Quando la luce del sole invernale si infiltrò tra le fronde spoglie e le incendiò le palpebre, Durga spalancò gli occhi e l’ombra del suo incubo svanì. Ogni sera rimandava il sonno il più possibile e il giorno dopo si svegliava che il sole era già alto.

Poteva quasi vederlo, Endril, che inarcava le sopracciglia davanti alla sua irrimediabile mancanza di autodisciplina.

Non c’era da stupirsi che Durga non avesse ancora aperto bocca su quale fosse il vero motivo che la teneva sveglia di notte. Aveva imparato a temere il momento in cui avrebbe perso la sua battaglia contro il sonno, pur sapendo quanto fosse inutile anche soltanto tentare di resistergli. Alla fine avrebbe vinto lui. Dormire era inevitabile, almeno per lei, e lo sarebbe sempre stato.

Non tutti siamo nati elfi.

Impiegò qualche secondo a ricordare dove si trovasse. Non si addormentava mai due volte nello stesso posto. Era seduta sul ramo di un tiglio incrostato di brina, con le spalle appoggiate al tronco. Sempre meglio che dormire nella neve; senza contare che a Durga le altezze erano sempre piaciute.

Quando provò a tirarsi su, la corda che la ancorava all’albero si strinse attorno alle sue cosce. Slegò i nodi con le dita arrossate per il freddo e si guardò intorno, alla ricerca di punti di riferimento. Riconobbe il grande faggio a una trentina di passi di distanza e si ricordò della trappola che aveva lasciato lì la notte prima, in uno dei suoi vani tentativi di restare sveglia.

Riarrotolò frettolosamente la corda attorno al braccio e la cacciò nello zaino, poi lo buttò di sotto e gli si lanciò dietro per scendere dall’albero.

Perché fare attenzione quando si poteva fare più in fretta? E poi ci sarebbe stata la neve ad attutire la caduta.

Atterrò con un tonfo sordo che scosse l’albero fin dalle radici e le fece cadere addosso una pioggia di neve ghiacciata. Se la sgrullò via con noncuranza, raccattò lo zaino distrattamente e se lo mise in spalla che già correva verso est.

Le sue gambe affondavano nella neve fino alle ginocchia, ma non faceva fatica a tirarle fuori per continuare a correre. Se c’era un lato positivo nell’essere un mezzorco, era che non ci si stancava molto facilmente.

Giunse ai piedi del faggio in meno di un minuto. La gabbia era là dove l’aveva lasciata la notte prima, ma qualcosa l’aveva fatta scattare.

Le sue labbra si incurvarono in un ghigno feroce e soddisfatto.

Con un balzo si avventò sulla trappola e la strinse a sé. Un frenetico frullare d’ali la scosse dall’interno. Durga la prese tra due mani e se la portò davanti alla faccia per vedere cosa aveva catturato.

Oltre le sbarre della trappola un tordo dalle piume maculate si agitava e trillava furiosamente, sbattendo le ali come se cercasse di spiccare il volo con tutta la gabbia.

Durga esultò. Scosse la gabbietta davanti a sé e si godette l’espressione atterrita in quei neri occhietti spalancati.

“Oh, sì! Sei proprio un bel polletto” esclamò trionfante.

Avrebbe mangiato carne a colazione. Non sarebbe stata molta, ma era pur sempre carne.

Quella trappola era stata un esperimento. Nessuno si era preso la briga di insegnarle a cacciare, così aveva dovuto pensarci da sola. Se fosse dipeso da Endril, il suo maestro, quello che in teoria avrebbe dovuto insegnarle questo genere di cose, probabilmente l’avrebbe lasciata morire di fame.

Durante le recenti notti insonni Durga si era gingillata con il coltello da intaglio e aveva cominciato a costruire trappole di legno da lasciare in giro. Ne aveva disseminate così tante per il Bosco Occidentale che probabilmente di alcune si era perfino dimenticata. Grazie a lei dei viandanti ignari avrebbero potuto imbattersi nella carcassa di qualche succulento animaletto rimasto intrappolato e poi scordato lì a morire.

Il sorriso di Durga si ampliò. In fondo, svolgeva un servizio utile alla società.

Non avrebbe mai ammesso che di quelle che aveva controllato, questa era stata la prima ad aver catturato qualcosa.

