La legna scricchiolava e scoppiettava in eruzioni di scintille gialle. Dall’altro lato della stanza, seduti a un tavolo lontano dal camino, due uomini discorrevano di donne e scherzavano tra loro, un terzo apriva bocca di rado. Le voci si sovrapponevano all’acciottolio delle stoviglie maneggiate dall’oste, smorzavano il suono di combustione proveniente dal focolare.

Dhorard accennò ai tre. “Andiamo a sentire cosa si racconta in queste terre. Quelli mi sembrano tipi amichevoli.”

È ancora giovane, pensò Mjorwain, ma ha lo spirito che si addice a un mercante.

Il diciannovenne non era nuovo ai viaggi lontano da casa. Ne aveva già intrapresi molti con suo padre, prima che questi rimanesse azzoppato in un incidente. Torace ampio e muscoli saldi, Dhorard era proprio portato per il mestiere.

“D’accordo.” Mjorwain prese ciotola e boccale e sì alzò dalla panca; si avvicinarono alla combriccola.

Uno di loro fece cenno con la mano e li anticipò: “Voi due. Volete unirvi alle chiacchiere?” Era un uomo robusto, con la barba grigia per intero e una benda nera sull’occhio destro.

Il tizio di fronte a lui si voltò. Non possedeva capelli né barba, tuttavia i baffi erano prosperosi e ben acconciati, di colore rosso. “Chi vuole unirsi?”

“Due viaggiatori curiosi. Mi chiamo Dhorard.”

“Io sono Mjorwain.” Fece lui, e mandò giù una cucchiaiata di stufato. Era molto saporito, anche se non si poteva dire che la lepre si sciogliesse in bocca.

“Sedetevi, sedetevi.” Si posizionò vicino a baffi-rossi, Dhorard accanto al bendato. “Piacere di conoscervi, potete chiamarmi Tasso.” L’aspetto dell’orbo, in effetti, faceva venire in mente quello di un tasso, l’animale. “Questo baffuto qui è Flann, e lui è Yiggor.” Yiggor fece un gesto pigro con la mano, a salutare. Era il più giovane dei tre: neanche una ruga sul volto affilato. I capelli corvini erano raccolti dietro la nuca e ricadevano sulle spalle in una coda liscia.

“Di dove siete?” La piattezza nella voce di Flann si sarebbe meglio addetta a un’affermazione piuttosto che a una domanda. Le sue palpebre erano pesanti, come se fosse scocciato della loro presenza.

Forse, Rifletté Mjorwain, gli va più a genio discutere su cosa si debba preferire in una donna, se il culo o le tette.

“Arvid.” Dhorard rispose comunque con un sorriso.

“Ah, e cos’è che vi spinge fin qua su?” Disse Tasso. “Affari?”

“Proprio così, siamo diretti al mercato di Dagsar.”

“Be’, tra quelli che vanno lì non siete i primi a sostare in paese. Che tipo di merci trasportate?”

“Vino. Annate vecchie e nuove.” Dhor mandò giù una sorsata di birra; Mjorwain, invece, finì di scolarsi il brodo dello stufato.

“Sai, a vista non vi avrei reputato forestieri.” Tasso indicò il suo unico occhio. “Non ho mai scorto le vostre facce qui alla locanda, certo, ma pensavo foste comunque di queste parti. Sicuro date l’impressione di avere familiarità con l’ambiente.”

“Il tuo amico biondo sembra quasi un locale…” Il pelato lo additò con il pollice.

“Mjorwain. Nel caso tu non avessi sentito.” Non condividi la panca con uno sprovveduto, baffo. “Malgrado ciò la vista non t’inganna: mio padre è originario di qui. Ho uno zio che abita in paese, stanotte ci ospita lui.”

“Come si chiama tuo zio?” L’orbo si sporse in avanti. “A Sigyglard ci vivono pressappoco duemila anime. Potrei conoscerlo.”

“Il suo nome è Mjorrad. È un cacciatore.”

“Sì, è tra le mie conoscenze. Di volto gli assomigli un sacco, solo che lui ha gli occhi chiari.”

“Gli occhi marroni sono un tratto di mia madre. Lei era di Arvid.”

“E così tuo padre è rimasto lì a darsi da fare… capisco.” Il senza-occhio annuì con aria pensierosa.

“Fino a qualche anno fa anche zio Mjorrad faceva il mercante, tant’è che ogni estate ci veniva a trovare. Poi, dato che era abile nella caccia, ha deciso di renderla il proprio mestiere.”

