“Devo tornare a casa….” sussurrò il ragazzo.
La ragazza lo guardò stordita, stropicciandosi gli occhi.
“Come…?”
“Hai capito Odena…devo tornare a casa” disse in un sol sospiro il giovane.
Teneva tra le mani una pergamena piuttosto malconcia, molto probabilmente per il lungo tragitto che aveva affrontato per arrivare fino a quella stanza da letto.
“Ma perché Atalos…che è successo?”
La giovane moretta stava distesa svestita nel letto, avvolta solo delle leggere lenzuola e di gioielli preziosi. Guardava il ragazzo con sincera preoccupazione, anche se era ancora mezza addormentata.
Atalos a differenza era già vestito di tutto punto, con tanto di scarpe e cappello. Alla notizia della lettera che giungeva da Kerkinta, si era voluto recare lui stesso dal messaggero e prenderla direttamente, senza intermediari.
Ormai stava a Uprea da anni. Il padre lo aveva inviato all’età di dieci anni alla corte di Uprea per imparare al meglio le arti oratorie e avere studi approfonditi della politica nella città che aveva partorito le menti più brillanti dei decenni passati. Lo stesso Iskar aveva studiato lì, protetto dal Re Ejahr, che lo aveva accudito come un figlio.
Uprea era riconosciuta da tutti i regni come una città libera, indipendente, democratica e ricca.
Avere un’istruzione alla corte del Re equivaleva ad avere le porte aperte per ogni qual si voglia posto politico. Ed era proprio per questo motivo che Iskar aveva deciso di donare alla città la giovane mente del figlio amato, in modo tale che potesse germogliare e fiorire.
Un addio doloroso, ma giusto.
E in quella città il giovane Atalos aveva creato la sua seconda vita, la sua seconda famiglia. In nove anni aveva ormai padroneggiato quasi completamente tutte le arti a cui era stato istruito: l’arte della pittura, della musica, l’arte della guerra e della danza, del galateo a tavola e delle buone maniere con le signore, ma ancora sembrava non aver appreso appieno l’oratoria, il saper parlare in modo disinvolto davanti al pubblico. Il poveretto soffriva di cuore debole e ginocchia ballerine al solo pensiero di doversi mostrare a un pubblico più ampio di dieci persone, dote invece che aveva contraddistinto il padre in maniera eccelsa.
Purtroppo non sempre il sangue buono crea individui perfetti, e il povero Atalos, per quanto eccelso in ogni disciplina, era assolutamente incapace di far smuovere emozioni con le parole.
Ma questo la povera Odena non lo vedeva. La ragazza, di modeste origini, si era innamorata non del figlio dell’Arconte, pittore, musico e guerriero, ma del ragazzo che rideva per un nonnulla, dal cuore grande e a volte un po’ debole.
E quindi stava in quelle coperte, a guardarlo come si guardano le stelle, con gli occhi smarriti nell’amore e la testa appoggiata alle mani.
Anche lui l’amava, e anche se alla corte mostrava un formale disinteresse per la giovane, quando si trovavano in intimità l’abbracciava e l’adorava come una dea.
Erano due ragazzi, lei di sedici anni e lui di diciannove, che sembravano ancora così acerbi, innocenti e infatuati che sembravano usciti da un libro.
Ma quella mattina, quella mattina in cui il sole era ancora pallido in basso nel cielo, il volto di Atalos si dipinse un dispiacere doloroso.
“Mio padre è…morto…”.
La frase rimase in sospeso nell’aria, in attesa di essere assimilata dalle orecchie.
Iskar Il Giusto era morto.
Ucciso a quanto sembrerebbe.
Avvelenato, perlomeno.
Atalos si sedette sul bordo del letto, con ancora la lettera chiusa nel pugno destro, e la mano sinistra sulla fronte a tener ferma la testa.
La ragazza si trattenne dal piangere, sapendo che scoppiare in lacrime non avrebbe risolto nulla e non avrebbe aiutato l’umore dell’amato. Ma era perfettamente a conoscenza dell’amore che legava i due, con una devozione assoluta del figlio verso il padre, e un amore smisurato del padre nei confronti del suo figlio prediletto. In lui riponeva il suo futuro e il destino di Kerkinta.
Ma quel futuro era stato improvvisamente spezzato, modificato dalla morte improvvisa.
Odena si avvicinò ad Atalos, abbracciandolo da dietro, stringendolo a se’ come fosse stata parte stessa di lui.
“…mia madre dice inoltre che devo tornare assolutamente a casa, trovarmi una moglie e presentarmi alle prossime elezioni, che saranno tra meno di un mese…io…io…”.
Ormai nemmeno lui credeva più a quello che stava leggendo. Gli sembrava tutto così assurdo…
A quelle parole, Odena non riuscì a trattenere le lacrime, bagnando la morbida camicia bianca del ragazzo di lacrime salate.
Il mondo stava crollando per i due innamorati.
Anzi, era già crollato, e si era sbriciolato su spine aguzze.
In quella sola e unica lettera della madre, era stata decretata la fine del loro amore.
Lui sarebbe dovuto partire, tornare nella città di origine a dieci giorni di distanza, sposare una donna e dimenticare Odena per sempre, per intraprendere subito la vita da politico, affrontare il Consiglio dei Cento da solo per diventare Arconte… lui, povera anima, che era timido come un cerbiatto.
I due cuori spezzati si fusero insieme, uniti dalle lacrime, in un silenzio interrotto solo dai singhiozzi di lei.
“Ato non partire…ti supplico” disse con voce mesta, rovinata dal pianto.
Lui non le rispose.
Parlare avrebbe solo peggiorato la situazione.
Le prese una mano e la strinse come fosse stato un pezzo di tessuto, la portò al viso, baciandone la pelle profumata e asciugandosi le lacrime silenziose con essa.
E solo dopo interminabili minuti di silenzio che ai due parvero quasi giorni, lui trovò il coraggio di parlare.
“Io andrò Odena…
Andrò, mi sposerò e parlerò davanti al Concilio dei Cento…
Ma tu sappi che quella donna, chiunque essa sia, non avrà mai il mio cuore e la mia mente, perché sono completamente dedicati a te.
E quando sarò Arconte, lo giuro sugli Dei e sull’anima di mio padre, verrai a Kerkinta e vivremo insieme, costi quel che costi…vivrai da regina, te lo prometto.
Attendi con fiducia Odena, promettimelo…”.
E per la prima volta da quando era arrivata quella lettera dolorosa, Atalos guardò la ragazza negli occhi.
Mai giuramento fu più vero e sincero.
Lei annuì, gli prese il volto delicatamente e lo baciò con tenerezza sulle labbra.
Per l’ultima volta si unirono in quel letto sontuoso, talamo del loro giovane amore.
Non sapevano quale sarebbe stato il giorno in cui si sarebbero potuti rivedere, e decisero di passare l’ultimo giorno uno nelle braccia dell’altra.
Ma il giorno passò, e così anche la notte.