Si lasciò cadere a gambe incrociate nella neve e appoggiò il suo bastone accanto a sé. Doveva essere pronta ad afferrare il tordo appena avesse aperto la gabbia, non poteva certo permettergli di scapparsene con tutte le sue speranze per la colazione.

Si rigirò la gabbia tra le mani un paio di volte prima di rendersi conto che non aveva alcuna idea di come aprirla.

Finora non era mai riuscita a catturare niente in quel modo, così nel costruire quella trappola non l’aveva nemmeno sfiorata il pensiero che alla fine avrebbe dovuto essere in grado di aprirla per recuperare la sua preda.

Armeggiò con la gabbia per qualche minuto, mentre l’uccellaccio non smetteva di perforarle i timpani con quel suo stridente fischio a scatti. Alla fine, non riuscendo a venirne a capo, la scrollò con rabbia per farlo stare zitto e la scaraventò a terra.

L’uccello ammutolì.

Preoccupata di averlo accoppato prima ancora di aver capito come tirarlo fuori, Durga si piegò in avanti per controllare che stesse bene.

Gli occhietti spiritati dell’uccellino la seguirono e ricambiarono il suo sguardo, in attesa.

Era vivo, ma non lo sarebbe rimasto a lungo. Durga non avrebbe rinunciato alla sua colazione tanto facilmente.

Si rimise seduta e valutò le possibilità che le restavano.

Avrebbe potuto cercare di forzare l’apertura della gabbia con il coltello o con un sasso, ma non voleva rischiare che l’uccello fuggisse prima di poterlo uccidere. Glielo leggeva negli occhi, a quell’uccellaccio, che non vedeva l’ora di volarsene via e lasciarla a bocca asciutta. Senza considerare che una volta in salvo sarebbe anche potuto tornare. Portandosi dietro degli amici, stavolta.

Durga rabbrividì al ricordo dell’ultima volta che era stata inseguita da uno stormo inferocito. Ma non era colpa sua se gli uccelli ce l’avevano con lei, no?

Quindi cercare di rompere la gabbia era escluso, anche perché di tutte le trappole che aveva costruito quella era stata la prima a funzionare. Non voleva danneggiarla troppo. Prima doveva studiarsela bene, o per lo meno voleva poterla riutilizzare.

Ma voleva anche il suo piccione arrosto a colazione e da sola non aveva idea di come tirarlo fuori senza farselo scappare. Sbuffò quando si rese conto che le rimaneva una sola alternativa.

Endril.

Odiava essere costretta a chiedere il suo aiuto. Soprattutto perché sapeva come era finita l’ultima volta. Lo ricordava come se fosse stato ieri.

Era stato cinque o sei anni prima, al massimo. Durga aveva passato tre giorni a intrecciare una rete di corda con le sue mani e altri due a scovare la tana, ma alla fine era riuscita a catturarla. La sua prima preda, una lepre così grassa che ci avrebbero mangiato a sazietà due persone adulte. Davvero niente male per una bambina di cinque anni.

Chiunque si sarebbe complimentato con lei, le avrebbe detto che mostrava un talento naturale. Ma non lui. Non Endril.

Quando Durga si era presentata da lui, sporca e trionfante, brandendo la carcassa della lepre in una mano e la rete nell’altra, le aveva rivolto uno sguardo colmo di sufficienza. Ribrezzo, avrebbe potuto definirlo. Beh, sempre meglio il ribrezzo del solito disinteresse.

Da allora Durga non gli aveva più offerto nulla di ciò che aveva catturato. Per questo adesso era così riluttante a chiedere il suo aiuto.

Recuperò la gabbietta e la scosse un’ultima volta. L’uccellaccio proruppe in un altro fischio spaccatimpani, ma quando Durga gli ringhiò contro, lui si zittì. Soddisfatta, legò la gabbia allo zaino e rialzandosi riprese il bastone. Con l’altra mano si sgrullò la neve dai pantaloni e si incamminò in direzione del Trono di radici.

A metà del primo passo si bloccò, portandosi la mano alla guancia.

Con i polpastrelli callosi e graffiati sentì la pelle attraverso le scaglie di fango secco, che al suo tocco si staccavano dal viso e cadevano leggere a terra.

Era il momento di darsi una sistemata.

Cambiò direzione e riprese a camminare.