“Fosse l’abilità l’unico motivo! Spostarsi di mercato in mercato è già di per sé una gran seccatura. Se ci aggiungi la lontananza dalla tua famiglia e la vecchiaia, allora diventa una seccatura ancor più grossa. Lo so bene io, che facevo lo stesso lavoraccio e ci ho pure rimesso…” Portò due dita alla benda nera e si mise a palparla con nervosismo. Si rivolse a Dhorard di fianco a lui: “Tu che sei giovane e in forze devi riflettere bene, prendere decisioni che ti evitino queste seccature.”

E Dhor: “Solo se avessi la ricchezza di un principe abbandonerei di buon grado questo mestiere. Con quella potrei visitare i paesi del mondo per puro piacere, senza dover compiere la minima fatica.”

“Ma ci sarà ad Arvid una ragazza che ti vuoi prendere in moglie! Una con cui desideri avere dei figli…”

“Non lo desidero affatto.” Il sorriso che si allargò sopra la barbetta castana di Dhorard era sardonico. “E se voglio godere vado con una prostituta. Il problema della lontananza neanche si pone dato che sono ovunque.”

A Mjorwain non sfuggì il sogghigno che si palesò sotto i baffi di Flann. Può essere che le donne siano l’argomento che gli interessa di più a questo qui. Rifletté. Dopotutto, la faccia da volpone famelico ce l’ha. Lui aveva passato diciotto anni a viaggiare per Adelweiss, e un bravo mercante deve avere occhio per gli scellerati.

“Su questo fatto la pensiamo uguale.” Disse Yiggor, che parlava con la ‘s’ moscia.

Perfino Tasso parve trovare dell’ironia nel grezzo ragionamento di Dhorard, anche se non si lasciò coinvolgere troppo: “È facile dire così alla vostra età…”

Parecchio facile. Pensò Mjorwain nel bere una lunga sorsata di birra. Nessuna puttana di Adelweiss mi renderà ciò che potrei avere da mia moglie. Gli tornò alla mente ciò che Erlinne, la sua consorte, gli aveva confidato prima che lui partisse.

“Il mio ciclo ha ritardato. Se il Signore è misericordioso, quando sarai di ritorno potrei aspettare un bambino.”

L’aveva baciata ed esortata a pregare per la sua fertilità. Eppure, Mjorwain aveva sempre e solo ricevuto cattive notizie; non c’erano mai stati frutti. Intanto, il ventre di sua moglie si riempiva di smagliature, la sua bellezza sfioriva.

S’avvide che aveva svuotato il boccale. “Dhor, vuoi dell’altra birra?”

“No grazie, sto bene così.”

“Ragazzo!” Appoggiato con la schiena al muro, il garzone dai capelli ramati alzò lo sguardo e colse il cenno di Mjorwain. Si avvicinò seguito dal suo cane, un bastardo di media statura, bianco a chiazze marroni. “Riempimi il boccale.”

“Subito.” Lo prese per il manico e andò dietro al bancone, dove c’era l’oste.

Chissà! Magari il nome della locanda fa riferimento alle sembianze del proprietario.

Il taverniere del Covo dello Scoiattolo era un omino smilzo, con le orecchie a sventola e due occhietti furtivi, come un roditore in tutto e per tutto.

Seduti ai tavoli c’erano anche altri personaggi. Un membro della guardia civile, il naso arrossato dall’ebbrezza, stava per cadere abbioccato nella bevanda. La picca stava ritta al suo fianco, come se fosse una persona vera seduta dietro la mensa. Due uomini dalle barbe atre, intenti nel gioco dei dadi, si apostrofavano in un dialetto gutturale, di ardua comprensione.

“Quelli là vengono da est.” Disse l’orbo a Mjorwain. “Tra la Cinta di Illhebron e le foreste di conifere nere ai piedi dei Monti Hraggor.”

“Mercanti?” Fece spontaneo lui.

“E chi può dirlo con certezza?” La faccia di Tasso s’era fatta cupa. “Se si trovano qui per una sosta, allora si tratta di una sosta molto lunga; una permanenza prolungata si potrebbe definire. È più di una settimana che incrocio quei due musi ispidi qui al Covo.” Ci fu un silenzio contemplativo da parte del bendato. “Tuttavia, azzarderei che sono dei cacciatori.”

Mjorwain non si spiegava quella teoria. “Vengono fin qui per cacciare? Per quale motivo?”

“Una taglia. Il governatore ne ha posta una bella consistente per ogni tre carcasse di lupo che gli porti intere. È dalla fine dell’inverno che la gente continua a scomparire nei boschi.”

Il garzone gli pose davanti il boccale di birra, dal quale lui cominciò a sorseggiare.

“Ma quali lupi?” Brontolò Flann “Non ci vuole niente a perdersi con un po’ di nebbia.”

