«Che diamine sta succedendo!?», chiesi.

Eravamo tutti e cinque nelle rovine ora, avevo inviato Tagdana a richiamare ßashir dalla superficie: l’uomo rimase parecchio tempo fisso sulla sua stessa immagine riflessa nella teca. Le sue arti da cacciatore avevano confermato che quelle cinque creature simili a noi – anzi, nostri cloni – erano vive, in uno stato di coma sospeso. Quanto alla loro mente, le mie ricerche telepatiche avevano dato scarsi risultati: erano come intontiti da un lungo sonno profondo; potevo sentirli sognare, ma c’era sempre un muro che m’impediva di guardare oltre. Sentivo solo i rumori dei loro sogni, composti dal suono secco del metallo contro il metallo e dal dolce e pauroso rumore del fuoco.

«Ho un brutto presentimento al riguardo», disse ßashir.

«Tu dici? Ecco Delia: hai controllato tutti i corridoi?»

«Sì, Odalf, non ci sono cristalli Xrodinger o altre stranezze illusorie. Solo una porta, giù per quelle scale: sembra resistere alla Marea.»

Io e ßashir incrociammo i pensieri: «La tua forma di Orango potrebbe essere d’aiuto.»

Il cacciatore, forte del suo addestramento estremo, avrebbe saputo senza dubbio scardinare quella porta. Percepii il nervosismo di ßashir entrare nel corridoio da dov’era uscita Delia. Mi voltai verso la Kamsit: «Fatto?»

Tagdana sbuffò – non era solito farlo, l’unica volta che l’avevo vista con quel cruccio dietro la sua maschera era all’ultima ubriacatura di Gentru a Xira. «Vorrei che avessimo il Magister con noi, catalogare tutte queste tecnologie è già un lavoraccio, ma farlo di fronte a quelle teche con quegli esseri che ti guardano…»

«Dai priorità alle teche e alle tecnologie della stanza, torneremo qui con Gentru appena si riprenderà dall’ultimo viaggio. Spero solo che stia bene.» Avevamo dovuto lasciare Gentru ad un Duentu poco distante dalle rovine, aveva strafatto caricandosi di troppi vegetali e minerali interessanti durante il viaggio e c’era svenuto tra le braccia.

«Sono sicuro che se fosse qui litighereste, Tag.» Era Dar-uj a parlare, era ritornato dall’esplorazione dell’esterno della grotta. «Ci sono tracce di creature, questo è sicuro, e ho trovato trappole o calappi ma così vetusti che è stato facile evitarli; chiunque abbia creato questa struttura è scomparso da diverso tempo.» Diede una rapida occhiata al suo simile nella teca. «Sicuro, capo, che dobbiamo lasciarli così?»

«Non li uccideremo, se è questo che pensi.»

«Potrebbero essere un trucco, l’ennesima trappola dei creatori di questo posto.»

«Peccato”, ci interruppe Tagdana, «che i creatori sembrano avere il tocco e la firma dei Venerabili. Ma non erano stati tutti uccisi attorno al Grande Buio? Qui c’è qualcosa che non torna.»

Ero abituato alle stranezze temporali di Nibiru, una volta da bambino mi persi per ore e quando ritrovai i miei genitori tra le acque vicino ad Aldebaran erano passati tre mesi. Ma questo era diverso: sentivo la Marea rarefatta in quelle grotte e le tecnologie, così antiche e recenti insieme, non coincidevano affatto.

Sentimmo tutti un boato. «Diamine, ßashir! Dovevi aspettarmi.»

«Capo, non ho fatto nulla», mi comunicò telepaticamente. «La porta sembra essere esplosa da sola. Forse una contromisura.»

«Stai bene?», chiesi. La mia mente continuava a tornare all’idea che dei Venerabili avessero costruito questo tempio e tutto ciò non mi piaceva.

Dopo un minuto di silenzio, ßashir ricomparve: «È tutto buio lì sotto, le scale vanno verso il basso. Io da solo non ci entro.»

«Sono d’accordo, non voglio perdere altri membri della spedizione!»