L’alba seguente era giunta.
I carri con gli averi di Atalos erano già stati caricati, e le porte di Uprea spalancate per la partenza dei Principe Amato, come lo chiamava affettuosamente il popolo, nonostante non fosse veramente un principe.
Si svegliò da solo quella mattina.
Odena era scomparsa, lasciando dietro di se’ un letto sfatto e un cuscino bagnato di lacrime d’amore.
Il viaggio del figlio prediletto fu una straziante tortura, in cui gli occhi di Atalos alternavano la vista della lettera maledetta e il velo di seta di lei, che si era dimenticata nella stanza da letto la notte precedente.
Profumo di buono, profumo di ambra e fiori in piena fioritura. Affondò il viso nel velo, quasi a volersi soffocare di quel dolce profumo.
Inspirò.
Trattenne il respiro.
Sapeva di lei, della sua pelle, i lunghi capelli mori, gli sembrava quasi di avere la sua pelle sotto le dita…
Espirò.
Piegò gentilmente il tessuto da una parte. Il viaggio sarebbe stato lungo e non si sarebbe mai perdonato se il velo avesse perso il suo profumo. Ma non ci fu momento in cui la testa del giovane non tornasse tra le braccia della ragazza.
I dieci giorni passarono, e le porte di Kerkinta si avvicinavano di ora in ora sempre di più.
Le tende che coprivano la lettiga erano di un color vino denso, che oscurava il sole cocente. Scostò appena il pesante tendaggio per respirare aria fresca e la vide.
Kerkinta, la Bianca.
I muri di color bianco come neve, si stagliavano davanti alla strada lastricata.
Due gigantesche colonne davano il benvenuto ai carri stranieri, levandosi al cielo azzurro e sollevando un fregio blu come il mare.
Casa era lì.
Casa era oltre quelle mura, oltre quelle colonne.
Aveva la sensazione di essere lui stesso l’unico a sostenere il peso di quel fregio immenso, come unica colonna, appesantito e schiacciato dal mondo che lo aspettava.
Ed era così. Lui ormai era l’unico a sostenere il peso della famiglia, era l’unico a poter portare avanti il nome suo, e portare onore al nome del defunto padre.
Tutta Kerkinta aveva gli occhi su di lui e le sue parole.
“Fermi! Fermatevi qui!” ordinò ai lettighieri.
Scese di gran corsa.
Ormai non era più una lettiga quella, ma un forno in cui stava cuocendo lentamente e dolorosamente.
Il bisogno d’aria fresca e di muovere le gambe gli attanagliava la mente.
Appena mise i piedi per terra, con un rapido gesto ordinò a un servo di fargli portare il suo destriero.
In men che non si dica già era a dorso del destriero, sellato di tutto punto.
Il richiamo della libertà era troppo forte. Aveva come la sensazione che a stare dentro la lettiga sarebbe rimasto imprigionato dei suoi stessi pensieri. Era come un’enorme pentola, in cui da dieci giorni stava a macerare come frutta nel vino nei suoi stessi pesanti pensieri. Il tocco con la terra ferma, il cavallo che andava come un dannato al galoppo, l’aria quasi fredda tra i capelli e l’odore di pietra e sterpaglia sembrava potergli donare momentaneo riposo da quei dolori.
Partì al galoppo, anticipando la lenta carovana, ed entrò per primo nella città.
Nulla era cambiato nei nove anni trascorsi, il grande fermento energico di commercianti, mercanti, viandanti e oratori nelle piazze e nelle vie.
Due strattoni rapidi alle redini e condusse il cavallo nelle ripide stradine che percorrevano come vene pulsanti il cuore di Kerkinta.
Quando giunse davanti a casa, la carovana aveva appena varcato le porte della città.
La madre di Atalos, Thetis, l’attendeva nel vestibolo, sorridente e con le lacrime agli occhi.
Thetis era una bellissima donna di trentasei anni, dai lunghi capelli neri come la notte, robusti e ricci, un viso privo di segni, naso dritto e armonioso, occhi scuri e profondi con folte sopracciglia anch’esse nere.
Era avvolta da un grande telo bianco, che la copriva da testa a piedi, avvolgendosi più volte sul corpo ancora giovane e bello della donna nonostante il parto e il tempo.
Il giovane le corse incontro, abbracciandola dopo nove anni di lontananza. Vedere la madre poi vestita a lutto, gli aveva aperto ancora di più la piaga in petto. Era la rappresentazione vivente del lutto che fino a quel momento lui aveva provato solo nel suo cuore.
“Oh bimbo mio…” sussurrò la donna, mentre accarezzava la testa del figlio appoggiato al petto.
“Madre…”.
“Silenzio, bambino mio… i canti funebri sono già stati fatti, i sacrifici animali ad Aretha anche… ormai non c’è più nulla da fare, se non pregare che gli Dei lo abbiano in cuore come noi abbiamo fatto”.
Una voce calda, rassicurante, che sembrava cullare la mente tempestosa del diciannovenne.
Atalos sentiva il profumo d’incenso provenire dai vestiti candidi della madre, e le mani morbide che gli accarezzavano il volto. Sembrava di essere tornato fanciullo, cullato dal calore affettuoso della donna.
“Ma ora alzati Atalos…è finito il tempo delle lacrime, sii uomo, come avrebbe voluto tuo padre…” un’ultima carezza e la donna scostò dal petto gentilmente il giovane.
Atalos si pulì il viso con il dorso della mano, e cercò di ritornare in se’.
La madre era sempre stata una persona molto calma, serafica e tranquilla, che con il solo suono delle sue parole era in grado di calmare gli animi più irrequieti. Anche a lei mancava immensamente il figlio, ma una donna del suo lignaggio mai si sarebbe piegata a piangere e gridare per il ritorno del figlio a casa. La sua era una felicità personale, interiore, di quelle che fanno sollevare e sorridere anche il cuore.
“Dopo anni di lontananza, creatura mia, sei tornato a casa… mangia, dissetati, dormi, fai tutto ciò che ti può alleggerire l’anima e la mente”, gli disse, sorridendo.
“Prima di potermi sistemare madre, ho da chiedervi spiegazioni su-…”.
“Sì, lo comprendo figlio mio…vieni, seguimi” lo interruppe la donna di bianco vestita. Si girò e con passo svelto ma non nervoso, condusse il ragazzo oltre ai due cortili della lussuosa casa, fino al retro dell’abitazione.
Da quel punto sopraelevato, si vedeva l’intera città di Kerkinta, bianca come la spuma del mare. La casa aristocratica era collocata su una collinetta appena sopraelevata sulla città, e da quel punto si poteva benissimo vedere sulla sinistra la collina più alta in assoluto il tempio di Aretha, al centro la grande piazza del mercato e sulla sinistra l’enorme teatro a gradoni, aperto dentro il fianco di una collina.
“Atalos, tu sai cosa succede quando muore un Arconte…
Ormai è giunto il momento di mostrarti in società, non puoi più ritirarti da questo dovere.