Yiggor aveva un’espressione sarcastica. “Non pensavo esistessero cacciatori che non sanno da che lato dei tronchi cresce il muschio.”

Il pelato rispose all’arguzia del giovane con un versaccio.

“Mjorwain.” Disse Tasso, il tono velato di malinconia. “Se tuo zio si è messo in testa di cercare fortuna con quelle belve, fallo desistere. È vero, i lupi non sono l’unico periglio delle foreste, e un cacciatore con anni di pratica alle spalle sa in che maniera agire, ma ciò non toglie il rischio che l’impresa comporta.”

Mjorwain annuì, pur essendo conscio del fatto che se lo zio avesse deciso di andare, sarebbe stato difficile fargli cambiare idea.

“Infatti.” Disse Flann. “Invece dei lupi, tuo zio potrebbe incontrare una certa lince.” Ridacchiò in modo sommesso, a bocca chiusa.

Mjorwain fissò torvo il provocatore e decise di giocare il suo stesso gioco. “Cosa vorresti dire, baffo?”

“Lascia stare.” Fece Tasso. “È solo una diceria popolare.”

“Sarà pure una diceria popolare, amico, ma se il testone mette in mezzo mio zio mi sarà dovuto sapere di che si tratta, non credi?”

“Non fa una piega.” Disse Yiggor con quel suo fare sarcastico.

Flann contrasse la mandibola, le sue labbra si strinsero.

Tassò sospirò. “Avrete di certo sentito parlare di Royvhel, il governatore di Dagsar.”

“L’elfo?” Disse Dhorard.

“Sì, l’elfo. Anche se si vocifera che negli ultimi tempi, di elfico gli era rimasto ben poco.”

“È morto?”

“C’è chi sostiene di sì. Alcuni insistono che è scomparso, e riportano testimonianze. Avvistamenti di una debole figura sul limitare dei campi o addirittura nelle bufere di neve.” Tasso aggrottò la fronte. “Racconti di linci che sbranano i bambini.”

“Dunque, le voci che girano intorno a quel tipo sono vere?” C’era una nota di eccitazione nelle parole di Dhorard. “Aveva sul serio addomesticato una lince?”

Il garzone dell’osteria, che indugiava vicino a loro, s’intromise: “I dagsariani dicono che la bestia lo seguiva dovunque andasse.”

“Dannazione, Tasso!” Ringhiò Flann, peggio del cane che gli mordeva lo stivale, con il quale egli lo respingeva. “Quello era un essere consumato dalle droghe! Ora tu vorresti credere che uno come lui potrebbe sopravvivere nei boschi? E andarsene in giro durante le bufere, per giunta…”

“Credo, amico mio, che molti vedano solo ciò che si aspettano di vedere.” L’unico occhio dell’orbo era fermo, non lasciava trasparire insicurezza. “Ed ecco che ogni giorno qualcuno se ne esce convintissimo con una storia. Se Royvhel è morto, allora che i suoi demoni se lo portino all’inferno. Nondimeno mi è consentito dubitare.”

“Da come parlate non si direbbe che sia morto assassinato.” Disse Mjorwain.

“È inconsueto che un elfo muoia per cause che non siano l’uccisione e lo si venga pure a sapere, non è vero?” Gli disse il bendato. “No, lui non si sarebbe fatto ammazzare con facilità, ma uccidersi da solo… quello forse sì. Sembra che da qualche anno a questa parte le sue condizioni di salute fossero peggiorate. Molti individuano una causa nelle droghe che assumeva, e nei macabri rituali di sangue che compiva. Io non l’ho mai incontrato di persona, ma gira voce che non assomigliasse più a uno della sua razza. Voi avete mai visto un elfo invecchiato? No che non lo avete visto. Ecco, lui lo era. Anzi, sarebbe più corretto dire che la sua vita si fosse come accorciata, perché era nel fiore della sua gioventù. Neanche cinquant’anni mi pare: sono più vecchio io. Però tenete conto del fatto che, nel parlare di un simile individuo, si possono avere poche certezze.”

“Una povera anima tormentata, insomma…” Devo ricordarmi di questo Royvhel, pensò, almeno posso essere sicuro di non raggiungere il suo livello di miseria.

Tasso scosse il capo. “Semmai da compatire sono coloro che subivano le sue angherie. Io rimango dell’idea che quello stregone stesse facendo del male a qualche innocente, oltre che a se stesso. In ogni caso basta parlare di lui, non voglio scombussolarvi le viscere con certi aneddoti.”

Andarono avanti a parlare del nuovo governatore di Dagsar, ruolo non poco importante trattandosi della città più settentrionale di Adelweiss, la frontiera con i popoli a nord dell’imponente catena di Hraggor.

