“Chi abbia guardato una volta Praga nei profondi occhi trepidi e misteriosi, resta succube tutta la vita dell’incantatrice.”

(Oskar Wiener)

C’è una musica lieve che scandisce l’aria di Praga. Sono i passi ritmati dei lavoratori alle ore di punta, quelli leggeri dei bambini, soli sulla metro a Staroměstská. Sono i suoni di glottide della lingua ceca, così armonica da sembrarmi il canto di un’opera al Nàrodni divadlo. Sono le gocce di pioggia sottili che impattano ticchettando sui marciapiedi consumati, i musicisti di piazza San Venceslao, i Dobry den! al mattino.

E il valzer delle ombre si allunga sull’asfalto.

Tiepido nero, come di fango.

Ma il fango lo vedo ad appannare i loro occhi. Ed è di fatica, di coraggio.

C’è un fiero decoro nei volti dei cechi. Un’etica del lavoro che incasella, armonizza. Un rispetto composto per l’umanità. Non è freddezza ciò che vedo, ma una tacita, importante accettazione del mondo e delle sue regole. I saluti e i dekuji a conterranei e stranieri, la voglia di mantenere gli spazi, di non soverchiare, invadere. Mi sento sospinta da una folla di teste compite, bionde e brune come i reflussi della Moldava. Latte di pelle, pupille come il cielo su Petrin. Mai un’immagine scorderò di quell’incontro, prepotentemente fissato in litografie statiche.

Le rughe di terra si incarnano sul paesaggio verde e giallo d’autunno. La luce calda delle ore di veglia si muove rapida in caleidoscopi, il freddo c’è e si sente ma non dà fastidio. Pizzica appena la punta del naso e tira le guance. Mi sento viva. La notte immagino le guglie della cattedrale di San Vito bucare il cielo. Nere vette di lancia, baionette. L’attesa nel silenzio al cambio della guardia davanti al castello. E poi scopro i colori delle sue vetrate, così simili a quelli che nutrono il muro di Lennon. Potresti dire che sono un sognatore, ma non sono l’unico.

È come trovarsi al centro di un universo che muove le anime, mescola i volti. E sento un’aria di pace quando attraverso il ponte Carlo. Le statue rigide sui corrimani in pietra salutano i visitatori, e c’è chi si ferma al San Giovanni Nepomuceno per sfiorarne i pomelli. Al Calvario la gente è china a pregare. Altro giro, altro ritorno. Torre delle polveri in lontananza, un cielo saturo di nembi. Qualcosa saluta da lontano: la Maria di Týn con le sue due gemelle gotiche e un suono buffo, cadenzato, quello dell’Orologio Astronomico, lì nella stessa piazza a dare il benvenuto a ogni ora degli ultimi seicentosette anni.

“Praga non ci lascia più andare. Questa piccola madre ha gli artigli. Non c’è altro da fare che cedere. Per potersene liberare bisognerebbe darle fuoco da due lati, il Vyšehrad e il Hradčany.”

(Franz Kafka)

Lui aveva capito, Kafka, che solo diviso in pezzi poteva trascinarsi in quella vita. Tre volte ammirato, tre volte vinto. Da ebreo, con il padre e i suoi rigidi insegnamenti. Da tedesco, in quella aspra lingua. Da ceco, inghiottito intero nei paesaggi muschiati della Boemia. Amava le donne, visceralmente e spiritualmente. Odiava e respingeva i rapporti di carne, quasi vedendo in se stesso i germi del disgusto. Ho sete, diceva. La tisi lo consumò ma non più delle sue turbe segrete, espresse in parabole tormentate nel Der Prozess, nel Die Verwandlung e in tutti gli altri componimenti.

E nella Praga ebraica mi ritrovo a respirare l’antico dolore. La sinagoga spagnola nel getto s’apre come un abbraccio di madre. Rombi dorati sulle volte perfettamente simmetriche. Candele, placche ricamate. Poi fuori il freddo violento del blu. Lapidi di pietra nel vecchio cimitero, c’è un silenzio che inquieta. Biglietti e monetine sulle tombe chiazzate di verde. Il golem dorme disfatto in un luogo celato, ancora mi chiama. Ma ora già sento i concerti ritmati, le sinfonie di Dvořák all’aria della sera.

L’arte del contemporaneo mi avvicina, con quelle forme poco precise. Tele che paiono imbrattate. Sculture monche. La Galleria Nazionale è un coacervo di immagini che non hanno tempo, e mi sento tormentata. Mi serve qualcosa per rasserenarmi, per placare il mio animo indebolito. I muscoli delle gambe irrigiditi dalle salite.

Poi la periferia la cerco come fosse un’antica amante, e lì vi trovo il nero e il grigio di questa città triplice e diversa. I palazzoni incementati del comunismo sovietico creano un baratro di divisioni tra la vecchia città e la nuova. Non sembra ci sia collegamento, legame. E invece, più vado avanti e più la natura si mostra, portandomi al di fuori della civiltà già esistente. I verde rivendica spazi già cercati, il verde apre, spalanca. E il bianco cereo della nebbia si fa strada tra i larici.

Dopo due ore di respiri su un autobus silenzioso sono già a Karlovy Vary. Le terme di Carlo scrosciano limpide in Spa centenarie e rigetti d’acqua si vedono, zampillanti in sbuffi e delizie. Mi ci sommergo, tutta, e il vuoto mi attraversa. Dopo quattro clessidre di sguazzi sono già rinata. È un sollievo inaspettato, una meraviglia inconsueta. Cerco e bevo l’acqua dal gusto di ruggine. Non è come la fresca birra che qui sempre appaga e ristora (e costa meno dell’acqua minerale), ma mi prende un calore inaspettato e nuovo.

Il cibo è corposo e riempie gli spazi. Veproknedlozelo col suo pane bianco e molle, il sugo di carne e la cipolla che sovrasta. Anatra con la pelle croccante, salsicce dalla scorza dura, patate, patate, patate. In molti hanno detto che durante il regime comunista sono andati via di nascosto in asilo gastronomico. Chissà come mai.

Ma ciò che il cibo non colma lo fa la vista, aperta a nuovi e inesplorati orizzonti. Sulla strada per il castello di Karlštejn i tetti delle case hanno il colore del tramonto. E il fiume inghiotte i riflessi degli alberi. Lassù, sulle torri pietrose, le piante e le rupi, le voci al di fuori e al di dentro non hanno ormai più importanza. Non si sentono. L’aria accoglie le mie membra stanche.

Tornerei per scoprire ancora un po’ di me stessa e per abbandonare il gelo che mi porto dentro.

Racconto di Liliana Costa.