Heracles fece mulinare la lama avanti a sé.
Con due passi precisi attorno al busto del minotauro passò oltre la sua guardia. Le braccia possenti del mostro lo sfiorarono senza colpirlo.
Sferrò un rapido colpo e la lunga spada incise in profondità il fianco della creatura, strappandole un muggito.
Dal fondo della sala brillò un lampo di luce e un’altra delle frecce magiche di Arimedea centrò la spalla del minotauro, sfrigolando a contatto con la carne.
Con la coda dell’occhio Heracles scorse la cugina in fondo alla sala incoccare un altro dardo.
Il mostro menò una goffa zampata, Heracles si abbassò per evitarla e fece un passo indietro.
Binorides sbucò da dietro all’unica colonna che la bestia non aveva distrutto, con un ruggito caricò il minotauro alle spalle e lo spinse avanti con un colpo di scudo. La gemma azzurra incastonata al centro dell’umbone scintillava di pura energia.
Il minotauro barcollò in avanti, Heracles gli scaricò un affondo dritto sotto lo sterno. La lama dello spadone si tuffò nella carne morbida del plesso solare.
La creatura tentò di muggire, ma il suono uscì dalla bocca strozzato e accompagnato da una cascata di icore scuro.
I suoi occhi bovini lo fissarono, con una mano deforme tentò di afferrare l’arma.
Heracles la torse e spinse ancora, la lama penetrò fino a metà nella carne.
In un lampo, la punta aguzza della spada di Binorides si piantò nel collo del mostro, la cui bocca si spalancò.
Un sibilo strozzato gli salì dalla gola.
Tentò di avanzare, ma le gambe cedettero al primo passo. Crollò a terra, Heracles tirò indietro la spada e allontanò da sé la carcassa con il piede.
«Bel colpo.»
«Come sempre.» Binorides sorrise, scoprendo i denti candidi. «Non esiste mucca troppo cresciuta che possa batterci.»
Arimedea, aggraziata come una cerva, percorse a lunghi passi la stanza illuminata dalla bassa luce delle lanterne e si affiancò ai cugini. Volse lo sguardo sulla carcassa e ci sputò sopra.
«Orrido abominio.» Storse le labbra perfette in una smorfia di disgusto.
Binorides si inginocchiò accanto al cadavere e lo punzecchiò con la punta della spada, incidendo la pelle con cura. Un rivolo di denso icore scuro uscì dalla ferita e Binorides sorrise ancora, con una luce divertita negli occhi.
Con la perizia e la dedizione di un incisore, allargò pian piano il taglio con la punta della spada.
Heracles sogghignò e si appoggiò lo spadone alla spalla. Si rivolse al busto di pietra che faceva da architrave al portale davanti a loro, bloccato da una lastra di granito.
«Bene, stregone! Anche questa prova è superata! Preparati, la tua fine è vicina.»
«Che palle con ‘sta storia dello stregone.» Le labbra del busto rimasero immobili, ma nella stanza risuonò una voce scocciata. «Lasciate armi e armature e girate i tacchi, e se vi levate dalle palle in fretta forse non vi scanno.»
Heracles scoccò al busto uno sguardo sprezzante. «Prega gli dei di salvarti l’anima, verme. Le tue minacce sono vuote, i tuoi trucchi non possono sconfiggerci.»
«Sai quanti altri m’hanno detto ‘sta cacata?»
«Gli altri non erano noi.» Arimedea si mise accanto a Heracles. La sua voce era melodiosa come le note di un’arpa. «Gli altri non avevano ucciso Ptenderas il centimane, né ridotto in cenere le mura di Sargon.»
«Finirete comunque assieme a loro a concimarmi l’orto.»
Binorides rise e smise di incidere la carcassa. «Crede di farci paura.»
Heracles sputò a terra e indicò il cadavere del minotauro con la spada.
«Se questa orrida vacca è tutto quello che hai da gettarci contro, sei spacciato.»
«Si dà il caso che quella vacca del cazzo mi sia costata trentanove fottuti zefiri. Ma tranquilli, ho diverse altre sorprese per voi.» La lastra di pietra che ostruiva il portale si sollevò con fragore.
Heracles fece un cenno con la testa e vi passò sotto per primo, i due cugini lo seguirono con le armi pronte.
«Restate all’erta. Quel verme non deve sfuggirci.» La voce del colosso biondo era venata di rancore. Heracles strinse la presa sullo spadone.
