Yago non abbaiava mai senza motivo.

Quattro anni di costante esercizio a scavare buche e uccidere i piccioni del vicino dovevano pur essere valsi a qualcosa, se non altro ad acuire in lui il sesto senso canino, quel miscuglio indefinibile di sensibilità e perspicacia che fa di un border collie una creatura capace di vedere prima.

Più in là.

 

Quel giorno Yago non aveva smesso un secondo di abbaiare.

Aveva abbaiato al ragazzo mingherlino delle spedizioni, la cui unica colpa era stata quella di aver osato varcare, senza nemmeno essersi tolto il cappello, la linea Maginot della staccionata ridipinta di fresco.

Aveva abbaiato a Seamus che, come ogni mattina, aveva atteso sotto l’ombra dell’immenso salice che Jacob uscisse per raggiungere insieme la fermata dello scuolabus in fondo alla strada.

Aveva abbaiato – circostanza assolutamente inedita – all’arrivo del pick up scassato di Thelma, alla quale era solito dedicare minori attenzioni.

 

A rendere intollerabile il baccano, però, era la commistione tra i latrati e quello che sembrava il gigantesco ronzio di un nido di tafani.

La porta aperta, Ridley continuava ad andare avanti e indietro dalla sala d’ingresso del grande cottage verde, il trapano in mano, lo sguardo corrucciato. Bofonchiava una litania di suoni incomprensibili alla volta di quello che avrebbe dovuto essere un allineamento di fori nelle assi delle pareti di rivestimento, proprio sotto la campanella d’ottone appollaiata come un barbagianni accanto alla porta. Aveva preso una giornata libera dalla segheria per principiare di buon’ora a sbuffare e trascinare bobine di cavi e scatole, nella testa l’intenzione di togliersi dai piedi quell’incombenza prima di pranzo e poter così dedicare all’amaca la restante parte del giorno. Non vi era riuscito e quella che giudicava una personale disfatta lo aveva messo di ancora peggior umore. A ben guardare, avrebbe potuto considerare la cosa dall’angolatura opposta. Per lo meno, in questo modo a pranzo avrebbe avuto una ragione valida per non lasciarsi sfuggire una parola, come al suo solito. La compagnia non era delle più stimolanti, in effetti. Lasciare a metà un lavoro non era da lui, e questa volta non c’era da dargli torto. Il verificarsi di continui furti aveva gettato Beaver Creek in un fermento di cui neanche gli anziani del circolo avevano a memoria un termine di paragone. Girovagando per il paese era possibile vedere ovunque uomini intenti chi ad alzare staccionate, chi a stendere rosari luccicanti di filo spinato, chi a montare totem di videosorveglianza grandi come spaventapasseri. Tra le mura domestiche Ridley era poco più di un ectoplasma, al punto che preferiva stordirsi di straordinari pur di non trascorrere a casa un secondo oltre l’intervallo d’ordinanza compreso tra le tarde ore della notte e i primi chiarori dell’alba.

Attitudine, questa, per la quale sua moglie Elizabeth gli era già da tempo riconoscente.

Specie in quel giorno, nel quale c’era poco da stare allegri.

L’inverno ormai alle porte non c’entrava nulla.

Già trent’anni, sembra ieri.

 

La sala da pranzo era piena del fiato di Beth, intenta a sospirare, a rigovernare e a tranquillizzare sua madre Thelma del fatto che non avesse alcun bisogno di aiuto.

L’urlo che esplose richiamò l’attenzione di tutti: proveniva dal corridoio, dove le donne si erano subito precipitate, le mani di Elizabeth tremanti di sapone e di paura. Una faccia di alabastro si materializzò dalle viscere del corridoio.

 

“Eccheccazzo”, ruggì il signor Cooper, accorrendo, il trapano ancora in mano.

“Ti sei fatto male, amore? Stai tremando come una foglia, vieni qui”, la signora Cooper stringeva il figlio in un abbraccio per rassicurarlo.

Jacob era irriconoscibile.

La vocina stridula prese tutti in contropiede, facendoli voltare nella direzione opposta.

“Lo hai visto?”