Se vuoi che il tuo nome sia scritto negli annali insieme con quello di tuo padre, questa è la tua occasione…” sospirò con fare serio “…la nostra occasione. Io sono vedova, tu sei l’unico figlio maschio che può far ciò. Non potremo vivere per sempre con le venti arpe che mi concede il Consiglio dei Cento per il fatto di essere stata una vedova dell’Arconte, potrai capirlo…”
“Assolutamente, lo capisco madre… ma non comprendo il motivo del matrimonio”. Il ragazzo deglutì amaramente quel discorso che tanto gli faceva male al cuore. Avrebbe affrontato gli Dei stessi, ma quel matrimonio proprio non lo comprendeva…
La donna si fece improvvisamente seria, inscurendo l’espressione come una nuvola davanti al sole.
“Andrai a fare il tuo discorso davanti al Consiglio dei Cento, un Consiglio in cui la metà è fatta da anziani, l’altra da uomini maturi. Tutti hanno mogli, figli, figlie e schiavi a carico. Se ti presenti senza nemmeno una moglie rispettabile, sarai solamente lo zimbello, il bambino che va a giocare con le cose dei grandi. Non ho intenzione di passare dall’essere la moglie e vedova di un importantissimo Arconte rinomato e apprezzato per la madre di un inetto. Sono stata chiara?”.
La serietà e la durezza con cui le parole uscirono dalle labbra della donna furono come frecce avvelenate nelle orecchie di Atalos.
Per lui c’era solo Odena, e nessun’altra donna aveva anche il solo diritto di essere chiamata tale per lui…
Ma l’unica cosa che riuscì a fare fu quello di ingoiare il rospo e annuire silenziosamente.
“… Se poi vorrai avere altre donne, non sono affari che mi riguardano, purché queste unioni rimangano pur sempre celate alla vita pubblica…”.
Lui fece per aprir la bocca e confessare alla madre di aver già donato cuore e corpo alla sua Odena, ma lei lo fermò prima ancora che potesse solo pensare alla frase.
“Per questo ho fatto venire in anticipo la nostra amata Hithriel…”.
Una giovane donna apparve all’entrata della casa, come se fosse stata lì tutto il tempo e stesse aspettando solo quel momento per mostrarsi.
Era una fanciulla di una ventina di anni al primo sguardo, con lunghi capelli biondi come i narcisi, lunghi fino quasi alla vita, un volto affilato in cui erano incastonati occhi artici, naso sottile, sopracciglia quasi inesistenti e una bocca tenera come una fragola. Il collo delicato decorava un corpicino quasi immaturo, anche se era del tutto coperto da un vestito morbido e piuttosto vaporoso color avorio, che la rendeva quasi più una statua che una vera persona.
La vista di quella creatura fece traballare le certezze d’amore del giovane, ormai abituato a vedere solo donne more e castane. Nulla di tutto ciò gli era mai apparso in vita sua, sembrava una visione mistica.
“Hithriel, principessa del Regno di Yeglea, è la figlia del Re Eltaor l’Avveduto e suo gentile dono… è la figlia più bella e la più vicina d’età con te.” Disse la madre, omettendo gentilmente che la ragazza fosse una delle più piccole figlie del Re, dal futuro incerto se non fosse stato per quel matrimonio di convenienza.
La giovane sorrise, mostrando che in fondo anche lei respirava come tutti gli altri mortali. Portò delicatamente una ciocca di capelli lucenti dietro l’orecchio e solo in quel momento l’occhio del giovane si accorse di un particolare non ancora notato. Le orecchie della giovane Hithriel erano più appuntite di quelle degli altri uomini, assomigliando più alla forma di una foglia di alloro, ma più fragile e delicata, di un rosa tenue.
Tutti quegli elementi avevano completamente stordito il ragazzo, non comprendendo più se quella che si stava per sposare era una donna o un essere mitologico.
Il galateo gli impose di inginocchiarsi e fare il baciamano alla ragazza, che ancora non aveva nemmeno aperto bocca.
“Tu e Hithriel vi sposerete tra due giorni, il tempo giusto di prenderti le misure per l’abito e richiamare i musici in città. Fino ad allora per sicurezza alloggerà in un’altra casa, e al termine dei festeggiamenti verrete ad abitare qui.” concluse la donna.
I piani erano stati decisi, le sorti scritte, e Atalos era stato ormai trascinato in un vortice fuori dal suo controllo.
I due giorni passarono, e Atalos fu completamente abbandonato a se’ stesso. Gli unici contatti umani che aveva erano stati con i sarti, che gli dovevano preparare in fretta e furia la tunica per la cerimonia. Per il resto, la sua presenza fu come quella di un fantasma, inesistente. Nessuno chiedeva la sua opinione, nessuno s’interessava di lui. Si dava per scontato che il ragazzo fosse assolutamente maggiorenne e autosufficiente da potersela cavare due giorni, mentre la madre era intenta a organizzare il matrimonio dell’anno.
Ma l’unica cosa che Atalos riusciva a fare in quel tempo fu scrivere lettere.
O almeno, ci provava.
Metri e metri di papiro delicato, e il ragazzo rimaneva a fissarli inerme, con la penna intinta d’inchiostro in mano e il panico nella testa.
Avrebbe voluto tanto scrivere alla sua amata, anche se non sapeva se avrebbe fatto più male a lui o a lei…
Ore vuote, in cui ogni frase formulata sembrava così sbagliata, così misera da poterle scrivere…
Il matrimonio si stava avvicinando.
Più era ricca e facoltosa la famiglia, maggiori erano i divertimenti della celebrazione. Il cibo era distribuito a tutti i commensali dall’alba al tramonto. Per i più poveri i festeggiamenti duravano un giorno, i più abbienti continuavano per anche due o tre settimane. Gli spettacoli erano all’ordine del giorno, con musici, danzatrici, giochi di prestigio e animali esotici.
E Thetis sicuramente non aveva badato a spese.
Per quel matrimonio aveva calcolato quasi un mese di festeggiamenti, che non comprendevano solo gli invitati, ma avrebbero reso partecipe anche la città intera. In ciò ci fu chi vide una mossa di carità e buon cuore, ma solo chi conosceva veramente Thetis sapeva che nulla era fatto per un bene superiore. Tutto ciò serviva solo per far aumentare la nomea e il prestigio del figlio, in vista delle elezioni.

“Questa volta ci va di culo ragazze…niente polvere, terra, schifezze…” disse la donna al centro della sala.
Un’onda di risatine seguì quelle parole.
“Siamo trattate come regine, quando siamo solo delle donne di strada” scoppiò a ridere, come se avesse detto la cosa più naturale del mondo.