La stanza in cui entrarono era ampia, quadrata, priva di colonne. Una serie di piastrelle tutte uguali, raffiguranti demoni dalle bocche contratte nello sforzo di soffiare, ricopriva le pareti e il pavimento.
Lasciavano libero solo un piccolo spazio all’ingresso, come un pianerottolo.
Dall’altro capo della stanza, una lastra di pietra liscia, identica a quella che avevano appena superato, bloccava l’uscita. Sopra di lei si trovava l’immancabile busto di pietra dello stregone.
La luce calda che illuminava la stanza proveniva una gemma delle dimensioni di un pugno, brillante come una fiamma, appesa al soffitto da una catena.
Uno schianto alle loro spalle li fece voltare di scatto. La lastra di pietra era piombata giù e aveva tagliato la loro via di fuga.
«Demoni!» Binorides ringhiò e picchiò con lo scudo sulla pietra. L’impatto del metallo riverberò per la sala. «Sono stanco dei trucchi di questo stregone!»
«Rimani calmo, cugino.» Heracles gli rivolse un sorriso da cui traspariva un rancore velenoso. «Non saremmo comunque tornati indietro, no?»
Arimedea guardò spostò lo sguardo da un cugino all’altro. «Rimanere calmi è la cosa più importante. Artaserse e Cliope sono morti qui perché non sono stati attenti. Vediamo di non imitarli.»
Heracles annuì e si voltò, grattandosi il mento.
Strizzò gli occhi per osservare meglio la gemma luminosa.
«Quella pietra…» Fece un passo avanti e si schermò gli occhi con la mano «…io la conosco.»
Arimedea lo trattenne per il braccio prima che potesse calpestare una delle piastrelle. La indicò con lo sguardo.
Al centro della bocca dipinta c’era un foro di forma allungata. Heracles la guardò con sguardo interrogativo, ma Arimedea stava fissando la gemma, con la bocca semiaperta. «È il Cuore di Lisandros.» La semidea gli strinse il bicipite, incredula.
«Già, è passato un po’ di tempo fa a farmi visita.» L’improvviso suono della voce dello stregone attirò lo sguardo dei tre sul busto sopra l’uscita. «Si portava dietro un bello spiedo, tutto ingioiellato. C’ho fatto una fortuna a rivenderlo.»
«Come hai osato? La lama di Lisandros era stata forgiata dagli dei!» Binorides si affiancò ad Heracles. Sotto la fitta barba nera, la sua bocca era contratta in un ringhio d’ira, la mano che stringeva la spada era serrata sull’impugnatura al punto che si vedevano le vene attorno ai tendini.
«Appunto. Quasi mille zefiri.»
«Arimedea.» Heracles parlò con tono secco e indicò la pietra magica.
La cugina scambiò con lui un rapido sguardo, annuì e infilò l’arco a tracolla.
Binorides si inginocchiò e si mise lo scudo sopra il capo, reggendolo con entrambe le mani, e lei vi balzò sopra.
Fu immediatamente scagliata in alto, volò sopra le piastrelle e si appese, agile come un gatto, alla catena che sorreggeva la gemma.
Un sibilo e uno schiocco risuonarono nella stanza, come una frustata.
La catena divenne all’istante polvere nelle mani di Arimedea e la guerriera precipitò con la pietra. La luce si abbassò di colpo.
«No!» I due cugini urlarono all’unisono.
La ragazza toccò terra e dalle piastrelle su cui era caduta spuntarono di scatto lance dalle lame affilate come rasoi.
Ad Arimedea sfuggì un grido di stupore. Si torse su sé stessa per evitarle con una prontezza tale che le lance la graffiarono appena. L’acciaio di una le scavò un solco sulla spalla, un’altra le incise un polpaccio. Il sangue le macchiò la pelle abbronzata.
Un centinaio di sibili esplosero assieme, le bocche sulle pareti vomitarono in un istante decine di frecce.
Binorides scattò in avanti verso la cugina e brandì lo scudo sulla testa, in orizzontale. La gemma azzurra incastonata al centro fece sgorgare una cascata di luce verso il basso. Heracles gli corse subito dietro e si nascose sotto il cono di protezione dell’incantesimo, le lance andarono in frantumi a contatto con la barriera.
Appena le fu vicino, afferrò Arimedea per un braccio e la tirò a sé. Il suo arco emise un sibilo quando passò sotto la barriera, ma non si distrusse.
