Michele aveva l’aspetto di un vecchio curvo sulla sella, le mani grinzose strette alle redini. Un fagotto di vecchie ossa stanche in un mantello nero.
Dovevano averlo scelto per quello.
Tre.
Li contò senza soffermarsi sui particolari. Pensò alla lancia del tizio a destra, alle asce degli altri due, e basta. Poco importava chi le brandiva.
«Scendi, vecchio. Dacci la roba», berciò quello con la lancia.
Quale prendere per primo?
Sciaguattare di scarpe nella fanga della strada. Si avvicinarono.
Il lanciere gli tolse ogni dubbio, sventolandogli l’arma sotto il naso, come se potesse fargli paura. Una mezza lancia piuttosto corta, per la verità.
La mano di Michele guizzò come una serpe, afferrò l’asta e la strattonò. La gola flaccida del brigante barcollò avanti.
L’altra mano fu una zanna. Niente veleno, solo un dente, una spanna di misericordia d’acciaio.
«Sglarghh!» Una seconda bocca, rossa, si aprì in mezzo alla trachea del lardoso lanciere, a vomitare sangue e cartilagine.
Mani tozze si strinsero, disperate, sull’asta della lancia. Mani vecchie gliela strapparono comunque.
Michele tolse il piede dalla staffa sinistra, spazzò il fianco del cavallo con l’asta della lancia e centrò la mano dell’altro bandito.
«Orclamedonna!»
Saltò giù a destra del cavallo, l’allungo della gamba gli morse le ossa.
Puttana infame!
«Pezzodimmerda!» Il ringhio da illetterato del terzo brigante annunciò il suo ingresso in scena. L’ascia fendette l’aria.
Michele, rallentato dal dolore, barcollò indietro. Il destriero restò immobile come un sasso.
Seconda accettata. Il vecchio frappose la lancia e lasciò che l’uomo l’agganciasse con la testa dell’ascia. Lasciò andare l’arma e lo strattone dell’avversario andò a vuoto. L’uomo barcollò un passo avanti, sbilanciato.
Michele gli si fece addosso, piantò una coltellata nel fianco.
«Aaah!»
Strappo. Carico sul piede arretrato, affondo al collo.
Il brigante gli si irrigidì sotto le dita, la misericordia scavò un tunnel nella carotide.
Michele strappò di nuovo e lo spinse via. Il brigante cadde in ginocchio, la mano allo sbrego che cercava di fermare il sangue.
Michele lo lasciò perdere.
L’ultimo aggirò il cavallo.
«Vecchiaccio di merda.»
Tra le mani non aveva una scure da spaccalegna come l’altro, ma un’Ascia da guerra,. Testa con spina sul dorso, acciaio sbeccato, collaudato col sangue.
La schiena e il culo di Michele dolevano come se avesse aghi nelle ossa. Strinse i denti. Non poteva permettersi mosse di coltello, contro uno così.
La ragnatela di rughe attorno ai suoi occhi di ghiaccio s’increspò.
L’uomo fece un ruggito da battaglia, ma solo mezzo passo in avanti, una falciata con l’ascia troppo corta di una spanna. Voleva costringerlo a tradirsi.
Secondo colpo, mazzata da decapitazione, puro impeto orizzontale.
Michele si piegò per passarci sotto. La schiena gli gridò un vaffanculo, lui le rispose con una muta bestemmia.
Incespicò indietro e si aggrappò al fianco della sella, il destriero ancora lì a fare la roccia. Le dita trovano un’elsa, solcata da vene di metallo nero. Lasciò che gli pungessero i palmi con le loro forme irregolari.
Sguainò e parò il colpo d’ascia al busto in un unico movimento fluido. La vibrazione dell’acciaio sul legno gli riverberò nei muscoli. Vecchi, ma ancora capaci.
Una torsione di polso, la spadona guadagnò gradi sull’ascia avversaria, schiacciandola verso il basso e lasciando il petto dell’avversario indifeso.
Affondo.
Le sentì come se la spada fosse parte del suo corpo. Stoffa, pelle, grasso, carne, costola, pelle, stoffa, aria.
Gli occhi di ghiaccio di Michele trapassarono quelli sporchi del bandito, come la spadona nera aveva trapassato il suo petto.
La lama iniziò il suo basso gorgoglio, il sangue sfrigolò.
Il negromante si lasciò scappare un sorriso, il suo volto una ragnatela di rughe frastagliate, come vetri rotti.
Il bandito emise un vagito acuto, strozzato non appena partorito.
La pelle divenne cartapecora, i muscoli borse flaccide. La linfa rossa scorse lungo le vene di quella spada nera, fin dentro l’elsa.