La stanza era un enorme locale dove erano state assegnate tutte le artiste, ballerine e musiciste. Un enorme bagno con ricchi mosaici di tenui colori, colonne corinzie di marmo rosa reggevano con eleganza il soffitto, e i capitelli portavano incisi vasi di frutta e fiori di ogni foggia. Il pavimento anch’esso era decorato a mosaici, con scene della mitologia di Aretha, in cui la Dea era raffigurata nella sua vestizione e preparazione. Al centro dell’enorme stanza vi era una vasca circolare interrata nel pavimento, con acqua calda e sui lati anche una seduta per potersi immergere con comodità.
Non vi erano finestre, se non un enorme oculo proprio sopra alla vasca, che illuminava la stanza e faceva fuoriuscire i vapori dell’acqua bollente.
Le donne si lavavano l’una con l’altra, aiutandosi a vicenda. C’era chi sedeva nella vasca mentre un’amica le passava con delicatezza l’acqua tra i capelli e la schiena, pulendo la polvere accumulata dalla strada, c’era chi si massaggiava con oli profumati la pelle, e altre ancora che erano già passate all’acconciarsi i capelli.
Thetis addirittura aveva messo a disposizione le sue schiave per aiutare le donne nella loro preparazione. Erano anche stati distribuitigli oli più profumati e ricchi della regione, ogni segreto di bellezza era svelato.
“No no, noi siamo donne di arte, tesoro” disse una con fare ironico, mentre si specchiava maliziosamente allo specchio, massaggiandosi la pelle con una crema a base di latte e altri strani unguenti, che illuminava la carnagione e la nutriva.
“Dipende l’arte di cosa” rispose velocemente un’altra, intenta a depilarsi le gambe con una mistura di orpimento e calce. Produceva un odore orribile, ma garantiva la completa scomparsa dei peli.
Tutte chiacchieravano, ridevano, si rilassavano. La nudità non era malvista, e giravano nella stanza a petto nudo e avvolte solo da un leggero telo.
“Avete dell’olio di palma?” chiese una.
“Qualcuna ha visto il mio profumo al rosmarino?” domandò un’altra al gruppo.
“Questa si improfuma come un pollo pronto allo spiedo!” delle risate seguirono la risposta.
Un gran vociare, un’enorme confusione di pettegolezzi e discorsi lascìvi.
Come di consuetudine per le donne di alto rango, le donne usavano olio di palma sul viso e sui seni, maggiorana sulle sopracciglia e sui lunghi capelli, essenza di timo o di altre piante molto odorose per gola e ginocchia, menta sulle braccia e infine la mirra sulle gambe e sui piedi.
Ma queste erano donne di strada, e alla vista di tutti quegli unguenti erano anche un po’ disorientate. Agli uomini comuni non importava la differenza tra menta e mirra, l’importante era scopare.
Ognuna poi aveva origini diverse, tradizioni diverse, consuetudini diverse e tutte puntavano a far risaltare i propri tratti tipici e fuori dal comune che le avevano contraddistinte.
Le ragazze provenienti da Tanidrus, dalla pelle dorata, s’illuminavano il volto con minuscole quantità di oro in polvere sugli zigomi e sulle palpebre.
Da Vetera venivano ragazze con la pelle ambrata, e usavano un miscuglio di fiori e terra finissima per mettere in risalto i fini corpi.
Odessus donava giovani dalla pelle candida e capelli neri come la notte, che cercavano di accentuare con tinture di erbe che donavano sfumature bluastre.
Da Alalia invece giungevano i capelli biondi come l’oro e gli occhi azzurri come il cielo.
Sembrava che il mondo si fosse riunito in quell’unica sala, e che parlasse solo con lingua di donna.
Una di queste tirò fuori da una borsa un cofanetto d’argento appena più piccolo di un pugno di un neonato e lo aprì.
“Cos’è quell’affare Mishia?” chiese una ragazza dai capelli color caffè.
“Polvere del Veglio della Montagna, tesoro…se te la spargi sui capezzoli, farai impazzire di piacere chiunque.” Disse ridacchiando maliziosamente.
Come api all’alveare, tutte accorsero dalla ragazza con lo scrigno magico.
Tranne una.
Una giovane moretta, dagli occhi scuri come un cerbiatto, rimaneva a truccarsi con cura allo specchio.
Aveva applicato con cura sulla pelle di porcellana del succo di more, per far arrossire le guance come un’infante. Le ciglia erano più scure e lunghe grazie a una tintura di fuligo e bianco d’uovo. La linea degli occhi era stata delicatamente allungata con il kohl, tanto che sembravano quasi finti e la palpebra colorata con noccioli bruciati e un tocco d’ocra, per dar colore agli occhi neri.
Appena le altre donne ebbero finito di azzuffarsi per ottenere un po’ di quella polvere, notarono la figura esile nell’angolo.
Non ci metterono molto per iniziare a schernirla.
“La bambolina non ha bisogno di queste cose, no…?”
“Ovvio che no scema, non vedi che ha a malapena dodici estati? Quanti anni hai piccola?”
“Ma non si mette la biacca sta qui? Chi ti ha insegnato a truccarti?”
“Non ne ha bisogno, ha la pelle di un neonato, mica come la tua rugosa e vecchia.”
“Ehi ma non è vero…”
La donna che aveva portato la Polvere del Veglio si appoggiò al muro, e osservò in volto la ragazza.
“Tu non hai bisogno vero di questi trucchetti da puttane eh?”
“No signora, mi dispiace.”
“Come mai?”
“Non punto a far impazzire nessun uomo…” rispose lei candidamente, come e fosse la cosa più naturale del mondo.
“E allora perché sei qui, giovane Etera? Per i soldi?” rispose la donna dai capelli castani, quasi a volerla stuzzicare.
“Ballo e canto per piacere personale…”
Risa quasi al limite dell’euforia scoppiarono dal resto del pubblico femminile.
Neianira capì che la moretta era sicuramente interessante, ma non era certo quella l’occasione per approfondire tale argomento.
“Andiamo ragazze…lasciamo che la giovinetta s’improfumi con calma, per piacersi.” Esclamò, seguita nuovamente dalle risate.

La cerimonia in se’ fu in classico stile di Kerkinta, un semplice contratto stipulato tra la famiglia di lui e la famiglia di lei davanti a testimoni. Non era previsto il vero e proprio matrimonio per amore semplice, ma ogni matrimonio equivaleva a un contratto sulle proprietà immobili e sulla proprietà della donna tra una famiglia e l’altra. L’unica parte più umana della cerimonia fu L’Unione. Il sacerdote fece congiungere le mani dei due sposi, la mano di lui sulla mano di lei, e le legò delicatamente con un nastro di seta rosso.
Atalos toccò per la prima volta la ragazza. Aveva la pelle morbida come quella di un neonato, delicata e fragile, mentre lui in confronto sembrava un marinaio rude. Gli sembrò quasi di spezzarla con il solo contatto, tanto sembrava delicata. Lei indossava l’abito tipico del suo paese per il matrimonio, argentato da testa a piedi, una cintura molto alta che cingeva la vita d’argento intarsiato con motivi floreali che quasi sembrava fatto di pizzo, e maniche di seta grigia che ricadevano morbide sui fianchi, ampie e delicate, simili a piccole ali di colibrì.