Era Marlene, la sorella minore di Jacob, che il verso agghiacciante del fratello aveva richiamato dal proprio lettuccio, dove era stata accompagnata a pranzo finito, non prima di aver baciato tutti i presenti sulla guancia, “Mamma guarda, è bianco come un fantasma, ne hai visto uno?” chiocciava dispettosa alla volta del manichino del fratello, mentre seguitava a saltellargli attorno.

Due erano le specialità della peste: intrufolarsi nei discorsi dei grandi e fare dispetti a chiunque le venisse a tiro. Dava il meglio di sé, però, con Jacob, dalle cui labbra continuava a fuoriuscire per tutta risposta un torrente di sillabe prive di senso.

“Io…io…”

“Che succede Jacob? Calmati, sei al sicuro! La nonna ti tiene le mani, ecco, adesso starai subito meglio” Thelma aveva raggiunto il nipote con la rapidità che l’età non le avrebbe consentito. Si sforzava di apparire distesa, di sorridere, di intercettare gli occhi vitrei del nipote che continuavano a fissare il nulla.

“Te l’ho detto anche ieri! Otto gradini, sono solo otto stramaledettissimi gradini! Una femminuccia: ecco quello che sei!”

“Chiudi la bocca, Ridley!”, Beth bruciò il marito con uno sguardo.

“Si è fissato con questa cosa, ne farà una malattia. Si è mai sentito nulla di più stupido? E che diamine! Sono solo pochi gradini!”, ribatté l’uomo.

 

“Che ne dici se io e te adesso ce ne torniamo nella tua cameretta?”, Thelma afferrò la manina della nipote nella sua, un po’ per allontanarla dall’atmosfera pesante che si respirava nella sala da pranzo, un po’ perché avvertiva anche lei il bisogno di prendere aria.

“Adesso possiamo abbassare queste braccia, ti va? Non così rigide, non c’è nulla da cui difendersi. Sei al sicuro. Ecco, così”, Beth aveva ormai affinato una strategia d’intervento ad hoc per quelle occasioni.

Si ripetevano spesso, da qualche tempo.

 

“Quante volte dobbiamo ripetertelo, Jacob? Ormai sei un ometto…” il volto all’altezza di quello del figlio, Beth provò a coprire con la propria voce carezzevole la furia dell’uomo che continuava a sbraitare di là dal corridoio. Alla sua voce si sommavano gli ululati di Yago, in sinistra armonia.

“Io… io… io lì sotto non ci torno!”, il volto cereo, con un filo di voce Jacob riuscì a pronunciare la prima frase di senso compiuto. I suoi occhi erano sbarrati, impermeabili alla luce, come quelli di un cieco.

“La tua è una reazione normalissima, piccolo mio. A nessuno piace il buio e lì sotto ce n’è tanto, ma vedi…”, provò a conciliare Beth.

“C’è qualcosa… sembrava non finisse mai”, sibilò il bambino interrompendola, e prese a tremare più forte.

Fu allora che Beth si voltò in direzione della madre, che li aveva raggiunti.

Le due donne si guardarono per un lungo istante.

Non dissero nulla.

 

Il soffitto ribassato e la totale assenza di finestre avevano fatto di quel minuscolo spazio rettangolare – non più grande di una cripta – un magazzino indispensabile nell’economia di una casa nella quale negli ultimi dieci anni, per fare posto a due bambini, di spazio a disposizione ne era rimasto ben poco. Nulla da meravigliarsi che l’odore acre di muffa che vi regnava avesse fatto di quell’antro altrimenti inservibile l’incubatore perfetto delle paure dei più piccini. In effetti, giorno o notte che fosse, non un solo filo di luce naturale si insinuava tra quelle mura, e questo alimentava nelle giovani menti le fantasticherie più sfrenate sulle orrende creature che potevano trovarvi rifugio. Un luogo pericoloso, a guardia del quale qualcuno aveva pensato bene di posizionare una porticina. Ridley l’aveva trovata un po’ malconcia, così l’aveva resa esteticamente più gradevole ricoprendone la superficie, rosa dal tempo, con pannelli di noce identici a quelli che rivestivano il resto della casa. Macchie di muffa e gallerie di tarli erano però rimaste visibili sul lato interno.

