«Non giocate troppo con le ombre, solo la nostra è obbligata a obbedirci.»
La sera…
Scomparso dietro i monti, il Sole non gettava più lunghe ombre davanti agli ontani. Il rossore del tramonto aveva lasciato il posto a quel grigiore che, prima della sera, appiattisce il mondo. Un vento freddo sferzava l’erba e le caviglie scoperte di due piccole figure che arrancavano attraverso i campi. Apparivano come macchie scure agli occhi vecchi e stanchi della donna che, appoggiata a un bastone davanti una piccola casa di pietra, li aspettava già da un bel po’. Solo quando furono a portata del suo legno ella potè scorgerne con chiarezza i visi identici, ma l’uno intriso di pentimento e paura, l’altro arrogante e strafottente. Gridarono entrambi sotto i colpi severi della donna.
«Dove vi siete cacciati tutto il giorno?» strillò menandoli, «potevate farvi ammazzare!»
I due bambini subirono un poco per far sfogare la vecchia, poi corsero a rintanarsi in casa, un’accogliente catapecchia con due sole stanze e un pollaio attiguo. Si scrollarono di dosso le botte e andarono verso il loro pagliericcio, in una piccola stanza che faceva anche da magazzino per gli attrezzi. Sollevarono le coperte luride e sdrucite, ricavate da vecchi sacchi, e ficcarono un piccolo fagotto in mezzo alla paglia. Un topino solitario aveva la tana lì dentro, gli chiesero di fare buona guardia.
Quando la donna tornò in casa, trovò i due bambini davanti al fuoco a rimestare la legna mentre uno stufato ribolliva in una piccola casseruola. Con un lamento si sedette su una sedia bassa e per un po’ stette a guardarli in silenzio. Non aveva niente contro di loro, ma non era abituata ad avere bambini tra i piedi, e doversene prendere cura non era certo facile. Aveva già una capra e mezza dozzina di galline a cui badare. Se non fossero stati i nipoti di suo fratello li avrebbe mandati a fare l’elemosina.
«Vostro nonno non vi ha portati qui per farvi perdere nelle foreste, ma per tenervi lontani dallo schifo che c’è a Urwine.»
«Lo sappiamo», le rispose freddamente uno dei bambini, «Ma noi ci annoiamo a stare sempre qua. Non sappiamo badare agli animali e poi lontano da casa l’aria è meno puzzolente.»
La donna serrò, con le dita contorte, i braccioli della sedia e guardò il nipote con gli occhi spalancati. Se non fosse stata troppo stanca gli avrebbe dato un’altra passata di legnate.
«Hyram, tu sei un ingrato e un insolente, e non dovresti parlare anche per tuo fratello, che invece è tanto bravo. Lui si mette nei guai solo perché non vuol starti lontano.»
A quelle parole, l’altro gemello abbassò lo sguardo e dischiuse la bocca come per dire qualcosa, ma la zia non ne poteva più di discutere e ordinò a entrambi di portarle la cena. Lei, ormai con pochi denti, lasciò ai bambini la carne di gallina e mangiò inzuppando del vecchio pane nero nel brodo.
Finito il pasto, la vecchia prese un sorso di idromele e crollò lì dov’era. I bambini aspettarono che iniziasse a rantolare, segno che il sonno era profondo, dunque sgattaiolarono nella loro stanzetta. Hyram andò subito a recuperare il fagotto nascosto nel pagliericcio, mentre suo fratello guardava curioso da dietro una spalla, e ne trasse un oggetto metallico. Era un cilindro di ferro, con sopra un manico e sul fianco uno sportellino rotondo.
«Lynton, secondo te che cos’è?»
«Non lo so», disse l’altro allungando timidamente le mani, «posso vederlo?»
Hyram gli porse l’oggetto senza alcuna esitazione, preoccupandosi solo che suo fratello non lo facesse cadere a terra.
«Sta’ attento, è pesante.»
Lynton lo prese con cautela, si sedette e lo esaminò appoggiandolo sulle proprie gambe.
«Sembra proprio una lanterna.»
Non aveva avuto modo di guardarla bene lì nella foresta, dove l’avevano trovata, perché erano subito corsi via.
Il giorno prima…
Mentre la zia provava a fargli tagliare le erbacce, Hyram si fermò a guardare quel mare di fronde scure che si stendeva all’orizzonte. Il paesaggio si apriva ampio dalla collina su cui posava la loro casetta.
«Zia Ella, cosa c’è lì?»
«Quella? È Illhebron, la Foresta mangiasuoni, la Foresta del muschio rosso, la foresta del cavolo che vuoi. Per me è solo un vecchio bosco che puzza di muffa.»
La vecchia recitò quella frase distrattamente, ma quando s’accorse che il ragazzino continuava a guardare gli alberi, gli tirò uno schiaffo sul collo.
«Non v’azzardate ad andare da quella parte! Conoscete la leggenda!»
«Certo, zia…» disse il nipote accarezzandosi la parte colpita, «la leggenda del vecchio bosco ammuffito.»
I bambini furono colti da una crisi di risate e scapparono per una buona mezz’ora dalle percosse della zia.