Ma il matrimonio era solo all’inizio.
I neo sposi vennero condotti a bordo di una lettiga per tutta la città, come per tradizione, per ricevere le acclamazioni della folla in festa, per poi terminare il viaggio alla casa degli sposi.
Era lì che avveniva il vero e proprio festeggiamento.
Furono condotti fino al cortile più interno dell’abitazione, quello più grande. Lì li attendevano due sedie simili quasi a troni, con enormi cuscini color porpora e per lui anche due braccioli ai lati.
Tutto il corteo si pose ai lati del giardino, aspettando che gli spettacoli iniziassero.
Hithriel come una vera e propria regina sedeva con la schiena dritta e il mento alto, nobile signora in un ambiente straniero.
E quando il cibo e il vino erano scorsi a fiumi, gli spettacoli iniziarono.

Tutti gli uomini onorevoli di possedere una spada erano chiamati a onorare il matrimonio.
In file ordinate tutti gli uomini sguainarono le spade davanti agli sposi, reggendole con la mano destra strette al petto, e con la sinistra tenevano il fodero al fianco.
I tamburi dei musici iniziarono a suonare.
A ritmo di musica spostavano il peso da un piede all’altro, con un piccolo balzello, muovendosi come un’onda del mare.
Il coro maschile partì a cantare una vecchia cantilena, cantata a ripetizione tenendo il ritmo con i tamburi. Solo dopo qualche minuto la formazione cambiò: due uomini si staccarono dal gruppo e si posizionarono di fronte agli sposi, mentre gli altri con una lunga fila a due li accerchiarono.
Qui la cantilena riprese, a volume ancora più alto. Gli uomini all’esterno iniziarono a girare lentamente intorno ai due troni, agitando le spade davanti a se’ prima in aria poi in basso, mentre quelli davanti ai due sposi separati dal gruppo iniziarono a simulare un finto duello, più aggraziato e senza veri colpi, ma girandosi intorno e sferrando all’unisono colpi verso l’altro, senza mai colpirsi.
La povera sposa si strinse nella sua seduta, spaventata da quella massa di uomini che le giravano intorno e l’agitarsi delle spade.
Nel suo regno niente del genere accadeva, non aveva mai visto nulla del genere. La spaventava vedere il luccichio delle spade così vicino a lei, così abituata al luccichio dei gioielli e basta.
La suocera, vedendo la neo sposa così contrariata e poco a suo agio, per evitare incidenti diplomatici, decise di passare in mezzo al corteo delle spade e mettersi di fianco alla ragazza, per poterle spiegare le tradizioni e le usanze di quella terra a lei sconosciuta.
Appena la donna si avvicinò agli uomini, essi sembrarono pietrificati, s’immobilizzarono immediatamente per farla passare incolume. Sembrava che quella donna così pacifica e calma fosse in grado di incutere rispetto senza nemmeno lo sguardo.
Quando passò oltre agli uomini, essi ricominciarono la danza come se nulla fosse. Il gran vociare del coro maschile, i tamburi e il suono delle spade agitate nell’aria era tornato a farsi sentire.
Thetis si avvicinò alla ragazza, sorridendo, come una divinità scesa in terra.
“Mia giovane Hithriel…mi sembri spaventata cara, lascia che ti spieghi questa nostra usanza.”
La donna aprì leggermente le braccia verso gli uomini che danzavano.
“Vedi, questa è chiamata Danza delle Spade. Tutti gli uomini con il diritto e l’onore di avere una spada sono chiamati a danzare. Si tratta di una danza di buon augurio verso il giovane sposo, infatti anche i canti che senti è il buon augurio degli altri uomini verso tuo marito di essere graziato dalle divinità di avere tanti discendenti maschi…” e dicendole ciò le strinse con forza una mano, sempre sorridendo.
Doveva aver ben chiaro quale fosse il suo compito.
Non c’era margine d’incomprensione.
La giovane sposa annuì, anche se ancora piuttosto malcontenta di quei riti che ai suoi occhi apparivano quasi…tribali.
La danza ancora era nel pieno dello svolgimento. Il cerchio intorno agli sposi si era fatto molto più stretto e pian piano aumentavano velocità, come anche il suono dei tamburi si era fatto molto più ritmico e veloce.
A un certo punto i due uomini al centro iniziarono a combattersi veramente non più una semplice danza rituale.
Tutto si era fatto incredibilmente caotico e rumoroso, mentre il resto del pubblico continuava a gioire, battere le mani e cantare insieme agli uomini.
Atos guardò la donna che avrebbe dovuto chiamare moglie, e sembrò quasi impietosito. La poveretta era piuttosto scossa e sembrava sempre più stringersi nel suo posto, quasi come se avesse l’impressione di essere colpita da un momento all’altro.
Con l’ultima strofa, tutti gli uomini si voltarono verso i ragazzi, con le spade alzate in segno di saluto, i tamburi suonarono per l’ultima volta e anche i combattenti si fermarono.
Applausi scroscianti calarono sul corteo maschile dal pubblico.
Thetis si unì all’applauso, e anche Atos.
L’unica che non applaudì fu proprio la sposa, assolutamente scandalizzata dalla situazione.
Ma nessuno ci fece caso, e la festa continuò.
Thetis si avvicinò al figlio e sempre con il sorriso che la caratterizzava, gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
Dopo ciò, si allontanò dai due sposi, con un breve inchino e le mani congiunte, in segno di rispetto.
Atos guardò di nuovo la ragazza.
Sembrava fosse la personificazione della Luna, così candida e perfetta…ma quel suo fare altezzoso la rendeva più mortale, più vera. Forse la Luna non sarebbe mai stata così presuntuosa con coloro che l’ammiravano…
Ma fece ciò che gli aveva ordinato la madre.
Le prese delicatamente la mano e la baciò, per poi alzarla davanti a tutti i presenti. Doveva dimostrare amore, affetto verso la sua sposa.
-Nemmeno al Teatro ci sono tali tragedie…- gli venne da pensare, riferito alla sua tragedia iniziata solo pochi giorni prima a Uprea.
Al suono di un tamburello con i sonagli, fece ingresso in scena una donna.
Aveva la pelle color miele, leggermente ambrata. Il volto era ben proporzionato, con occhi tagliati come diamanti nel viso, naso dritto e la mascella regolare. Era poco truccata, ma gli occhi erano circondati di nero con una lunga linea sinuosa, che donava una profondità fuori dal comune agli occhi azzurri della donna. I capelli neri le arrivavano appena alle spalle, ed erano intrecciati con perle. Sulla fronte aveva una tiara d’oro, con una testa di serpente davanti, e alcuni fili d’oro intrecciati le ricadevano ai lati del viso, come una cornice preziosa. Il seno era libero, coperto solo da una moltitudine di collane e preziosi che ricadevano dolcemente tra le curve, e una in particolare di queste aveva un pendagli che arrivava fino appena sopra all’ombelico, con all’interno incenso profumato, che dava alla dona un’aurea di profumo di cui si ammantava con superbia.