Quello che rimane in ombra e che nessuno vede.

 

“Vattele a prendere tu quelle stupidissime viti, la prossima volta!”, il ruggito di Jacob aveva rotto il silenzio con una veemenza fino a poco prima impensabile.

“Ti sembra questo il modo di rivolgerti a tuo padre? Chiedi subito scusa, o quanto è vero Dio…!”, Ridley afferrò il figlio per le ascelle sollevandolo da terra e prese a scuoterlo, le mascelle contratte.

“Smettila Ridley, così non risolvi niente! Lo sai che tuo figlio ha paura del buio…”, si lascò sfuggire di bocca Telma.

“Non ti ci mettere anche tu! Una cosa semplice, gli ho chiesto! Non l’ho mica mandato sulla luna!”

“Forse, se tu avessi fatto spostare l’interruttore in cima alle scale…” insinuò spazientita la moglie.

“Le case vecchie hanno impianti vecchi. Ristrutturare con quali soldi?”

“Ma quale ristrutturare! Ti sembra giusto che per avere un filo di luce sia necessario scendere le scale nel buio più totale?”

“Si tratta solo della prima rampa, l’interruttore è proprio di fronte”, si giustificò l’uomo.

“Tu proprio non vuoi capire, Ridley”

“Sei tu che non vuoi capire, Beth! Un rammollito, ecco quello che ne ha fatto! Mai una volta che mi ascolti! Mai! Anche adesso che ti dico che non c’è nulla lì sotto di cui aver paura! NULLA!”, le latrò contro l’uomo, faccia contro faccia.

“Non ricominciare con questa storia”, adesso Beth aveva decisamente perso le staffe, “Come puoi dire questo di mia madre? Non ha mai preteso nulla, ha vissuto con quanto ha messo da parte lavorando in quella dannata fabbrica di liquori. Non l’ha scelto mica lei di rovinarsi la vita dietro a sua sorella… E, per dirla tutta, esagerazione o no, neanch’io voglio che mio figlio scenda più lì sotto”

Ridley chiuse gli occhi e tirò un sospiro.

“È morto, Beth. Da trent’anni. La casa non c’entra nulla”

 

La litigata tra Ridley e Beth era proseguita sottovoce in sala da pranzo, dove erano rimasti soli.

Nella camera al primo piano, Thelma accarezzava il viso del nipote, il cui respiro cadenzato segnalava l’approssimarsi del sonno, o per lo meno di una condizione a esso prossima. È vero, negli ultimi mesi aveva forse esagerato con le premure: il fatto è che non riusciva a impedirsi di prendere sul serio le paure del ragazzo. Erano le sue paure. In quella casa avvertiva ogni volta sulla pelle il pizzicore di un disagio di cui non sapeva capacitarsi, un’inquietudine senza nome che riaffiorava da un passato che avrebbe dovuto rimanere sepolto, nel profondo della più profonda delle cripte.

Ma era nelle settimane che avevano preceduto il triste anniversario di oggi che il presagio di una minaccia incombente le si era andato precisando in fondo alla gola. Aveva preferito non rispondere nulla alle provocazioni di Ridley. Era al corrente del giudizio tagliente del genero, che le addossava tutta la colpa per la fragilità del figlio. Sono spugne, i ragazzi, assorbono ogni particella dell’ambiente nel quale vengono a trovarsi, amava ripeterle alle spalle. Lei non poteva farci niente, essere protettiva nei confronti di Jacob e Marlene rientrava nella sua natura, ma le insinuazioni di Ridley erano assurde. Il fatto è che lui era lo stronzo di sempre. Adesso poi si era persino spinto al punto da insinuare che l’ipersensibilità del figlio, che era andata peggiorando di anno in anno fino ad assumere contorni a suo dire patologici, subisse brusche impennate in concomitanza con le visite della nonna…

Lei cercava di dare il minor disturbo possibile.

Da trent’anni viveva da sola in due stanze in affitto, orgogliosa della propria autonomia. Trent’anni, da quando aveva lasciato quella casa.

La sua casa.