Ci mise qualche minuto a raggiungere il ruscello. Abbandonò il bastone ai piedi di un albero, si sfilò lo zaino e lo lasciò cadere senza badarci, scatenando l’ennesimo trillo di protesta del polletto. Durga lo ignorò. Si accucciò sulla riva, rimboccò le maniche e immerse le mani nell’acqua gelida. Prima che avesse il tempo di cambiare idea, le tirò fuori formando una piccola conca, strofinò il viso con l’acqua e rimosse le ultime tracce del vecchio fango ormai secco. Strizzò gli occhi e digrignò i denti, cercando di resistere all’ondata di freddo che seguì.

Quando riaprì le ciglia gocciolanti, poté scorgere il suo riflesso tremulo nel ruscello. Il cielo era limpido e la luce nitida disegnava i suoi lineamenti con eccessiva dovizia di particolari.

Fece una smorfia nell’accorgersi che le zanne si notavano di più dell’ultima volta che le aveva controllate. Aveva sempre fatto il possibile per nasconderle, ma ormai erano troppo evidenti e davano ai suoi sforzi per camuffarle sotto il labbro inferiore risultati grotteschi.

Quel mento così tirato e prominente era diventato la sua maschera. Molti avrebbero detto che si trattava di un’espressione di sfida, di un segno lampante della sua solita impertinenza, ma non era così. Era solo il suo modo per sentirsi meno Durga.

Colpì la superficie del ruscello con il palmo e l’immagine esplose in un’ondata di schizzi. Calò il braccio sott’acqua finché la mano non incontrò il fondo limaccioso. La chiuse e la tirò fuori. Dalle dita strette a pugno sfuggirono rivoli d’acqua fangosa che piombarono nel ruscello e cancellarono le ultime tracce del volto riflesso.

Riaprì la mano e la passò sulla guancia destra, ricoprendo con uno strato di fango denso e scuro il simbolo della sua schiavitù, impresso chissà come sulla sua pelle grigia quando era ancora piccola, prima che il suo maestro la trovasse. Un’altra storia che Endril non le avrebbe mai raccontato.

Prese altro fango per passarlo sul resto della faccia e tornò a guardare il suo riflesso solo quando fu certa di aver coperto tutto.

I suoi occhi verdi la fissarono da dietro una chiazza di fango ondeggiante.

Molto meglio. Era facile dimenticarsi di cosa c’era sotto, in quel modo.

Avvicinò il viso al ruscello per assicurarsi di non aver lasciato fuori niente e si bloccò, strabuzzando gli occhi. C’erano delle righe grigiastre tra i suoi capelli scuri. Piccole ciocche argentee che si accendevano sotto i raggi del sole a picco, reclamando attenzione.

No, non era normale. Non poteva avere dei capelli bianchi. Non a dieci anni, se non altro.

In realtà non aveva alcuna idea di cosa fosse o non fosse normale per una come lei. Non aveva visto molti mezzorchi crescere da quelle parti.

Pensandoci meglio, non aveva visto molte persone crescere da quelle parti.

Endril era sempre stato così, da quando lo conosceva. Che era praticamente da quando riusciva a ricordare. Il suo maestro c’era sempre stato. Nel suo modo apatico, distante, che quasi equivaleva all’assenza, ma era stato lì, fin dai primi ricordi di Durga. Sempre lo stesso viso, sempre uguale a se stesso.

Durga invece cambiava ogni giorno di più. Le zanne più pronunciate erano state solo l’ultimo di tanti cambiamenti. Stava crescendo e presto, almeno per i canoni di un elfo, sarebbe invecchiata. Ma non poteva essere possibile che stesse già accadendo.

A meno che quei capelli bianchi non avessero a che fare con l’occhio e con la voce che ormai sognava quasi ogni notte.

Forse avrebbe dovuto parlarne con Endril. Non solo dei capelli bianchi, ma anche degli incubi. Soprattutto degli incubi. Eppure non poteva fare a meno di pensare che il suo maestro avesse notato da tempo i capelli bianchi e non si fosse mai degnato di dirle niente. Tipico di lui, ma quel pensiero la faceva comunque infuriare.

Scattò in piedi e si ripulì le mani bagnate e sporche sui pantaloni, senza badare alle macchie di fango che vi avrebbe lasciato. Quando andò a recuperare lo zaino e il bastone abbandonati sotto l’albero, il tordo nella gabbia riprese a fischiarle contro.