Dhorard domandò a Tasso quale fosse il suo mestiere attuale. Egli rispose che dopo aver abbandonato il commercio aveva deciso di dedicarsi al proprio terreno, ma circa la perdita dell’occhio destro non si espresse. Alla fine si tornò a discutere di donne e di sesso, chiacchiere che riaccesero la fiamma del desiderio di Mjorwain, alimentandola. Mise assieme alcuni indizi che trasparirono da parole e gesti, e gli sembrò d’intendere che Flann dovesse essere anche lui un cacciatore. Avrebbe chiesto a suo zio Mjorrad se conoscesse il baffone, giusto per capire se si era fatto un’idea esatta sul suo conto.

Nel frattempo, i due energumeni dalle barbe ispide se ne erano andati. L’uomo d’arme, scosso per la spalla dal garzone, si guardò attorno stordito e lasciò la locanda barcollante. Forse contagiato dalla sonnolenza della guardia, il suo compagno di viaggio cacciò fuori un sonoro sbadiglio.

Mjorwain decise che era ora di andare. Malgrado la birra che aveva mandato giù, non aveva sonno. “Dhorard, per favore, porta il carro sulla strada intanto che pago l’oste.”

“Signori, è stato un piacere passare con voi la serata.” Il giovane si diresse verso la porta a grandi passi e uscì nella notte.

Tuttavia, prima di sborsare il pagamento, Mjorwain volle togliersi un peso dallo stomaco. Appoggiò le mani sul tavolo. “Signori” disse a voce bassa. “Posso chiedervi un’informazione prima di andarmene?”

Il senza-occhio gli mise una mano sulla spalla. “Chiedi pure, amico.”

“Sapreste indicarmi la via per un buon lupanare?”

Tasso scoppiò in una risata calorosa. “Io non frequento quei luoghi, Mjorwain. Forse loro sapranno consigliarti.”

Flann si limitò ad alzare le spalle. “Non saprei dirti.”

Oh, invece scommetto che lo sai e come, infame. Al contrario dei pensieri, la lingua la tenne a freno.

“Prova al bordello La Radice.” Fu il giovane a parlare. “Le ragazze che stanno lì sanno il fatto loro, e devo dire che i prezzi non sono esagerati.”

“E dove posso trovarlo?”

“In via dei Fabbri imbocca il terzo vicolo a sinistra, venendo dalla piazzetta con l’albero al centro, di lì entra nel quinto a destra. Percorrilo finché non trovi la porta con la runa ‘r’ di radice incisa sopra. Quello è il posto che cerchi.”

“Via dei Fabbri, terzo vicolo a sinistra e quinto a destra, porta con la runa. Tutto chiaro. Grazie per il piacere Yiggor.”

Il giovane chiuse gli occhi scacciando con la mano, come se si trattasse di una quisquilia insignificante. “Figurati. Piacere mio aiutarti.”

Quella che poteva sembrare una piccolezza a lui, celibe con tutta probabilità, era un fardello di piombo per Mjorwain. Aveva giurato fedeltà a Erlinne in nome della divinità, una promessa che da tempo era stata infranta. Stanotte calpesterò i frammenti di quella promessa. Pensò. Li calpesterò per l’ennesima volta…

 

Uscito dal Covo dello Scoiattolo ammantato e incappucciato, Mjorwain alzò gli occhi sull’insegna e si convinse che l’animaletto fulvo fosse proprio la caricatura del taverniere.

Uno dei cavalli sottrasse dell’avena dalla mano di Dhorard e la masticò. Le narici dell’animale rilasciavano nuvolette di aria condensata. In quelle regioni, una notte primaverile era gelida quanto una giornata invernale, gelo che sfumava in un più modesto freddo all’arrivo dell’estate. Per evitare che il legno dei barili congelasse, avevano coperto il carico per mezzo di una spessa tela di lana.

“Allora?” Fece il suo compagno di viaggio. “Quanto s’è preso?”

“Cinque monete di bronzo e un paio di rame.”

Dhorard inarcò un sopracciglio. “Mezzo argento per due stufati e tre boccali?”

“Quando inizia la stagione dei commerci i prezzi salgono.” Mjorwain sollevò i palmi delle mani. “Se avessimo tardato di una settimana ci avrebbe chiesto di più.” Salì sul carro e afferrò le redini.

L’altro emise un mugugno d’incertezza, senza obbiettare alcunché. Dhor accese una lanterna e si posizionò anche lui sulla seduta. “Andiamo da tuo zio a dormire?”