La protezione magica infranse gli steli di legno come rametti, crepitando all’impatto con la raffica di dardi.
Il loro frastuono era assordante, esplodevano a contatto con l’energia prodotta dallo scudo e scagliavano schegge di legno in aria.
«Stai bene?» Heracles guardò il taglio sulla spalla
«È una ferita da niente.» La ragazza scrollò la chioma dorata e mostrò la pietra arancione, che irraggiava luce come un piccolo sole. «Scotta, dannazione.»
Accucciati accanto a Binorides, corsero verso l’uscita.
Si ripararono nell’incavo del portale, Binorides abbassò lo scudo e la barriera incantata svanì.
Heracles si inginocchiò, infilò le dita sotto la lastra che bloccava la strada e tirò verso l’alto. La prima spinta fu vana, il semidio fece forza con le spalle e le gambe e riprovò.
Riuscì ad alzare il granito di mezzo metro e ci appoggiò sotto una spalla.
«Forza!»
Binorides e Arimedea passarono sotto la lastra col suo spadone in mano. Heracles scivolò dentro, la pietra piombò sul pavimento e zittì il rumore delle frecce.
La stanza era buia, non molto grande. L’unica luce era quella prodotta dal Cuore di Lisandros, ma era molto più fievole di prima.
Faceva freddo. Un gelo umido permeava l’aria, si avvolgeva attorno alla carne e si appiccicava sulla pelle. Al centro del pavimento c’era un foro largo quanto un cranio.
Arimedea alzò il Cuore, la luce delineò degli strani simboli che si sviluppavano attorno al buco.
La semidea avanzò verso il centro della stanza. «Questo freddo non mi piace. Mi ricorda Kaltaras.»
In fondo, una lastra di pietra come le altre faceva da porta. Sopra di essa, si intravedeva appena un busto di marmo.
«A Kaltaras era diverso. Lì è bastato l’incantesimo di Cliope per disperdere il gelo.» Binorides le andò accanto, lo sguardo che saettava tra le ombre. «Perché il Cuore brilla così poco?»
«Non lo so.» Arimedea lo portò vicino al viso e lo osservò con preoccupazione. Spostò lo sguardo sulle scritte incise attorno al foro e avvicinò la pietra per fare luce.
«Attenti a quel buco, se ne esce qualcosa ammazzatelo.» Heracles appoggiò la sua lama sulla spalla e si diresse verso il portale. Si accovacciò e cercò con le dita un punto dove fosse possibile fare leva, ma la pietra si infilava in profondità nel pavimento, molto più di quella precedente.
Un sussurro che proveniva da sopra alla sua testa gli fece rizzare i capelli sulla nuca.
Si voltò di scatto. I suoi cugini guardavano verso la chiave di volta, pronti alla lotta.
Alzò lo sguardo, e vide il solito busto dello stregone.
Dagli occhi, le narici e dalla bocca aperta, scendeva un fumo pallido venato di azzurro, che si avvitava in aria al rimo dei sussurri dello stregone e gettava una luce spettrale sui suoi lineamenti magri.
La sostanza calò velocemente verso il capo di Heracles, che si tuffò in avanti per evitarla, rotolando vicino ai suoi compagni.
I sussurri del negromante si fecero più forti. Parlava in una lingua schioccante, incomprensibile.
«Fa più freddo.» Le parole di Heracles furono accompagnate da uno sbuffo di condensa. I muri stessi parevano sussurrare, con la coda dell’occhio vide qualcosa che scivolava tra i mattoni.
Solo il cuore di Lisandros emetteva calore, ma la sua luce si era fatta ancora meno intensa, illuminava debolmente l’area attorno ai tre cugini.
Il fumo azzurrino aveva raggiunto terra, scivolava tra le pietre come se fosse liquido. Era tanto denso da non riuscire a guardarci attraverso.
«Verme, che diavoleria è questa?» Heracles strinse l’impugnatura dello spadone.
Lo stregone finì la cantilena. «Fottiti.»
Arimedea porse ad Heracles il Cuore e si tolse l’arco da tracolla. Tese la corda e in un istante una freccia color bronzo si materializzò tra le sue dita. «Questa è l’ultima volta che insulti i figli di Eior, cane.»
In un battito di ciglia, la semidea la mandò a schiantarsi contro l’effige del negromante. Il basamento su cui poggiava si sbriciolò e il busto cadde a terra con un verso gracchiante. L’impatto col suolo lo ridusse in mille pezzi.