I fianchi erano cinti da una cintura con gioielli incastonati di tutte le fogge e colori, e aveva nastri colorati legati ad essa che ricadevano sulle gambe della donna come fossero una gonna. I nastri erano azzurri e arancioni, tre posti davanti al pube, due ai fianchi e una decina sul retro, facendo così l’illusione di una gonna completa che però lasciava interamente le gambe scoperte.
Dietro aveva un lungo strascico dorato, che la seguiva come una coda di un pavone.
Appena la donna fu certa degli sguardi affamati sulle sue gambe, intenti a vedere se riuscivano a scorgere cosa nascondevano i veli, iniziò la sua danza.
Portò in alto le braccia, mostrando i bracciali dorati che le adornavano i polsi e facendo tintinnare le collane. I palmi erano rivolti verso l’alto e i polsi congiunti sopra la testa. I fianchi iniziarono a ondeggiare lentamente al ritmo del tamburello e dei sonagli, facendo scostare e muovere sinuosamente anche i veli che la coprivano. Con movimenti quasi impercettibili, mentre oscillava, avanzava verso i due sposi, tenendo uno sguardo fisso e provocatorio verso Atalos.
A qualche metro da loro si spostò, e si girò verso destra, dirigendosi verso il pubblico. Il bacino continuava a ondeggiare come l’acqua dentro a una brocca, e mantenendo costante questo movimento, percorse tutta la fila del pubblico, suscitando invidia nelle donne e appetito negli uomini.
Poi tornò a rivolgere le sue attenzioni verso il protagonista di quella giornata.
Finito il giro, abbassò le braccia e le pose davanti a se’, incrociandole sotto al meno e incorniciando il viso con i dorsi delle mani. Lentamente sciolse l’intreccio delle braccia e le portò lungo i fianchi.
Appena un gioco di magia veloce, e in un battito d’occhi, la coda dorata della gonna divenne un prezioso paio di ali. I lembi del tessuto dorato erano stati resi rigidi tramite due bastoncini, ed ella afferrandoli li sollevò, facendo sollevare di conseguenza anche il tessuto.
La scena sembrava uscita da un mito, in cui la donna pavone aveva aperto con eleganza la sua enorme coda quasi accecando il pubblico.
Tronfia e orgogliosa, circondata dal suo mantello d’oro, volteggiò su se’ stessa, facendo ondeggiare il tessuto, che sempre di più sembrava un vortice di vento dorato. Da donna pavone con la sua enorme coda alzata, si era trasformata agli occhi del pubblico in un colibrì dalle ali dorate, che faceva fremere per rimanere sospeso in aria.
Ma finite le giravolte, la donna tornò a mostrarsi pavone, avanzando provocante verso Atalos.
Tornata nel punto di partenza, piegò ancora un’altra volta il mantello, e creò alle sue spalle una sorta di cortina leggera, che faceva da sfondo ai movimenti sinuosi dei fianchi. Abbassò lo sguardo, con finta timidezza, e fece ondeggiare le collane sul petto e i veli sui fianchi, senza mai scoprire nulla.
Atalos la guardava, come incantato, non sapendo bene che emozioni provare.
Amava profondamente Odena, sapeva di dover portare rispetto alla moglie lì accanto, ma quella donna sembrava averlo stregato.
La danza ancora non era finita e la donna continuò a giocare con l’effetto vedo-non-vedo del mantello dorato, avvolgendosi in esso prima e mostrando una gamba dopo.
Il pubblico le applaudiva ammaliato, e gli uomini più abbienti le tiravano lire d’argento e d’oro.
Sempre con movimenti fluidi, la donna s’inginocchiò per terra, celandosi completamente all’interno del mantello, come una piccola montagna d’oro.
Qualche secondo di attesa e da quella stessa posizione pian piano riemerse, circondata di ricchezza come una fenice superba.
Si rialzò completamente, sempre in modo lento e calcolato, per poi tornare a volteggiare con il suo magico velo d’oro. Tornò a fare il giro davanti al pubblico, con mille giravolte che l’ammantavano d’oro e di sguardi vogliosi. Le teste si giravano all’unisono con i suoi fianchi, mentre per l’ultima volta la donna si mostrava al pubblico.
E come un magnifico cigno, dopo l’ultima piroetta effettuata davanti al pubblico, finì la danza davanti al figlio dell’Arconte, piegata sulle ginocchia, le ali completamente aperte e la testa ripiegata indietro.
La fenice aveva vissuto la sua vita.
Subito dopo di lei arrivò un’altra giovane, vestita e truccata esattamente come lei, ma forse con qualche anno di meno e le labbra di un rosso accesso e senza la coda dorata. Gli occhi erano scuri e tondi, le labbra piene, sopracciglia più marcate e un leggero accenno di lentiggini sugli zigomi, nonostante la carnagione più tendente alla nocciola.
Al suo ingresso, insieme al tamburello iniziò a suonare anche un flauto dalle tipiche note orientali.
Le braccia della ragazza ondeggiavano in alto, prima toccando i capelli neri poi sfiorando il cielo e così di seguito. I polsi ruotavano su se stessi facendo tintinnare i braccialetti fini. Le gambe si muovevano sapientemente in modo tale che a ogni passo una fosse nascosta dai veli e l’altra invece era mostrata interamente.
Una volta raggiunta la sua compagna dalle spalle, portò le braccia lungo la linea delle spalle per poi unirle davanti al viso. Gli avanbracci erano fermi davanti al naso e alla bocca rossa, lasciando visibili solo gli occhi. Tenendo fisso lo sguardo sul giovane sposo, la ragazza continuò a muovere i fianchi sinuosamente da un lato e dall’altro, come acque di un fiume.
Solo dopo qualche istante, la donna che aveva in precedenza eseguito il numero con il velo dorato sembrò rianimarsi dalla sua posizione e, proprio come una fenice, si rialzò seguendo i movimenti dei fianchi della compagna. Si muovevano all’unisono, come se fossero legate per i fianchi e i movimenti di una corrispondevano uguali e speculari dell’altra.
Quando si trovarono tutte e due parallelamente, rivolte verso gli sposi, iniziarono ad avvicinarsi ad essi. Prima con una gamba completamente scoperta, poi con l’altra, mettevano in mostra i muscoli e la pelle senza alcun pudore, sapendo di essere carne prelibata per molti.
I fianchi ondeggiavano al ritmo dei tamburelli, facendo tintinnare le collane che si muovevano liberamente sul petto, mostrando e non mostrando i seni.
I lunghi tessuti che le coprivano in parte erano mossi come fossero state code sinuose, celando e scoprendo pezzi di corpo. Unendo le braccia sopra il capo, accentuarono i movimenti e iniziarono a ondeggiare come serpenti richiamati dall’incantatore fuori dalla cesta.