 

La casa dove era sempre vissuta, e dove era rimasta all’indomani del matrimonio di sua sorella. Da dove era fuggita a gambe levate quando Grace era stata ricoverata d’urgenza in un ospedale psichiatrico, dove sarebbe morta da lì a pochi mesi. Da allora Thelma tornava di rado nella casa nella quale Beth aveva preso a vivere con la famiglia, quello stretto indispensabile a scongiurare che a Jacob e Marlene volasse di mente di avere una nonna, che dimenticassero il suo volto.

Che sopraggiungesse il buio.

Si era trattato sempre di brevi visite, mai che Thelma avesse accettato di rimanere per la notte. Mai che glielo avessero proposto. Aveva guardato con preoccupazione ai continui litigi tra sua figlia e Ridley: tacere le era sembrata l’unica possibilità, l’ultima cosa che avrebbe voluto era essere tirata in mezzo in una guerra al rallentatore che prima o poi sarebbe precipitata verso lo scontro finale. Tutto quello che poteva fare era di affrettarsi a togliere in fretta le tende prima che facesse notte, adducendo l’unica scusa che le suonasse credibile alle orecchie: quella della vista da ottantenne che, al sopraggiungere dell’oscurità, le impediva di guidare.

Non fa distinguere oggetti e persone, il buio.

 

Trasecolò a un pensiero fugace, il corpo attraversato da un brivido gelato. Si domandò in cuor suo che peso potessero avere le parole smozzicate di Jacob: impossibile vederlo, il buio, fin troppo facile scorgervi dentro qualcosa.

O qualcuno.

Telma non si era sentita di fargli domande, aveva temuto lui potesse impazzire.

Quel che era certo è che, data l’indole impressionabile di Jacob, sin dalla sua nascita avevano accuratamente evitato di fare il minimo cenno alla disgrazia in presenza del ragazzo.

 

L’ufficialità aveva richiesto dieci anni di attesa. Un tempo sospeso ma necessario, nel corso del quale la morte di Jason aveva avuto modo di farsi strada nella consapevolezza della famiglia, del quartiere, del paese. Dieci anni: tanti ne servono perché possa essere formulata una dichiarazione di morte presunta.

Tanti ne erano occorsi al marito di Grace per morire.

 

Si era volatilizzato nel nulla una mattina di brina, non aveva più fatto ritorno a casa.

Polizia e giornali avevano indagato a lungo, battuto ogni strada possibile, interrogato decine e decine di persone, poi lentamente i riflettori si erano spenti e tutto si era concluso in un nulla di fatto. Il corpo non era mai stato ritrovato, le circostanze della scomparsa mai chiarite. Grace si era trovata ufficialmente vedova non ancora cinquantenne, senza che lei e Jason fossero mai riusciti ad avere dei figli. Era toccato a Thelma, che un marito non lo aveva mai avuto, assistere impotente al tracollo psichico della sorella. A Thelma, che Grace aveva tanto insistito perché restasse a vivere con loro anche quando lei e Jason si erano sposati. Anche quando Thelma si era trovata a dovere tirar su da sola Beth. Aveva provato in tutti i modi a tirare fuori sua sorella da quel buio, a farle sentire il conforto della propria vicinanza. Non era servito a nulla: in pochi mesi si era reso necessario trasferire Grace in un ospedale psichiatrico, dove lei sarebbe morta di lì a pochi mesi.

Erano rimaste sole, Thelma e sua figlia, in casa.

Quella casa.

 

Di Jason aveva dimenticato da tempo le fattezze; l’unica cosa che ricordasse era quel vezzo ridicolo. Che senso avesse suonare la campanella d’ottone all’ingresso, se lo era sempre domandata senza giungere una risposta.

Non mancava mai di suonarla, prima di uscire.

Quella campana era ancora lì.

 

Non esiste che una strada, per superare una paura: tuffarcisi dentro.

Ridley aveva fatto il diavolo a quattro perché Jacob scendesse di nuovo. A suo dire sarebbe bastato scendere due o tre gradini, attendere un istante, giusto il tempo che gli occhi si abituassero al buio, poi come per magia il profilo dell’interruttore sarebbe apparso davanti a lui, insieme alla sagoma dei gradini restanti. Erano solo otto, due rampe da quattro, cosa avrebbero detto i suoi compagni di scuola se l’avessero saputo? Beth, però, era stata irremovibile: mandare giù quel povero ragazzo mentre era ancora traumatizzato non era cosa da farsi.