Il fumo si agitò come una serpe e si gettò nel foro di scatto, sibilando.
Heracles strinse tra le dita il cuore, e la gemma magica gli trasmise il suo calore. Se lo sentì avvampare in mano, e vide le scritte attorno al buco illuminarsi di una luce spettrale. «Forza, cugini. Per Cliope e Artaserse.» Rivolse loro un sorriso forzato.
Entrambi i cugini ricambiarono con sorrisi altrettanto tesi. «Per tutti i nostri fratelli che quel negromante ha ucciso.»
Con uno sfrigolio, i simboli iniziarono a secernere un fumo chiaro e denso, come quello evocato dallo stregone.
Il freddo divenne ancora più intenso, acuto come la lama di un pugnale. Con mille aghi si infilò tra le ossa dei tre cugini.
Delle dita affusolate, cianotiche, affiorarono dal buco. Le seguì un polso sottile, bianco, un braccio scheletrico.
Binorides ruggì e si scagliò contro la cosa che stava emergendo. Arimedea incoccò un altro dardo.
La creatura che si era issata fuori era un incubo. I lunghi capelli gelati parevano aghi, si scossero come per un tremito e scoprirono il viso deforme. Un unico occhio, come di vetro, spostato sul lato sinistro del volto, sotto di esso una bocca che affiorava solo per metà dalla pelle pallida.
Binorides fendette il collo della creatura nell’esatto momento in cui sua cugina scoccava la freccia.
Sia la lama che il proiettile non fecero altro che attraversare l’essere senza scalfirlo.
Dal foro emerse il petto della creatura. Al posto del seno spuntavano due volti umani, avvizziti e con gli occhi sbarrati, le bocche aperte come a voler urlare, i denti scoperti.
Heracles deglutì.
Iniziarono a strisciare fuori crani di animali, fatti di fumo. Un orso, una talpa mezza mangiata, il corno e parte del muso di un cervo.
Binorides tagliò ancora sull’occhio dello spettro, ma la lama non fu più efficace di prima. La creatura gli serrò le dita gelide attorno al polso.
Il semidio barbuto urlò.
Heracles corse verso la creatura, levò la spada sopra il capo con una mano sola.
Binorides mollò la presa sulla corta spada, il volto contratto dal dolore. L’arto iniziava a diventare cianotico e a coprirsi di brina.
Colpì con lo scudo il braccio che lo stringeva, ma il metallo dorato gli passò attraverso come fosse nebbia.
La mano spettrale non smise di stringere.
L’incubo sibilò dalla sua bocca deforme e i suoi capelli si mossero come di vita propria, calarono su Binorides come una marea di spilli ghiacciati e gli sommersero il cranio.
Il colpo della spada di Heracles passò nella schiena del mostro senza incontrare resistenza.
La creatura adesso era uscita del tutto dal suo minuscolo pozzo. Accanto a lei il gelo era tanto intenso che l’alito diventava nebbia.
Il confortante tepore nella sua mano, l’unico calore rimasto in quella stana, fece venire a Heracles un’intuizione. Premette sulla schiena della creatura il Cuore di Lisandros, spinse per infilarglielo nelle carni.
Lo spettro lanciò un ululato, un cervo fatto di brina gli uscì dal fianco e caricò Heracles.
L’impatto gli spremette il fiato fuori dai polmoni e l’animale lo schiantò contro il muro, allontanandolo dal mostro.
La gemma gli scivolò dalle dita e cadde sul pavimento. Aveva gli occhi annebbiati, come se il gelo li avesse appannati. Piantò alla cieca la spada dentro al cervo, lo sentì sibilare e poi disfarsi un una cascata di neve.
Quando riuscì a recuperare la vista, la creatura spetrale strisciava verso Arimedea sul suo torso fatto di carcasse congelate, i lunghi capelli sfioravano il terreno.
Dal corpo del mostro solo una sottile striscia di fumo restava collegata al foro nel pavimento.
Vide Arimedea balzare sul muro e poi lanciarsi sopra la creatura, diretta alla gemma magica che ora brillava incandescente.
Un lampo gli attraversò la mente. Il pozzo.
Il petto gli gemette quando si alzò. Strinse i denti.
Arimedea atterrò poco distante dalla pietra, ma dal torso dello spettro si erano già staccati due lupi. I loro corpi erano scheletrici, ma si muovevano rapidi come fulmini.
La raggiunsero prima che potesse chiudere le dita sul Cuore, uno le balzò alla gola, l’altro le azzannò il polpaccio ferito.