Mjorwain indugiò. Non è il tipo che si scandalizzerebbe se lo portassi a un bordello. Anzi, magari coglierebbe l’occasione per usufruirne anche lui… “No, Dhorard. Prima ho chiesto a Tasso e agli altri se mi potessero consigliare un bordello.”

“Oh. Bene, per me non c’è problema. E che ti hanno detto?”

“Yiggor mi ha indicato la strada per arrivarci. Il posto si chiama ‘La Radice’.”

Dhorard si massaggiò il mento barbuto. “Mi sa che quello preferisce usare la lingua in altri modi più che per comunicare.”

Mjorwain spronò i cavalli a partire con un sogghigno in viso.

 

Sigyglard era un paese di case costruite in pietra l’una di fianco all’altra, dando vita, in questo modo, a un’intricata trama di strade e vicoli.

Però, almeno, le vie del paese non ricalcavano la pendenza di un colle, a differenza di Arvid, per cui il trasporto delle merci era in gran parte facilitato. Già da quattro o cinque ore la luna si era levata da est, ed erano pochissime le anime umane che tuttora si intrattenevano in giro, assieme ai gatti randagi.

Passarono davanti a un’altra locanda, dove c’era un gruppetto di uomini che chiacchierava ad alta voce con il duro accento del luogo.

“Scusate, dove bisogna andare per la via dei Fabbri?” Fece Dhorard.

Uno di loro disse: “Se andate in fondo a questa strada uscirete in una piazzetta che ha un albero nel mezzo. Entrandoci la via dei Fabbri si apre alla vostra destra.”

“Grazie tante!”

Fecero arrestare i cavalli davanti al terzo vicolo a sinistra, con l’albero in lontananza. Constatarono che la via era troppo stretta perché il carro ci potesse passare senza bloccare del tutto il passaggio a un’eventuale pedone.

“Eccoci qua” Mjorwain si mise in piedi. “Tira fuori la spada e rimani in guardia. Non lasciare il carro incustodito per nessuna ragione, chiaro? Se vuoi, quando torno possiamo darci il cambio e puoi andare anche tu a…”

“No, lascia perdere.” Lo interruppe. “Non mi va.” L’acciaio dell’arma strusciò contro il cuoio del fodero e generò così un sibilo.

“Ma al Covo non avevi detto che ti piace andare a prostitute?”

“No… cioè… sì!”

“E allora? Che io sappia non ti sei ancora trovato nessuna, né tuo padre ti ha promesso in marito, o sbaglio?”

“No, hai ragione infatti, però… sul serio non ho voglia.”

“Se c’è una cosa che ho imparato in quasi vent’anni di peregrinazioni, è che i bugiardi veri fanno di tutto per mantenere la credibilità. Un bravo mercante ha orecchio per le menzogne.” Mjorwain pensava di intuire cosa il giovane potesse nascondere. Volle fare una domanda per metterlo all’angolo, ma lui lo precedette.

“D’accordo, d’accordo… te lo dico. Diciamo che ho una conoscenza speciale ad Arvid. Ci frequentiamo all’insaputa dei nostri padri e… ecco… non vorrei avere una puttana in mente quando vado con lei, non so se mi spiego.” Le orecchie di Dhorard erano passate dal bianco glaciale al purpureo.

“Capisco. Non allontanarti dal carro, mi raccomando.” Fu tutto ciò che gli venne da dire. Mise i piedi a terra e fece per addentrarsi nel vicolo.

“Mjorwain, ti prego.” Lo fermò prima che potesse girare l’angolo. “Mantieni il segreto. Fai finta che io non ti abbia rivelato niente.”

“Va bene.” Fece attenzione a non aggiungere ‘lo prometto’. Ma se anche la sua bocca avesse cacciato fuori quelle parole, non avrebbe comportato niente. Del resto, Mjorwain di Arvid non era vergine al tradimento. Non era vergine all’infrangimento di promesse.

 

La luna era calante, null’altro che un arco latteo nella nerezza degli spazi astrali. Non erano tanto gli aloni di luce ignea a occultare le stelle all’occhio del viaggiatore – solo da poche finestre emanava la gialla radianza di un lume – quanto piuttosto le fosche nubi che navigavano nel mare celeste, come una flotta allo sbaraglio. Ogni tanto, un pipistrello solitario volteggiava sopra i tetti squittendo.

È ancora giovane, si ripetè Mjorwain, Si lascia trasportare dalle passioni. L’invidia, che nei primi attimi della confessione aveva fatto breccia nel suo animo, ora retrocedeva per lasciare il posto a dubbi e paure.

La ragazza era già promessa a qualcuno? O peggio, era già sposata? Come sarebbe andata a finire se il padre, il promesso o il marito di lei lo avessero scoperto? Decise che lo avrebbe riferito al padre di Dhorard, prima che questi si cacciasse nei guai. Non poteva permettere che ulteriori sensi di colpa si aggiungessero a quelli che da anni gli gravavano sulla coscienza.