La mattina…
Il gallo non cantò perché si era strozzato con un chicco d’orzo, ma era già l’alba. Hyram e Lynton si alzarono senza fare il minimo rumore. Senza fiatare si vestirono. Con passo felpato presero del pane e del formaggio e uscirono dall’uscio che la sera prima avevano ben oliato. Zia Ella non udì nulla e avrebbe continuato a dormire per un altro paio d’ore.
L’aria gelida del mattino li frustò, si strinsero nei loro mantellini bucherellati e saltarono su un muretto di pietra. Da là sopra scorsero l’Illhebron, e pareva che su quella foresta posasse ancora il manto della notte. Scesero e cominciarono a camminare, Lynton afferrò la mano del fratello.
Quando il sole fu più alto e suoi raggi cominciarono a riscaldare l’aria, Hyram e Lynton diventarono più allegri e giocarono tra i campi incolti e i sentieri inselvatichiti. Erano felici perché non avevano mai visto né un bosco né una foresta, avendo passato l’intera loro vita tra le mura di Urwine. Man mano che si avvicinavano, però, cresceva un certo disagio in loro. Questo raggiunse il colmo quando arrivarono vicino al limitare della foresta. A separarli dal fitto di rossi e contorti alberi c’era un sottile ruscello. Lo scorrere dell’acqua era un sussurro appena percettibile. Hyram e Lynton raccolsero due sassi e li lanciarono verso gli alberi. Le pietre atterrarono nel sottobosco senza fare alcun rumore, e nello stesso silenzio alcuni uccelletti presero il volo e si allontanarono dal luogo dell’impatto.
«La Foresta mangia suoni…» fece Lynton con un filo di voce.
«Sì, se li mangia davvero!»
Il tono ironico del fratello fece sorridere Lynton, ma non appena quello mise un piede avanti lui lo afferrò per il braccio. Aveva paura, e sapeva che anche il suo gemello ne aveva. Hyram, però, era sempre stato più bravo di lui a scacciare i timori, così lo prese per mano e se lo tirò appresso.
«Facciamo solo un giretto, dai. Basta stare zitti, capito?»
Lynton annuì senza dire niente e attraversò il ruscello con lui.
Inoltrandosi nel bosco furono subito scossi dall’irreale silenzio in cui era immerso. Camminarono stentatamente, come se avessero paura di perdere l’equilibrio. Quando si furono abituati, cominciarono a sentire qualcosa. Erano suoni debolissimi, fruscii, bisbigli… Lynton afferrò il fratello e lo guardò negli occhi, lui capì cosa gli stava chiedendo, ma non sapeva rispondergli. Svoltarono a destra e provarono ad allontanarsi dai bisbigli, ma ne sentirono altri. Cominciarono a correre.
Fuggendo lanciavano sguardi spaventati verso l’interno della foresta. Figure evanescenti apparivano tra gli alberi, facce bianche ricambiavano le loro occhiate. Lynton inciampò su una radice e tirò con sé il fratello. Rialzandosi si trovarono davanti un bambino. Bianco e scheletrico, li osservava con orbite vuote e nere come il catrame. Non riuscirono a trattenere un urlo di terrore.
Nonostante la caduta con rotolamento, Hyram non aveva perso il senso dell’orientamento. Prese per mano Lynton e lo tirò con sé verso l’uscita di quel luogo degno dei peggiori incubi. Si guardarono indietro, dopo un po’, e non videro più nessuno. Pensarono di potersi fermare, ma ecco che di nuovo caddero. Lì il terreno, oltre a essere accidentato era pure poco pianeggiante e pieno di fossi. I gemelli finirono in uno di questi fossi tra due grosse rocce. Ad aspettarli c’era un altro essere scheletrico, e quasi ci scappava un altro strillo isterico se Hyram non avesse prontamente tappato la bocca al fratello. Era solo il cadavere di qualcuno più sfortunato di loro.
Non riuscirono a distinguerne la razza, potevano dire solo che non era un nano e che era morto da un bel po’ di tempo. Tra le braccia teneva qualcosa, un oggetto arrotolato in una stoffa che ormai assomigliava alla sua pelle. Hyram, coraggioso, andò a curiosare. Ebbe giusto il tempo di scostare un lembo di tessuto, che di nuovo si udì un bisbiglio. Uscirono dal fosso ficcando le unghie nella terra e ricominciarono a correre, ma con un tesoro tra le braccia.
Sottili colonne di luce andavano crescendo davanti a loro, era la fine della foresta e l’inizio del loro destino.
Attraversando il ruscello si sentirono ormai salvi e si lasciarono andare a terra, nascosti tra l’erba alta. Si svegliarono molte ore dopo, e stavolta ebbero paura al pensiero della zia Ella. Corsero di nuovo, verso casa.
La notte…
Lynton si rigirò la lanterna tra le mani. Il ferro era stranamente freddo, la superficie scavata di segni che non sapeva leggere. Sullo sportellino era inciso un simbolo: una mano con un sole dietro.
«Apri», gli disse Hyram.
Il fratello ubbidì, e con cautela aprì lo sportellino. Si sentì qualcosa simile a un sospiro, e un alito di luce rossa uscì dalla lanterna, andando a proiettare un cerchio di luce tremolante sulla parete della stanza. Eppure nessun fuoco ardeva dentro la lanterna.
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Racconto di Leonardo Iacono.
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