Arimedea rotolò e colpì il primo con un pugno, ma il secondo le saltò sul ventre. Le zanne squarciarono la tunica e la carne, gli intestini eruppero dalla ferita, come anguille viscide di sangue.
«No!»
Heracles lanciò la spada al lupo che le azzannava la gola, l’acciaio lo trapassò senza trovare resistenza. Il corpo si sbriciolò all’istante.
Il secondo gli si lanciò addosso, con le fauci ancora lorde del sangue di sua cugina.
Fece mezzo passo indietro e gli schiantò la testa tra i pugni con tutta la forza che aveva. La creatura divenne polvere di ghiaccio.
Il mostro davanti a lui emise un ringhio basso, che sembrava quasi un sussurro.
Heracles saltò sul Cuore di Lisandros. Le sue mani intorpidite afferrarono la pietra e la strinsero forte per un lungo attimo. Il suo calore gli pulsò nelle vene.
Ai margini del suo campo visivo scorse il foro, e la lanciò.
Lo spettro si lanciò per afferrarla, ma la gemma magica gli scivolò tra le dita gelide.
Heracles sorrise.
Una vampa di fuoco eruttò dal buco e lo spettro si dissolse in un istante, come foschia al sole. Per qualche attimo, la stanza rimase silenziosa come una tomba, pervasa da una nebbia sottile.
Si alzò.
Arimedea era riversa nel suo sangue, gli occhi fissi sul soffitto. I suoi capelli chiari erano lordi di sangue, la sua gola una voragine rossa da cui sporgevano le cartilagini.
Si inginocchiò accanto a lei e le tastò il collo. Il cuore aveva già smesso di battere.
Non potè fare altro che chiuderle gli occhi, sfiorandola appena con le dita. Il suo corpo così radioso era freddo, tanto freddo.
Binorides era morto in ginocchio, la bocca spalancata in un’espressione di terrore che in vent’anni Heracles non gli aveva mai visto sul viso. Gli appoggiò una mano sulla spalla e sentì che la carne iniziava a sciogliersi come neve sotto le sue dita. Le ritrasse e fece un passo indietro.
Gli occhi gli bruciavano.
«No…» Non riuscì a impedire alle lacrime di scendere. Il silenzio gli pesava addosso più di qualunque cosa avesse mai portato sulle spalle. Gli serrava la gola come un cappio il pensiero che quel silenzio, d’ora in poi, avrebbe sostituito la voce dei suoi cugini, e il gelo che sentiva nel cuore i loro sorrisi.
La porta spezzò quella quiete tremenda sollevandosi con un suono ruvido, e facendo entrare una luce chiara come quella del sole.
«Vi vendicherò.» Heracles passò la mano sul viso e raccolse la sua spada da terra. «Ve lo giuro.»
L’uomo che si trovò davanti era vecchio. Ancora imponente, anche se più basso di lui di una spanna, ma vecchio. Borse sotto gli occhi, rughe attorno alla bocca e sguardo stanco.
Vestiva una tunica scura, alla cintura aveva una daga dall’elsa ingioiellata. La lama che stringeva nel pugno era sottile come un giunco.
La lastra si chiuse alle spalle di Heracles.
Fece un passo avanti e partì con una finta, la sua mossa preferita. Almeno in cento erano morti sotto quel colpo.
Tirò un fendente in obliquo, dal basso verso l’alto, mirando al ginocchio. Quando vide l’uomo dirigersi rapido a parare cambiò bersaglio con fluidità e salì alla gola.
Cento e più cadaveri avevano fatto di quel colpo puro automatismo, un’azione naturale come respirare, veloce come un lampo.
Il vecchio schivò con naturalezza, si allontanò con un mezzo passo indietro.
Heracles stese le braccia di scatto e fece schizzare in avanti la punta.
Altri cinquanta erano morti per l’errore di aver pensato che una schivata di busto sarebbe bastata a fregarlo.
L’affondo andò a vuoto, spostato dalla lama sottile del vecchio.
L’avversario spinse verso il basso e la spada di Heracles cozzò contro il pavimento.
Un dolore acuto lo trafisse alla spalla. La punta della spada del vecchio era penetrata appena sotto lo spallaccio, così veloce che non l’aveva nemmeno vista.
Heracles strinse i denti e ruotò su sé stesso, ignorando il dolore.
Scaricò un violento colpo orizzontale per tranciare a metà il vecchio.