Una lenta giravolta con le braccia aperte fece in modo che tutti potessero gioire di quelle grazie, con una gamba che faceva da perno su cui girare e l’altra che si mostrava completamente fuori dai veli che le faceva girare su se’ stesse.
Solo in un secondo momento la giravolta aumentò di velocità e i veli si alzarono dal terreno, con un applauso emozionato dal pubblico.
Dopo tre giri si fermarono e iniziarono a far prima ondeggiare il ventre velocemente, come se tremasse, per poi muovere il torace con movimenti circolari e infine entrambi i movimenti in contemporanea.
La danza si ripeté un’altra volta, con gli stessi movimenti sinuosi.
O almeno questo è quello che era parso ad Atalos, che aveva completamente perso il senso del tempo e del luogo, in una trance estasiata.
Le donne giocarono ancora con i fianchi e con i propri veli, ormai consce di aver il pubblico in mano.
Le donne venivano dalle terre più a oriente di Kerkinta, dove nonostante ci fosse molta meno libertà per le donne, le danzatrici del ventre potevano vantare un’onorevole indipendenza economica e sociale, anche se ciò costava loro la solitudine per la vita, dato che nessun uomo se le sarebbe mai sposate.
Il deserto di Erias aveva partorito sin dagli albori dell’antichità le donne più brave in questa danza.
Breve momento di silenzio e subito dopo fece il suo ingresso un’altra donna. Aveva anch’ella lunghi capelli neri, mossi però, che le arrivavano fino a metà schiena, completamente struccata, viso tondo, i denti un po’ storti ma bianchissimi. Era piuttosto sovrappeso, con braccia ben tornite e ventre prosperoso. Era vestita con un semplice telo rosso aranciato, che le copriva il corpo fino al ginocchio e si legava dietro al collo.
Un’enorme corona di foglie verdi era abbinata con un’altrettanto enorme collana di foglie e alghe abbinavano il resto del vestito, e anche le caviglie erano state decorate con quella composizione verde. Nulla di più, nulla di meno.
Appena entrò in scena, iniziò a cantare a gran voce. Nonostante il volto non facesse trapelare nessuno sforzo, la voce sembrava provenire dagli Dei stessi, chiara e squillante che chiamava tutti i cuori lì presenti.
La lingua era sconosciuta, o almeno non era la stessa che si parlava a Kerkinta. Senza l’utilizzo di strumenti o strategie, da quell’ugulola proveniva il suono più limpido che si era mai udito.
La donna mentre cantava guardava il cielo e sorrideva, come se fosse stata una bellissima preghiera per i suoi dei.
Dopo poco un fruscio di foglie e passi si unirono al canto. Altre ragazze, vestite come quella donna, si erano sistemate proprio alle sue spalle, in posizione rigida, con gambe tese e mani sui fianchi.
Tutte avevano le stesse decorazioni della cantante, e tutte sembravano assomigliarsi. Chi era più esile e chi più robusta, tutte avevano un viso tondo, lunghi capelli scuri che potevano variare dal nero al castano.
Erano in grado, anche se ferme e con gli sguardi seri, di incutere rispetto e sprigionare la forza tanto quanto avevano fatto nel primo ballo gli uomini. Ma senza spade.
La cantante, continuando la sua cantilena ritmata,si avvicinò a un enorme tamburo che le arrivava ad altezza seno.
Lì, colpendo con le grosse mani forti e continuando a cantare, diede l’inizio alle ragazze.
In formazione avanzarono, facendo frusciare le foglie alle caviglie tanto che sembrava fosse la marcia di mille uomini. Dopo una decina di passi in avanti, si misero di lato, appoggiarono un ginocchio a terra e l’altro appena più alzato, batterono le mani sulle gonne voluminose e si unirono al canto della prima donna.
Erano tutte più giovani, e quel coro aggiunto suonava molto più chiaro e cristallino rispetto alla prima, ma non per questo meno forte e agguerrito.
Ancora seguendo il ritmo cadenzato dei tamburi, si alzarono dalla posizione e batterono le mani sul petto, per poi ripetere i movimenti. Ancora in ginocchio, battito sulla gonna, in piedi battito sul petto. Ciò faceva muovere freneticamente le gonne aranciate, che insieme al verde degli ornamenti le facevano apparire come meravigliosi fiori esotici.
I capelli di tutte erano sciolti e lunghissimi, quella che li aveva più corti le giungevano al di sotto del costato. Tutto il movimento delle gonne, unito ai capelli selvaggi, le faceva sembrare ancora più pericolose.
Erano le donne di Halahu, un’isola sperduta nel Mare delle Conchiglie, a stretto ordine matriarcale. Prima ancora di essere madri, figlie e sorelle, erano guerriere, e non perdevano occasione per dimostrare la loro forza ai paesi vicini. Con Kerkinta c’era stato sempre un amorevole scambio commerciale, soprattutto di pesce e perle in cambio di armi e tessuti.
I piedi delle ragazze non stavano mai fermi, fremendo come se il terreno stesse scottando, il busto era completamente controllato e immobile, mentre erano le braccia a fare il grosso della danza.
Avanzavano e arretravano come un sol corpo, muovendo le braccia all’unisono prima in una posizione poi nell’altra. Gli unici movimenti fluidi erano dati dalle gonne vaporose e dai capelli.
Donna Mautluma continuava a battere sul tamburo e cantare, e ogni tanto le giovani rispondevano al canto.
Era il loro rito per i matrimoni della gente importante, la loro cerimonia.
Grida di guerra si alzavano ogni qual volta che le ragazze si rialzavano in piedi.
Si abbassarono completamente tutte di colpo, strisciando in avanti con le ginocchia e gli sguardi fieri.
Poi saltarono sul posto in piedi, tornando alla posizione iniziale con le mani sui fianchi. Si avvicinarono ancora di più ai due sposi, e ritmicamente aprivano le braccia davanti a se’ per poi richiuderle.
Una volta richiuse portarono la destra sul fianco e la sinistra rivolta davanti con il palmo della mano in alto, e girarono su loro stesse. Dopo due giri, portarono la mano in alto sopra alle loro teste, e l’altro braccio piegato davanti al petto di fronte, staccato dal corpo. Abbassarono il braccio rivolto al cielo, e ripeterono di nuovo la figura due volte.
Al fine di questi due giri, la danza rincominciò da capo.
Una delle ragazze, quella che sembrava la più bella, con i piedi più fini e i capelli castani chiari, si avvicinò alla sposa. Le porse la propria collana di foglie e alghe, chinò il capo e le pose una conchiglia, tirata fuori da un piccolissimo sacchettino, tra i piedi preziosamente vestiti.
Hithriel sembrò quasi disgustata. La collana puzzava tremendamente di mare e salsedine, e le stava sporcando i capelli dorati.
Strinse i denti, sapendo che una vera signora affrontava anche i peggiori oltraggi con onore.