Di nuovo, lo sguardo di Mjorwain si levò su quelle stelle che le nuvole e le abitazioni non celavano. “Farò così.” Disse in un soffio, ma dentro di sé, al pensiero che quello potesse essere il primo e anche l’ultimo viaggio in compagnia di Dhorard, si rattristò.

Passò accanto a una finestra bassa, dalla quale provenivano tonfi ripetuti. Sbirciò all’interno e vide che, nella semioscurità, una vecchiarda tutta grinze e capelli bianchi affettava quello che egli decise fosse un coniglio. In una manciata di secondi questa si accorse di lui, e Mjorwain continuò per la sua strada.

Si fece prossimo a una coppia di balconi così ravvicinati che, per la strettezza del vicolo, si sarebbe potuto passare da una casa all’altra scavalcando i due parapetti. Su ciascuno di essi c’era una sagoma d’uomo che scherzava e rideva in modo sguaiato con quella di fronte. Mjorwain se li lasciò alle spalle e, per degli istanti, calò il silenzio. Mi stanno osservando, pensò. Quindi, ripresero la loro goliardia. Per quale ragione dovrebbero ridere di me? Ma la vera domanda è ‘perché me ne dovrebbe importare?’

Un’ombra balzò giù da un davanzale. Gli tagliò la strada e sfrecciò nel vicolo più vicino.

Solo un gatto; questo è, Mjor. Il paese ne è pieno.

Giunse davanti alla porta con la runa ‘r’, socchiusa. Un passante ignaro avrebbe scambiato l’edificio per una comune abitazione, dato che non era in alcun modo separata dalle strutture adiacenti. Camminò all’interno, in una stanza le cui poche candele non arrivavano a illuminare gli angoli.

“C’è nessuno?”

“Arrivo subito.” La risposta, una eco appena percettibile, risalì da un’apertura nel pavimento, la quale dava sulla rampa di scale per le tenebre di uno scantinato. Dal piano superiore, i mugolii e i gridolini tipici di un coito raggiunsero le orecchie di Mjorwain.

Dovettero passare suppergiù cinque minuti prima che il proprietario risalisse i gradini, avvolto dalla debole aura di una candela. Era un uomo con la fronte alta e senza barba, capelli e vestiario grigi entrambi. Se non fosse stato un tipo curvo, avrebbe superato Mjorwain in altezza. Gli unici deboli colori che si potevano rintracciare nella sua figura, erano il verde degli occhi e qualche ciocca rossa che ancora opponeva resistenza all’incedere degli anni. “Tu sei un nuovo cliente. Non sei di Sigyglard, dico bene?” Tanto era debole la sua voce, che Mjorwain si chiese se non la tenesse bassa di proposito.

“Dici bene. Sono di passaggio.”

Il veglio posò il lume sulla superficie di un tavolo e sedette. “Seconda porta sulla destra al piano di sopra. Bussa prima di entrare: ti aprirà lei.”

I gradini di legno gemettero sotto i suoi piedi. Si ritrovò in un corridoio che dava su due coppie di stanze, a destra e a sinistra. Si accostò a quella che gli era stata indicata, la più lontana dai continui versi di godimento, provenienti da dietro la prima porta sul lato opposto.

Sbatté le nocche contro il legno, una, due, tre volte.

La porta si aprì a seguito di una breve attesa, su di una ragazza già nuda che lui superava di tutta la testa. Non doveva avere più di diciassette anni, a suo giudizio. I capelli marrone scuro contrastavano con il candore della pelle, gli occhi dalle iridi castane suggerivano sensuale docilità. Mjorwain si compiacque delle rade lentiggini che sottostavano a questi ultimi. Il suo corpo presentava più carne di quella che ci si aspetterebbe da un’umile paesana, ma non si poteva parlare di eccesso. Deteneva quelle forme ideali che producevano calore genuino in Mjorwain, forme che mancavano purtroppo a sua moglie Erlinne.

“Ciao! Sei molto bella.”

Lei si limitò a sorridere, ma le labbra carnose non scandirono alcuna parola. Lo prese per mano con delicatezza, chiuse la porta alle loro spalle e lo condusse nella stanza in penombra. Si mise a sedere sul letto con le cosce allargate e gli lanciò sguardi invitanti, la testa reclinata all’indietro.

Non una prostituta si era mai sforzata di assumere un simile atteggiamento nei suoi confronti. Nella maggior parte dei casi era la frustrazione a regnare. Quella volta era eccezionale, Mjorwain sentiva di doversela godere a pieno, perché un’occasione del genere si sarebbe riproposta con difficoltà.