“Zitto, pollo!” sbraitò e assestò un calcio alla gabbia prima di rimettersi lo zaino, tanto per fargli capire chi era tra i due che comandava.

L’uccellino emise qualche fioco cinguettio di protesta e poi si rassegnò al silenzio.

Durga sbuffò contrariata, si mise il bastone in equilibrio sulle spalle e partì verso il luogo in cui sapeva che avrebbe sempre trovato il suo maestro.

Il Trono di radici svettava nella radura che l’aveva vista crescere, le fronde levate verso il cielo. Endril era lì, i capelli biondi, lunghi e luminosi, i lineamenti scolpiti nella pelle diafana, le lunghe mani dalle dita affusolate posate con studiata noncuranza sulla corteccia dell’albero più antico della foresta. Non se ne allontanava mai, ma stavolta non era solo.

Non ricevevano spesso visite, perciò Durga non si stupì nel riconoscere Hatma, l’unico visitatore assiduo che avessero mai avuto. Un vecchietto piuttosto insistente e fastidioso, a dire il vero.

Endril non lo sopportava perché era il druido anziano del Circolo delle Lande, ruolo che lui si sentiva molto più qualificato a ricoprire, naturalmente. Hatma, dal canto suo, non sembrava contento che fosse Endril a sedere sul Trono di radici, quando il capo in realtà era lui.

Le rare occasioni in cui Endril si allontanava per partecipare a raduni di cui non le avrebbe mai parlato, affidava il Trono a Durga. Allora Hatma si presentava puntuale con i suoi tentativi per indurla a lasciare l’albero incustodito.

Un paio di volte era stata perfino tentata di lasciarlo fare, tanto per indispettire Endril, ma d’altra parte sedere sul Trono e assistere ai futili sforzi di quel vecchietto era un divertimento troppo grande per rinunciarci. Vedere quanto bramasse qualcosa che in quel momento era affidato a lei la faceva sentire importante, per una volta.

Giunta al limitare della radura, Durga si rannicchiò dietro un cespuglio di sambuco e attese. Cercò di origliare la loro conversazione, ma l’uccellaccio ebbe la brillante idea di interrompere il suo silenzio proprio in quel momento. Trillava e fischiava, coprendo le voci di Hatma e del suo maestro.

Quella colazione si stava rivelando la più faticosa della sua vita.

Provò a zittirlo, ma riuscì soltanto a ottenere una lievissima diminuzione di volume.

I due druidi parlavano a voce così bassa e da così lontano che Durga riuscì a capire poco o nulla. Immaginava che stessero discutendo dell’albero, come al solito. O forse della prossima riunione del Circolo delle Lande. Importava poco, comunque, dal momento che Endril non gliene avrebbe mai parlato. In tutti quegli anni di convivenza non era ancora sicura di aver capito cosa ci fosse di così speciale in quell’albero e il suo maestro non si era mai preso la briga di spiegarglielo.

Durga aspettò che Endril e Hatma si congedassero e quando il vecchio si fu allontanato saltò fuori dai cespugli.

“Che voleva?” chiese ad alta voce, tanto per esordire con qualcosa che non fosse un saluto.

“Oh, sei qui Durga” disse lui in tono pacato, tanto per non rispondere alla domanda. Non lo faceva mai, del resto. Non davvero.

“Avvicinati” le ordinò, rivolgendole appena uno sguardo distratto.

Durga obbedì e lo raggiunse in poche, lunghe falcate. Ormai era alta quasi quanto lui e presto lo avrebbe superato.

“Devi svolgere una commissione per me” cominciò lui e tornò a guardare altrove, ma Durga già non lo ascoltava più. Il bagliore dorato dei suoi capelli sotto i raggi del sole la distraeva. Si chiese se ci fosse qualche capello bianco, là in mezzo. Perfino per i canoni di un elfo, era da un pezzo che Endril non doveva considerarsi più un ragazzino. Forse li nascondeva con la magia. Oppure li estirpava uno per uno ogni mattina, mentre lei ancora dormiva.

Strizzò gli occhi e studiò con attenzione i suoi capelli, alla ricerca di qualche indizio che tradisse la presenza di capelli bianchi. Un riflesso più chiaro catturò la sua attenzione e Durga tese rapida la mano per afferrarlo tra pollice e indice, tirandolo via.