Non a lui.

Non di nuovo.

 

A Beth non restava che il disgusto per l’atteggiamento di Ridley: come poteva non rendersi conto che il terrore di Jacob per gli spazi chiusi era pari solo a quello di poter esser preso in giro?

Che lei ricordasse, Jacob aveva sempre avuto terrore del buio.

Con una sola eccezione.

Era accaduto quella notte che Ridley era tornato a casa completamente ubriaco; lei singhiozzava nel buio quando lui si era ficcato nel letto senza dire una parola. A un tratto aveva udito dei cigolii provenire dal piano di sotto. Lui russava come una segheria. Senza fare rumore, si era messa addosso una vestaglia ed era scesa di sotto. Non avere acceso la luce si era rivelata una scelta provvidenziale: dalle scale aveva scorto, nel buio più totale, un’ombra sgusciare furtiva fuori dalla porticina che dava sul magazzino, imboccare le scale, dirigersi verso di lei, passarle accanto senza vederla.

Da allora, Jacob non aveva più manifestato episodi di sonnambulismo.

 

L’indomani mattina Yago continuava ad abbaiare, ma Ridley aveva altro per la testa. Beth e Jacob erano al mercato, questo significava che la casa era tutta per lui. Si fece coraggio, nulla di meglio della luce abbagliante del mattino per scendere lì sotto a dare un’occhiata: avrebbe dimostrato a suo figlio una volta per tutte che lui era un fifone, che non vi era alcuna ragione di aver paura.

 

Perbacco, che buio. E sì che la sua vista non era più quella di una volta. Meglio attendere qualche secondo, giusto uno o due minuti. Perché non aveva preso con sé una torcia? Era il caso di risalire, tanto nessuno lo aveva visto. Il cono di luce lambiva l’oscurità invano. Ridley procedeva lento, senza volere prese a contare i gradini. Era arrivato al quarto, questo significava che l’interruttore era proprio davanti al suo naso.

Curioso che non lo vedesse.

Ancora più curioso che la torcia non riuscisse a illuminarlo.

 

Eppure doveva essere lì, da qualche parte. Ma per quanto la sua mano si protendesse nello spazio antistante, gli riusciva di afferrare solo il vuoto.

Era turbato quando risalì. Corse a telefonare a un amico elettricista, gli chiese di venire prima possibile. Solo un sopralluogo, ci sarebbero voluti pochi minuti, con l’occasione avrebbe potuto installare un interruttore ausiliario vicino alla porta.

Meglio se fosse venuto quel giorno stesso.

 

La torcia del tecnico si arrese dove quella di Ridley aveva capitolato, nello sbigottimento generale. Ma stavolta avvenne qualcosa di ancor più sorprendente. Accadde che, nel modo di sporgersi in avanti, all’uomo cadessero dal taschino gli occhiali.

Accadde che, a dispetto della ristrettezza degli spazi, alla caduta degli occhiali non facesse seguito alcun tonfo.

Quanto era grande, quel buio?

 

Yago continuava ad abbaiare, e finalmente a ragione.

In un lampo la notizia era passata di bocca in bocca, si era diffusa in tutto il paese, e subito erano fioccate da ogni dove orde di curiosi che, con ogni scusa e senza alcuna vergogna, cercavano di introdursi in casa, di avvicinarsi alla porticina, di fotografare il grande buio – così era stato battezzato quell’insolito fenomeno. C’era chi si era portato dietro strumentazioni sofisticatissime, chi si affidava ad amuleti dai poteri prodigiosi. Persino il sindaco aveva bussato alla porta, seguito a stretto giro da un sacerdote, Bibbia in mano: c’era di sicuro lo zampino del diavolo, dietro il grande buio. Fu poi la volta di giornalisti e reporter, tutti fecero le loro brave interviste, constatarono la singolarità della faccenda, si dileguarono con una certa fretta.