Tre candele profumate erano accese: due alla base dell’entrata e un’altra in cima a un guardaroba davanti al letto. La finestra era chiusa, dunque l’odore emanato dalla cera rossa in combustione non si disperdeva. La fragranza era così concentrata da risultare dolciastra, poco ci mancava che desse la nausea.

Non avrebbe permesso al disgusto di rovinare la propria unione con la ragazza. Prese la candela sull’armadio e la spense con un soffio. Allora si avvicinò alla finestra e la dischiuse quel poco che bastava per far cambiare l’aria, senza che le correnti notturne facessero irruzione. La giovane si era alzata e lo teneva per il braccio, come per esortarlo a fare l’amore. La bocca di Mjorwain non poté fare a meno di curvarsi in un sorriso. All’ottenimento dell’atmosfera desiderata, rimise a posto l’anta. “Va bene, va bene.” Ridacchiò. “Ma com’è che non parli? Sei muta per caso?”

Lei non rispose, ma lo avvolse con le braccia appena sopra il fondoschiena, e si sollevò sulle punte dei piedi per baciarlo. Finirono l’uno al di sopra dell’altra sul giaciglio. In quel frangente, Mjorwain poté notare che un velo di angoscia era calato sul volto di lei. “Non ti devi preoccupare, mi piaci davvero un sacco. Non lo senti? Stai facendo un ottimo lavoro.”

Presero a baciarsi con passione, lingua contro lingua. Lui sfilò mantello, giubba in pelle e tunica, si lasciò slacciare le brache dalla giovane.

Eppure, nell’aria continuava a persistere un odore sgradevole. Le narici percepivano che al profumo emanato dalla cera si mescolasse il tanfo di qualcos’altro.

Nonostante le sue membra fossero percorse da scariche di eccitazione che non aveva sperimentato da anni, Mjorwain trovò la volontà di staccarsi dal grembo di lei, che pure cercava di trattenerlo. Quel coito lo avrebbe vissuto al meglio. Non ci sarebbero state pecche di sorta.

Il suo olfatto era punto da un fetore a cui non era estraneo, che gli ricordò i distretti più squallidi di certe città portuali, dove le stesse vie fungevano da discarica per scarti di pesce e frutti di mare. Lui, da bravo mercante, aveva fiuto per la miseria. Nondimeno, era oltremodo strano che tale percezione gli si presentasse in un paese come Sigyglard.

Si guardò attorno, pur non individuando sporcizia. Anche la strada su cui dava la finestra era sgombra, e sotto il letto non c’era che polvere. L’unica alternativa era che nel guardaroba ci fosse qualche vestito da lavare, intriso di lezzo. Ma perché proprio lì? Perché proprio quell’odore?

La ragazza gli afferrò il braccio, ma lui si divincolò e tirò la maniglia dell’armadio.

All’interno c’era una cappa nera con cappuccio, sotto a essa delle brache lorde, ancor più sotto degli stivali consunti…

Il vestiario ricopriva una figura che si muoveva.

Sotto il cappuccio si vide un luccichio sinistro e dalla cappa vennero fuori due mani pelle e ossa. La destra impugnava una daga; un riflesso vermiglio ne percorse la lama. Mjorwain balzò all’indietro e fece per gettare un urlo tremendo, ma la ragazza gli tappò la bocca da dietro. La figura venne avanti di un passo, ma la puttana lo strattonò facendolo finire di nuovo sul letto, supino sul grembo di lei. Gli bloccò la testa e, cingendolo con le gambe, gli immobilizzò le braccia. Gli arti inferiori di Mjorwain, mossi dalla frenesia, colpirono una cosa e la respinsero. Pregò che si fosse trattato dell’assalitore. Non potendosi liberare dalla presa tramite la forza delle proprie membra, avvicinò le dita al culo della puttana e strinse la delicata carne tra pollice e indice con una torsione, nel pizzico più forte che gli riuscì di inferire. Dalla bocca della prostituta non fuoriuscì che un soffio, ma tutto il suo corpo fu pervaso da uno spasmo. Mjorwain colse l’attimo di mollezza per gettarsi all’indietro, sul petto della bastarda e quindi oltre la sua testa.

Nel giro di pochissimi istanti, la situazione si era rovesciata.

La giovane si divincolava nella presa delle braccia di Mjorwain. Egli raccolse tutto il proprio vigore e, facendo leva sul materasso con una spinta in avanti, la scaraventò addosso all’incappucciato che incombeva su di loro. Lei cadde a terra, l’altro fu mandato a sbattere contro il fondo del guardaroba da cui era venuto.