Endril sussultò e smise di parlare, sollevando entrambe le sopracciglia. Poi chiuse gli occhi, inspirò profondamente e si portò una mano alla tempia. Le sopracciglia restarono sollevate.

“Durga…” sospirò, rassegnato. “Che stai facendo?”.

Durga si portò il capello strappato davanti agli occhi e lo studiò ai raggi del sole, rigirandolo tra le dita.

No. Era biondo come tutti gli altri.

Con una smorfia delusa lo buttò via.

Endril riaprì gli occhi e la guardò. Per lo meno si era conquistata la sua attenzione.

“Mi stavi ascoltando?”.

Durga puntò i piedi e sollevò il mento con aria di sfida. Ovviamente non lo stava ascoltando.

“Ma certo che ti stavo ascoltando!”.

La sua memoria recuperò in fretta stralci di parole che ricordava di avergli sentito dire e le ripeté a caso.

“Commissione… Larice Rosso… viandanti…”.

Endril la guardò dall’alto in basso, il sopracciglio destro inarcato in una curva impossibile.

“Stavo dicendo…” proseguì, fingendo di non aver sentito. “Ho bisogno che tu vada a Larice Rosso e incontri un gruppo di avventurieri che ti chiederà di accompagnarli a Rocca Lancia”.

“Viandanti, avventurieri, come ti pare” borbottò Durga. Il senso era quello.

Endril la ignorò ancora e continuò a parlare.

“A Rocca Lancia c’è la peste. Dovrai dirglielo e…”

“Ma perché devo andare a Rocca Lancia se ci sta la peste?” lo interruppe Durga in uno slancio di disgusto.

Endril chiuse di nuovo gli occhi e inspirò una seconda volta.

“Perché questi avventurieri hanno bisogno di andarci e non possono farlo senza una guida”.

“E perché ce li devo portare io? Fallo tu!”.

Il sopracciglio di Endril tornò a sollevarsi.

“Perché te lo dico io, Durga”. Poi riaprì gli occhi, come colto da un’ispirazione improvvisa. “E perché fa parte del tuo addestramento” aggiunse, più calmo.

Lo sguardo di Durga si affilò, diffidente. Era impossibile ottenere una vera risposta da lui.

“Forza, Durga, cosa aspetti?” continuò Endril, ma ormai guardava altrove, preso da altri pensieri che non avevano nulla a che fare con lei.

Il suo viso si distese mentre si ritirava verso l’albero, voltandole le spalle. Come se si fosse liberato di un peso. Come se quel peso fosse lei.

“Se parti adesso, dovresti riuscire ad arrivare domani entro sera”.

Nessuna spiegazione, nessuna domanda, nessuna parola gentile. La conversazione era finita. Le aveva dedicato tutto il tempo che era disposto a darle. Anche se avesse insistito, non avrebbe potuto ottenere niente di più. C’era già passata.

Durga emise un grugnito, sbatté un piede per terra e si girò, puntando in direzione della foresta senza salutarlo. Continuò a pestare i piedi nella neve mentre si allontanava, perché Endril potesse sentire che se ne stava andando anche se non l’avesse seguita con lo sguardo.

Non gli aveva parlato della gabbia, né dei capelli bianchi, né dei sogni. Aveva finito con il dimenticarsene.

La frustrazione le si bloccò in gola e le percorse le mani. Quando urtò degli arbusti di viburno, afferrò due rami con violenza e li scagliò per terra.

Se ne pentì subito dopo, ma non tornò indietro per rimediare o per nascondere le prove. Continuò a camminare a passi spediti e rumorosi senza mai voltarsi.

Da qualche parte sopra di lei echeggiò il rombo di una tempesta. Una tempesta come quella dei suoi sogni.

Durga si fermò e tirò indietro la testa per guardare in alto. Tra le cime degli alberi il cielo risplendeva sereno. Non era stagione di temporali.

Il tordo cinguettò nella sua gabbia, forse lieto per quella piccola pausa nello sballottamento continuo della marcia. Durga sbuffò, ricordandosi della sua presenza. Avrebbe dovuto rinunciare alla colazione, dopotutto.

“Andiamo, pollo” disse, rassegnata, e riprese a camminare.

Racconto di Silvia Torani.