immobile, rifiutando di mangiare e di bere ciò che le portavo, forse consapevole che se l’avesse fatto sarebbe stata, come me, incatenata in quel luogo per sempre. Eppure non smetteva mai di guardarmi e mi fissava, ogni giorno con sempre minore astio e sempre maggiore confusione, mentre le raccontavo dell’epoca dell’oro, dei tempi che mi costrinsero ad assumere quel ruolo.
Sembrò capire cosa mi era successo, cosa ero dovuto diventare e cosa mi aveva spinto a fare quel gesto efferato contro di lei. Circa due settimane trascorsero e io, pur chiamato spesso ad adempiere ai miei infiniti doveri, continuavo a passare quanto più tempo possibile con la bella Persefone, che silenziosa mi ascoltava. Ma ogni giorno con maggiore interesse.
Le raccontai allora le gesta mie e dei suoi altri zii, persino di sua madre, per quanto sapevo che in superficie Demetra stava scatenando la sua rabbia e aveva saputo che sua figlia era mia… prigioniera. Le raccontai di storie paradossali e incredibili e, seppur lei non mi parlasse, la bella Persefone prese a ridere, una risata silenziosa ma cristallina, che in quegli ultimi giorni di sua prigionia mi riempì il cuore di speranza.
Forse Persefone mi aveva capito, forse mi aveva anche perdonato, e forse avrebbe potuto decidere di rimanere. Ma Ermes giunse a spezzare quelle speranze.
Demetra stava sterminando l’umanità, Zeus non poteva più far nulla per coprirmi. Dovevo liberare Kore.
Ero nel recinto di asfodeli assieme a lei quando il baldo e gioviale figlio di Zeus mi aveva portato quel messaggio. Forse aveva paura che io reagissi violentemente, visto il nervosismo che aveva negli occhi, ma quello che riuscì a fare fu solo sospirare. Mi lisciai la barba, stropicciai gli occhi e dissi: “Domani la riconsegnerò”
Persefone si alzò da terra, sbigottita. Pensai fosse per la gioia, ma sul suo volto, quando lo vidi c’era solo un’enorme sorpresa. Lei fissò me ed io lei, tristemente, quindi le confermai che l’indomani l’avrei liberata. Me ne andai, scusandomi per il trattamento riservatole e sperando che lei potesse perdonarmi. Ancora una volta lei non disse nulla, ma tese timidamente la mano mentre le voltavo le spalle. Non osai guardarla oltre in faccia, poiché non volevo che quella pazzia che mi aveva fatto compiere il gesto orribile del rapirla prendesse ancora possesso della mia mente.
Quando il mattino dopo andai a prendere Persefone, evitai ancora di guardarla, quindi non vidi che il melagrano che le avevo offerto i primi giorni di prigionia era stato aperto. Non del tutto mangiato, ma aperto e parzialmente consumato.
Quando arrivai dinnanzi al trono di uno Zeus sconfidato e impotente di fronte alla furia della sorella maggiore… della nostra maledetta sorella maggiore… fu il mio stesso fratello a sorridermi quando ci vide arrivare. Non capii, ma poi Persefone parlò.
“Ho mangiato dei frutti dell’Ade”
La reazione di tutti a questa semplice frase fu variegata: Zeus a stento conteneva le risate, Demetra pianse di dolore e urlò tutta la sua rabbia contro di me… io guardai Persefone, allibito, mentre lei mi sorrideva debolmente.
Il Signore del Cosmo decretò la sua decisione: sei mesi con Demetra, sei mesi con me. Persefone sarebbe stata libera di decidere comunque di non frequentarmi. Nello sbigottimento di tutti (e nelle ottuse lacrime disperate di Demetra), Persefone mi prese per mano e fu lei a condurre un sempre più attonito me nelle profondità dell’Oltretomba.
“Tutto questo è un peso troppo pesante per le spalle di un sol uomo… lascia che ti aiuti a portarlo” mi disse con dolcezza il giorno successivo, prima di baciarmi… prima di diventare mia moglie.
Persefone è da allora la Regina degli Inferi… la mia regina. L’unico vero amore della mia immortale esistenza. Gelosa e spesso volubile, facile all’ira alle mie pochissime scappatelle (mentre di Adone non se ne può nemmeno parlare… ehm)… ma indiscutibilmente l’unico motivo per cui sopporto questa misera permanenza nel regno dei trapassati.
I sei mesi senza di lei portano nelle tetre sale del mio palazzo un inverno ben peggiore da quello che colpisce il mondo in superficie quando lei è lontana dalla sua… mammina… ma ogni giorno, ogni interminabile minuto di attesa viene ripagato con un amore così profondo che mai avrei immaginato potessi avere.
Nessuno degli Olimpi probabilmente ha trovato nelle proprie mogli cotanta perfezione come io l’ho trovata in Persefone. Lei non ha bisogno di essere la dea del matrimonio per essermi fedele o di essere la dea dell’amore per essere la più bella. Persefone è la mia regina, in ogni senso possibile. Nelle ristrettezze e nel buio del mio regno, lei ha saputo guardare dentro di me come nessun altro ha mai fatto prima, o anche dopo, portando il calore dell’Estate nel mio cuore, un dono di cui non smetterò mai di essere lieto, specie per come mi è stato concesso…
E da quando c’è lei, persino nell’Oltretomba è diventato possibile scorgere l’arrivo del calore e dell’Estate…
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Racconto di Vittorio Grimaldi.
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