Nonostante il mistero che l’avvolgeva e l’orrore che aveva portato alla sua scoperta, la lanterna divenne presto un gioco per i bambini. Per un po’ le livide figure incontrate nella foresta abbandonarono le loro menti, scacciate dalle ombre che ora loro facevano danzare sul muro, proiettate da quella strana luce. Le piccole mani si muovevano casualmente davanti alla lanterna, e i bambini ridacchiavano sottovoce. Poi presero a creare figure, facendo diventare le dita orecchie, zampe, ali, fauci.
Lynton sollevò il medio e l’anulare della mano destra, dunque al dorso di questa appoggiò la sinistra, e fece sporgere quattro dita come quattro piccole zampette.
«Guarda, Hyram, sono un coniglio!»
Il fratello, allora, con sguardo malizioso, incrociò i pollici e distese i palmi della sue mani come un paio d’ali. Fece planare la sua ombra su quella di Lynton e disse:
«E io sono un falco!»
Allora l’ombra dei suoi pollici si fece appuntita e si curvò, e le altre dita parvero moltiplicarsi e prendere la forma di piume. Due occhi rossi brillarono sulla testa di quella figura, e l’ombra volteggiò dentro il cerchio rosso, scomparve nel nero del muro non illuminato, poi tornò e si buttò sull’ombra di Lynton. Prima che questi allontanasse d’istinto le mani, vide il suo coniglio balzare fuori dal cerchio di luce, giusto in tempo per non farsi artigliare dal nero falco.
Ritraendo le braccia, Lynton urtò la lanterna con un gomito, facendola cadere a terra. Con un tonfo sordo e pesante, la piccola stanzetta tornò quasi al buio, illuminata solo dalla fioca luce del camino che entrava dalla porta.
I due bambini rimasero col fiato sospeso, in attesa che qualcosa accadesse. Per un po’ regno il silenzio assoluto, poi si udì un lamento dall’altra stanza. Era solo la zia Ella che si lamentava nel sonno. Ci sarebbe voluta una cannonata per svegliarla.
«Come hai fatto?» sussurrò Lynton al fratello, «Come hai fatto quella cosa?»
«Non sono stato io…» gli rispose il fratello guardandosi le mani, «Si muoveva da sola!»
Poi sollevò la lanterna da terra e la guardò. Dentro non c’era niente, solo il ferro cavo e freddo. Chiuse lo sportellino e lo riaprì, ma la luce rossa non si riaccese. Hyram si accigliò e guardò il fratello.
«L’hai rotta!»
«Non è vero!» fece Lynton, «Vedi che non c’è niente dentro? Si sarà… consumata.»
«Tu l’hai fatta cadere.»
Lynton non riuscì a dire altro, e quasi si stava mettendo a piangere. Suo fratello, vedendogli tremare il labbro, gli prese la mano e disse:
«Scusa… ora però non piangere, o la zia ci sentirà.»
Lynton si asciugò una lacrima e balbettò «Andiamo a dormire?»
Hyram annuì, ma in quel momento udirono uno strascichio di piedi e zia Ella entrò nella stanza, illuminando con un mozzicone di candela i loro volti spaventati. La donna li squadrò, severa ma ancora mezza addormentata.
«Che state combinando qua dentro? Avete rotto qualcosa?»
Hyram capì che era ancora un po’ disorientata dal sonno e provò ad approfittarne per spostare la lanterna lontano dalla sua vista. Ovviamente, il rumore di quel pezzo di ferro sul pavimento sortì l’effetto opposto. La zia si accorse dell’oggetto e si chinò per prenderlo. Non era pesante per lei, resa forte dalla vita dei campi. Guardò con disinteresse la lanterna, e rimproverò i gemelli.
«Ecco cosa facevate oggi, andavate a rubare! Non bastava lo spavento che mi avete fatto prendere!»
Hyram e Lynton abbassarono lo sguardo, pieni di vergona, ma zia Ella allungò la lanterna verso i loro visi, continuando a sgridarli.
«Dove l’avete presa? Non mi va che domattina arrivi qualcuno a reclamare la sua roba rubata!»
«Non verrà nessuno» disse Hyram, «l’abbiamo trovata per terra…»
«Ah sì?» fece la zia, poi volgendosi verso l’altro nipote, «È vero, Lynton? E dove?»
Gli occhi del bambino vagarono tra quelli severi della nonna, in cerca della verità, e quelli di Hyram, che gli dicevano “menti”. Lynton, però, non era mai stato capace di dire bugie.
«Nella foresta…»
La zia sgranò gli occhi e si morse le mani, e non potè trattenersi dal tirare un ceffone a Lynton. Questi si buttò a terra e pianse. Zia Ella fu sorpresa da se stessa per quel gesto, perché quello per lei era il gemello buono e bravo. Le fu subito chiaro di aver sbagliato, e che era quel mascalzone di Hyram a doversi beccare i suoi schiaffi. O peggio. Lo prese per un orecchio e lo trascinò, urlante, nell’altra stanza.