Ne venne fuori una seconda volta… ma il cappuccio gli era scivolato sulle spalle.

A Mjorwain neanche passò per la testa di reprimere il lamento angoscioso che gli uscì di bocca. Le fattezze del rapitore non si potevano comparare a nulla di umano che egli avesse visto in trentaquattro anni di vita. A coprire le sembianze di un teschio non c’erano che pochissimi millimetri di una maschera grigiastra. Doveva essere la sua pelle. Le orbite erano assimilabili ad atre caverne; facevano da tana a due occhietti dalle pupille minuscole e la sclera giallognola di malattia.

La sua mano corse alle brache, che ancora gli avvolgevano i piedi; si ritrovò a scagliare un oggetto contro l’essere. La lama del pugnale beccò il cranio, pochi centimetri al di sopra di un occhio. La linfa del mostro fuoriuscì in una cascata nera, rese quella metà del volto un baratro di vacuità. Il cuore di Mjorwain scandì gli attimi in cui l’abominio pendette in avanti con le braccia ciondoloni e gli occhi privati delle pupille. Le ginocchia cedettero, e l’avversario rovinò a faccia in giù.

La tensione aveva lasciato Mjorwain col fiato corto e la testa leggera. Era tutto accaduto così in fretta…

Che razza di luogo era quello? La complice di quella follia tremava rannicchiata in un angolo, la pelle sporca di sangue nero. La bastarda non poteva fuggire: davanti a lei c’erano le spoglie della creatura, e l’ombra di Mjorwain incombeva su di lei.

Nonostante tutto ciò, nell’altra stanza non era ancora cessata la foga del rapporto sessuale, come in un qualsiasi bordello. Dunque perché? Perché ordire un attentato in quel luogo, proprio alla sua vita?

Mosse dei passi verso la finestra e spalancò le ante esponendosi ai venti della notte. Non ricordò di essersi rivestito. Prese aria con il naso, la incanalò nel ventre e la fece uscire dalla bocca. Ripeté il processo per volte indeterminate.

Sembrava che il respiro stesse per stabilizzarsi, ma un suono umido proruppe da dietro di lui, un suono che spezzò anche i battiti del suo cuore. Girò la testa di scatto e ristette.

Qualcosa si muoveva ancora.

Sangue, pensò, deve fuoriuscire dell’altro sangue.

Il pugnale si staccò dal cranio e cadde sul legno con una vibrazione. Era follia credere che del sangue potesse generare quel suono di rimescolamento viscido.

Il capo dell’umanoide morto si scosse e, da esso, un’oscenità molle si aprì un varco per il mondo esterno, alla stessa maniera di una bestia che schiuda l’uovo che l’ha incubata per giorni. Sulle prime, la cosa viva diede l’impressione di condividere somiglianze con i vermi, ma ad attraversare il baratro di morte era il miasma di prima, che ricordava il pesce marcio. A una contemplazione più prolungata, scaglie come quelle di un serpente rifletterono sfavillii verdognoli. In più, l’aberrazione era munita di due appendici tridattile, con le quali aiutava il proprio corpo a venir fuori dall’altro.

A Mjorwain parve di vedere il volto deformato dal terrore della ragazza. La bocca era spalancata in quello che doveva essere un urlo, e lui comprese il perché del mutismo, unica certezza in un’infinità di eventi relativi. Infatti, non gli riuscì di trovare una singola spiegazione razionale a nulla che fosse accaduto dall’apertura dell’armadio, quel dannato portale per le più viscerali regioni degli inferi. Gli venne più facile convincersi che la cosa di fronte a lui fosse il demonico ambasciatore di un castigo divino, una pena imposta per punire l’indifferenza nei confronti di un solenne giuramento.

Lo stato di simil-pietrificazione abbandonò la persona di Mjorwain solo nel momento in cui la mostruosità emise un sibilo, e pose le appendici sul pavimento per strisciare in cerca di qualcosa che l’istinto gli proibì di sapere. Fu proprio l’istinto che lo spinse a scavalcare la finestra e a compiere un disperato salto per la salvezza. Un istante di vuoto, quindi l’acciottolato impattò con i suoi piedi. Il dolore che risalì le gambe fu lancinante, ma non lo trattenne dal correre.

Nell’impeto della fuga, strade deserte gli si pararono davanti, i muri delle case turbinarono attorno a lui. Corse verso Dhorard, verso Erlinne e il bambino che avrebbero potuto avere.

Quella notte, per l’ultima volta, Mjorwain di Arvid calpestò i frammenti della sua promessa. Per la divinità onnipotente giurò che non sarebbero più affondati nella sua carne.

Racconto di Simone Orticelli.