Rammentarono che la casa era proprio la stessa.

 

È proprio il caso di dire che nessuno riuscì a fare luce nella vicenda, nessuno riuscì a posare il piede sul suolo lunare dell’ottavo gradino. Le intrepide estremità dei ficcanaso finirono tutte indistintamente per penzolare attonite su di un vuoto insondabile, faccia a faccia con il grande buio. Tornarono tutti indietro sbigottiti, pallidi come cenci.

 

Quel che ognuno tenne per sé è che non era poi così buio, il grande buio. A ognuno che vi si fosse introdotto, infatti, venne offerta l’occasione di guardarvi dentro come si fa con una sfera magica: ad attenderlo, ciascuno aveva trovato chi le sembianze di una vecchia fiamma, chi quelle di un socio in affari, chi ancora il profilo accigliato di un genitore.

Nello specchio nero del buio, poterono tutti toccare con mano le proprie paure.

 

Jacob vi aveva visto riflesso il terrore che i suoi divorziassero, Ridley quello che Beth scoprisse che da sei mesi aveva un’amante, e che la donna era incinta. Persino Beth, che una sera era scesa di nascosto, quella di non essere stata una brava madre, una brava figlia e una brava moglie.

 

Dire di non aver visto assolutamente nulla lì sotto aveva significato per tutti la stessa cosa: far propria la logica dello struzzo. Una bugia a metà, detta a fin di bene, per non doversi esporre, perché così era più comodo.

Pazienza se l’ultimo gradino della scala, quello nessuno riuscisse davvero a vederlo.

 

L’unica a non aver scorto nulla nel grande buio era stata Thelma, per il semplice fatto che lì sotto non aveva voluto nemmeno affacciarsi. Fino a quando non aveva deciso di sfidarlo. Sfidare il grande buio, smettere di vivere sospesa.

Come un piede che fiuti l’ultimo gradino.

 

Continuare a fuggire non avrebbe avuto senso. Poteva farlo solo lei, se avesse indugiato non ne avrebbe più avuta la forza. In fondo quella da cui si era tenuta alla larga per trent’anni era un po’ anche casa sua. E quel buio, che fagocitava persone e relazioni senza riuscire a digerirle del tutto, era soprattutto il suo.

 

 

Mentre varcava la porticina, Thelma rivisse ogni istante di quella mattina.

 

Uno.

Jason aveva una sorta di culto per quell’oggetto, di cui nessuno conosceva la provenienza, né le peripezie che l’avevano condotto in casa.

 

Due.

Non aveva mai spiegato alla moglie le ragioni di quello strano rito, dell’ossessione con cui faceva ogni volta suonare la campanella all’ingresso, un attimo prima di uscire di casa. Immancabilmente.

 

Tre.

Un’ossessione che rasentava il maniacale.

E che quel giorno non aveva avuto luogo.

 

Quattro.

Metà percorso. Eccolo l’interruttore. Adesso puoi premerlo, Thelma. Fare luce.

 

Quel giorno, colpa di una polmonite trascurata, non si era recata al lavoro alla fabbrica di liquori. Quel giorno, i loro colpi di tosse si erano rincorsi.

Come due amanti avvinghiati.

 

Buio. Silenzio. Perché non parli, Thelma?

Grazie al cielo: ecco i gradini, i passi che riprendono, è tempo di continuare a scendere.

 

Cinque.

Quel giorno, interrogata, Grace aveva riferito agli inquirenti di avere udito i rintocchi della campanella all’ingresso, poco prima che il marito uscisse.

 

Sei.

Quel giorno, Grace aveva mentito.

Per paura.

Era mai uscito di casa, Jason?

 

Sette.

Anche quella volta Percy, il bulldog, non aveva smesso di abbaiare per giorni, presagio della disgrazia che stava per compiersi.

 

Il dolore l’aveva distrutta: perse il bambino.

Guardare negli occhi sua sorella Grace le era impossibile.

Tanto valeva sprofondare.

 

Thelma non ritornò di sopra.

Fu allora che Yago smise di abbaiare.

 

Non abbaiava mai senza un motivo.

Racconto di Dario Filardo