Tornarono a danzare tutte insieme. Si misero in formazione circolare al centro del giardino. Muovendo lentamente i bacini a ritmo, batterono le mani davanti al viso e con movimenti lenti e fluidi fecero ruotare e girare le braccia, mostrando sia l’interno sia l’esterno. Sempre come se stessero portando un cesto di frutta, avanzarono verso il centro del cerchio, stringendolo ancora, rivolsero il viso al Sole e si unirono al canto nuovamente di Donna Mautluma.
Con l’ultimo tocco di tamburo della donna, la formazione si sciolse, e le ragazze tornarono ai loro posti proprio come erano arrivate.
Era stata una danza molto veloce, durata pochi minuti, ma era stata in grado di far battere i piedi a tempo con il tamburo di tutti i presenti.
Atalos sembrava completamente assorto nei suoi pensieri, ignorando quasi completamente ciò che stava accadendo.
Lanciò solo un’occhiata a Hithriel.
La giovane sedeva stizzita sul suo trono come durante tutta la festa.
“Moglie… volete qualcosa da bere? Da mangiare?” provò a chiedere, cercando di mostrare sincero interesse.
“No, non vorrei mai rigettare tutto sulle vostre amabili ballerine…” disse lei, stizzita.

La festa continuò con il suo regolare incedere.
Subito dopo uno spettacolo di magia, dove il prestigiatore faceva comparire e ricomparire animali, un’altra ragazza arrivò a danzare.
Era circa coetanea con Atalos, vestita di nero da capo a piedi con una leggera fascia che le reggeva il seno, pantaloni neri larghi che assomigliavano quasi a una gonna, una cintura d’argento con centinaia di ciondoli che tintinnavano. Aveva i capelli del colore del caffè e intrecciati in una lunghissima treccia che le arrivava alle natiche. Portava una benda di velluto nera sugli occhi e danzava con una spada posata sul capo di filo.
Si muoveva con movimenti agili e sinuosi, come un gatto, e reggeva la spada in bilico senza l’uso delle mani.
Veniva da Jaaset, città famosa per le spade nere dal metallo sconosciuto e dalla sacra dedizione dei suoi guerrieri alla Dea Morte, raffigurata proprio come quella ragazza.
La giornata sembrava non finire più per il povero Atalos.
L’unica cosa che voleva era tornarsene ad Uprea, con la sua vita normale…
E invece era costretto a vedere quel circo sciogliersi davanti ai suoi occhi, sapendo che quella notte avrebbe dovuto passarla tra le braccia della nuova moglie.
La guardò un’altra volta.
Lo schifo glielo si leggeva in volto, come se si sentisse in mezzo a un porcile.
Veniva da un altro mondo, da un altro modo di vivere, non si sarebbe mai abituata a Kerkinta.
E giusto quando ormai la luna era alta nel cielo, i cibi quasi finiti e gli uomini ubriachi, che come ultimo spettacolo arrivò una fanciulla.
Era vestita di verde menta, da capo a piedi. I lunghi capelli neri che le arrivavano al bacino erano completamente sciolti sulla schiena. Dal centro del capo scendeva dolcemente una linea di perle che terminava in un pendaglio di oro e perle sulla fronte, illuminando l’intero viso. Altri gioielli le adornavano dolcemente il collo sottile, le orecchie e i polsi. Alla caviglia portava una cavigliera dorata piena di campanelli. Sia i bracciali sia la cavigliera tintinnavano come richiamo per angeli, e a ogni più piccolo movimento si muovevano in armonia con il corpo.
Aveva solo con se’ un piccolo liuto, decorato con piccole decorazioni floreali intagliate.
Si sedette per terra, dove tutti prima avevano cantato, danzato, e mostrato animali esotici.
E così, nella sua semplicità, suonò il suo strumento.
I piccoli tocchi sulle corde finissime sembravano minuscoli trilli di campanelli magici, in grado di ammaliare anche il più senza cuore degli uomini.
Atalos la guardò con attenzione.
Si sentì svenire. Le gambe si erano fatte deboli come rami appena nati, il cuore gli sprofondò nell’animo e gli occhi sembrarono appannarsi.
Non poteva crederci.
Era la sua Odena.
Odena era lì, davanti a lui, a suonare il suo liuto, che aveva chiamato Dolcenota affettuosamente…
Odena era lì, per davvero.
Lei non alzò mai lo sguardo.
Nonostante fosse sostanzialmente diversa da Hithriel, a suo modo sembrava una Dea scesa tra i mortali, nella sua semplicità e nella sua perfezione.
Hithriel drizzò subito le orecchie quando vide il giovane sposo reagire così tanto a quella insulsa ragazza.
Non ci volle molto prima che capisse.
Le unghie della giovane sposa si conficcarono nella sedia dalla rabbia.
L’ennesimo affronto, l’ennesimo insulto alla sua persona si stava spargendo proprio davanti ai suoi occhi e agli occhi di tutto il pubblico.
Odena imperterrita, nonostante sapesse di essere sotto lo sguardo di fuoco della sposa e lo sguardo sbigottito del suo Ato, continuò a suonare.
E quando aprì bocca per cantare, non ci fu orecchio non teso all’ascolto.
“Quando il mio sguardo
Ha incrociato il tuo,
sono impazzita…”
cantò, con gli occhi chiusi e il respiro leggero.
Sembrava il canto di mille fate, dolce e femminile, che faceva trasparire una sensualità fuori dal comune.
“Sono impazzita…
Il racconto del mio amore
È diventato famoso
Il mondo non credeva in me
Così ho preso una decisione…”
Atalos avrebbe voluto mettersi a correre e baciarla, impazzito completamente dall’amore.
Ma sapeva che non poteva.
Lo sguardo della madre e della moglie lo tenevano imbavagliato come un ostaggio.
“Ero da qualche parte,
ma ora guarda dove sono…
Tutti dicono che Odena è impazzita
Sono impazzita , sì sono impazzita
Impazzita, Odena impazzita…
Impazzita per amore…”
Silenzio.
Tutti sembravano stregati, come ratti dal flauto magico.
E nel silenzio più totale Odena si alzò da terra, pulì la gonna intrecciata d’oro, e lasciò la casa, scomparendo nella folla.
Hithriel aveva capito.
Thetis aveva capito.
Gli sguardi di Atalos non erano stati per nulla velati, e avevano lasciato capire tutti i sentimenti per quella ragazza.
Le due donne si guardarono.
Un silenzio e uno sguardo che valsero più di qual si voglia discorso diplomatico.
L’unico rimasto fuori dal mondo era ancora Atalos che non aveva avuto nemmeno il coraggio di asciugare la lacrima che gli stava scendendo lungo il volto.
Le giornate si susseguirono, come anche gli spettacoli di mangiafuoco, giocolieri, animali addestrati, danzatrici, musici, poeti e duelli d’armi.
Ma gli occhi del giovane erano sempre alla ricerca di quella sua Odena tra il pubblico, con sguardo di preghiera e supplica.

Racconto di Chiara R.