Quello si abbassò sotto la spazzata e torse la spada. L’acciaio si scavò la via d’uscita nella carne del semidio e gli strappò un ringhio.
Lo spadaccino si trovava esattamente sotto le sue braccia, si era rannicchiato per schivare il suo colpo.
Heracles lasciò al spada e si gettò per afferrarlo, con un ruggito. Gli avrebbe spezzato le ossa come rametti.
Scorse con la coda dell’occhio un baluginio che aveva notato prima, di sfuggita, alla cintura del vecchio.
Solo che ora non era più nella cintura, ma nel suo pugno.
Attraverso la sfera perlacea, Arrigo vide la daga di Febo, con il suo gioiello scintillante sull’elsa, piantarsi sotto il mento dell’energumeno.
Lo spadaccino, accucciato sotto di lui, aveva spinto con tanta forza che ora la punta acuminata sporgeva dalla sommità del cranio, tra i ricci dorati che si macchiavano di sangue.
A quella vista, Arrigo si sentì un po’ più felice.
Aveva letto una frase che Adimante il Vecchio aveva rivolto al suo protetto, il re di Stesi, quando questi era appena salito sul trono.
“Compiere la vendetta non dà più gioia che mordere un boccone di cenere.”
Eppure, vendicarsi a lui dava piacere. Non molto in realtà, ma gli scaldava un poco il cuore.
La vendetta non gli avrebbe ridato suo figlio, sicuro com’è sicuro che il sole sorge ogni mattina, ma lo faceva stare meglio.
Guardò con attenzione Febo che iniziava a segare la testa del semidio. Attraverso la sfera tutte le immagini sembravano più pallide della realtà.
«Pa’?» La voce di Filippo veniva da dietro le sue spalle.
Arrigo avvicinò la bocca alla placchetta metallica traforata che stava alla base della sfera. «Febo, quando hai fatto con lui recupera le armi degli altri.»
Si voltò verso il figlio. «Cosa c’è?»
«I cosi hanno trovato altri due che vogliono entrare.» Il ragazzo si grattò la mascella, coperta da una rada barba.
«Embè?»
«Che faccio con la stanza del coso-toro?»
Arrigo si alzò dal suo scranno girevole e fece qualche passo nella stanza, illuminata dalle gemme color del sole incastonate nel lampadario.
I suoi occhi si posarono sulla nicchia dove aveva messo la lapide di Giacomo. La accarezzò come se fosse la testa del bambino.
Solo sette anni.
Si guardò la mano. Stava dimagrendo, a furia di leggere libri e non lavorare più.
Non ci vuole poi molto, da contadino a stregone. Basta un figlio morto.
Deglutì un boccone amaro.
«Tu e i tuoi fratelli pulite la stanza del minotauro. Dì a Maria ed Elena di andare a raccattare le ferraglie da Febo.»
«Ma i due…?» Filippo aveva un’espressione confusa.
«Faccio io. Vai.»
Si sedette di nuovo sullo scranno e spostò l’attenzione sulla testa ventisette, all’ingresso sud-ovest. Ne erano entrati altri due, uno barbuto e muscoloso, i capelli color rame, l’altro piccolo e bruno, avvolto nel suo mantello scuro.
Tutti uguali.
Avevano tutti lo stesso sguardo bramoso che aveva visto anche in Anfionis, quando aveva spezzato il collo a suo figlio, sette anni prima.
Li chiamano eroi, ma sono tutti uguali, stessa stirpe. Tutti come lui. Tutti assassini.
Le loro facce gli ricordavano il momento in cui aveva frantumato il cranio di quel bastardo con la sua zappa.
Gli ricordavano il corpicino del suo Giacomo, cadere come un bambolotto per terra. L’urlo di sua moglie.
Gli ricordavano l’ultimo sguardo di un bambino di sette anni, con l’unica colpa di aver rovesciato del vino addosso ad un ospite. Uno che chiamavano eroe.
Allungò la mano sinistra sul tavolo, verso il grimorio di Eich Pi El. La copertina di pelle ebbe un tremito al suo tocco.
Le armi dei nuovi arrivati scintillavano al loro fianco, incastonate di cristalli e pietre preziose, le loro bisacce sembravano belle gonfie. Avrebbero fruttato bene quanto i loro fratelli.
Si ricomincia.
Sul volto gli si aprì una smorfia che poteva passare pe un sorriso.
–
Racconto di Luca Vitali.
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