«Ne combini una dopo l’altra tu! Ma il peggio è che in ogni cosa che fai devi pure coinvolgere Lynton, che è tutto il contrario di te!»
Lasciò cadere Hyram davanti al camino, la sua piccola ombra si stagliava sul pavimento e tremava assieme a lui. La zia Ella prese il suo bastone, che ultimamente usava più per picchiare Hyram che per camminare, e lo sollevò sul bambino.
«Non pensare che mi faccia piacere, eh, ma quattro bastonate sulle reni te le meriti… Una per avermi disobbedito!»
E Hyram gridò.
«Una per aver rubato!»
E Hyram pianse.
«Una per avermi svegliata!»
E Hyram quasi perse il respiro.
«E una per avermi fatto colpire Lynton!»
Prima di venir nominato, Lynton era già uscito dalla sua stanzetta, e stava guardando quella scena acquattato vicino alla porta. Vide la zia sollevare un’ultima volta il bastone, ma prima che calasse il colpo Hyram sollevò lo sguardo e disse:
«Basta, zia Ella…»
La sua voce tremava, ma quelle parole non furono dette con un tono di supplica. Aveva dato un ordine. La zia rimase per un attimo interdetta, incrociando lo sguardo duro di Hyram. Il suo bracciò era ancora alzato, pronto per colpire, e quando fece per abbassarsi, un velo nero si frappose tra lei e il bambino.
Lynton vide l’ombra di suo fratello sollevarsi da terra come un uomo coperto da un lenzuolo nero. Quella cosa si erse fin oltre la testa della zia e dispiegò due ali che occuparono l’intera larghezza della stanza. Zia Ella indietreggiò, lasciando cadere il bastone. L’ombra assunse le forme di un gigantesco falco e accese due occhietti rossi e minacciosi. Le gambe della zia tremarono e non riuscirono più a tenerla in piedi.
Lynton non riusciva più a vedere suo fratello, ma riusciva a percepire la sua rabbia e sapeva che la stava manifestando attraverso quel mostro. Anche lui sentiva un’ombra dentro di lui, ma era un’ombra pavida e impaurita e non avrebbe fatto del male a nessuno, forse… mentre quella di suo fratello, attaccava.
«Hyram! No!»
Non servì a nulla gridare. Il falco afferrò la zia Ella per una gamba, la sollevò e la scaraventò nella bocca del camino. Tizzoni ardenti schizzarono ovunque e non ci volle molto perché prendesse a fuoco qualcosa. L’ombra si ritirò, e Lynton potè finalmente vedere suo fratello, che guardava il corpo inerme della zia nel camino. Continuava a tremare, e pareva che non si rendesse conto di quello che aveva appena fatto. Nel frattempo, le fiamme crescevano.
«Hyram!» strillò Lynton avvicinandosi, «Sta andando a fuoco!»
Suo fratellò si girò, guardandolo confuso. Poi la lucidità parve tornare in lui, e mettendo avanti le mani disse:
«Fermo! Non venire qui!»
Ma Lynton non lo ascoltò, non capiva perché avrebbe dovuto stare lontano da suo fratello. Lo capì quando l’ombra del falco apparve di nuovo e lo minacciò fendendo l’aria con giganteschi artigli. Lui, istintivamente, si rannicchiò col capo tra le braccia, e sperò di sfuggire così a quella violenza. Udì un colpo sordo, e quando risollevò il viso l’ombra era scomparsa e Hyram era contro il muro, come se ci fosse stato spinto con forza. Il fuoco aveva cominciato a prendere i mobili, la casa si riempiva di fumo e le ombre si facevano più grandi. Il falco tornò, giganteggiando più di prima, arrivando a far scricchiolare il tetto.
«Scappa!» gridò Hyram, «Va’ via, Lynton… sono solo un assassino!»
Lynton capì che non poteva più avvicinarsi a suo fratello, e che se fosse rimasto lì ancora un minuto sarebbe morto soffocato, bruciato o straziato da artigli d’ombra. Spalancò la porta e fuggì. Cominciò a correre nella notte, senza sentire il freddo, senza temere il buio. Si fermò dopo quelli che gli parvero pochi secondi, e si girò verso casa della zia. Era picollissima, un piccolo falò lontano una lega. Come aveva fatto a percorrere quella distanza in così poco tempo? Si sedette per riprendere fiato e stette a guardare le fiamme che consumavano quella casa. Gli sembrò, a un certo punto di vedere qualcosa sollevarsi dalle fiamme, come una grossa creatura che sfuggiva dal fuoco per rifugiarsi nella notte.
Si rialzò e prese la direzione opposta. Anche lì si vedevano luci, le piccole luci di una città lontana. Ormai che sua zia non c’era più, sarebbe dovuto tornare a Urwine.

Racconto di Leonardo Iacono.