Michele la strappò dalla mummia d’uomo e aspettò che la gemma si coagulasse in fondo al pomo. Una perla di sangue grossa come una noce.
Scura, solcata di striature marroni e nerastre.
Fanculo a tutti i diavoli.
Fece una smorfia e la tirò tra le betulle che costeggiavano la strada. Sputò a terra.
Fanculo anche a me. Di questi tempi non si trova sangue buono manco nei cavalieri. Che mi aspettavo da ‘sti straccioni?
Rimontò a cavallo mollando solo un paio di porconi. Speronò i fianchi e il sasso riprese il trotto.
C’è rimasto qualcuno che valga la pena bersi, in ‘sto posto di merda?
Non si poteva proprio definire un posto di merda.
Michele gettò un’occhiata alle case. Tetti in paglia, in legno, quelle grosse addirittura in tegole. Muri regolari, ben incatramati. La via fangosa che passava per le colline s’era asciugata da un miglio, quella che il cavallo calpestava adesso aveva pure i sassi.
Col clack! Clack! Clack! degli zoccoli sui ciottoli, la figura avvolta nel mantello nero tagliava a metà il vuoto della strada.
Dove cazzo stanno tutti?
C’erano, c’erano. Occhi acquosi dietro alle imposte delle finestre, se li sentiva addosso.
Colse oltre il bordo del mantello una banda di gambette magre che sgattaiolavano in un vicoletto.
Bene, allora. Che stiano pure zitti.
Condusse il cavallo al palo dall’altra parte della piazza e alzò la testa verso il sole che andava calando. La mezza era già passata, ma di campane nemmeno l’eco.
Fece un fischio. Per risposta, scalpiccii timidi da dentro la locanda.
Sbuffò e prese a sfoderare la sua ferraglia. Bisacce, spadona, spada sottile. Orco boia se pesavano. Si gettò il spalla le borse.
La vecchiaia l’è una brutta bestia, specie quando non sei abituato ad averla.
Si aspettava di dover sfondare a calci quella porta del cazzo, oramai, ma fu deluso dal cigolio dei cardini.
Un ragazzetto sui quattordici si fece avanti sul portico. Occhi spenti adocchiarono le lame.
«Il cavallo, messere…»
«Nella stalla, e svelto.»
Lo superò senza degnarlo d’altro. Dentro, atmosfera accogliente e capannelli di gente ai tavoli.
Il caldo e l’odore dello stufato gli si appiccicarono addosso, gli scesero fin nei polmoni.
«Una camera e un tavolo», abbaiò alla locandiera, tutta poppe e ciccia.
«Va d’là.» Indicò con un mestolo un tavolino nell’angolo e cercò di scrutare sotto le falde del cappuccio.
Michele ringhiò un “grazie” e la piantò lì. Gli stivali fecero cigolare le assi del pavimento, il passo svelto attirò sguardi di contadini e zotici attaccati al boccale.
Un po’ troppo presto per venire a sgavazzare.
Un paio di giovani, gli stessi occhi vuoti del garzone e le stesse guance grasse della locandiera, gli rivolsero arie di chi vuol fare il duro.
Come se già non ne avessi pieni i coglioni.
Michele mollò la sua roba accanto al tavolo e tolse il mantello nella sua mossa preferita, quella dello scansastronzi.
Svolazzo di tabarro, brillare del medaglione sul petto, tintinnare della catena. Tutti zitti, tutti fuori dalle palle. Non ci si avvicina a rompere il cazzo a un negromante.
Diede la consueta tirata con la sinistra al teschio d’argento. La collana fatta di ossicini di metallo si tese, la luce del focolare la colorò di riflessi arancioni.
Sguardi su di lui, cosa solita. I bisbigli pure, i sibili delle maldicenze e delle beghe coi rianimatori di cadaveri.
Pagavano tutti, tanto, prima o poi. Chi per parlare con la mamma morta, chi per una bella scacciamorte.
Lasciò andare il pendente. Il rubino incastonato tra i denti del teschio gli accarezzò la mano e mandò un brivido di ricordi dritto al suo cervello.
Non voglio andare! Papà! Papà aiuto!
Si alzarono. Uno, due, dieci. Tutti. Cosa insolita.
La faccenda gli puzzava di merda, e molto. Ma con quelle vecchie ossa e una spada, avrebbe fatto fatica a cavarsela.
«Signore, voi… l’è minga che siete un negromante?» Il portavoce della marmaglia aveva gli occhi che puntavano in due direzioni diverse. Tolse il berretto che copriva quella sua testa a uovo.
Michele batté il petto con due dita, a indicare il medaglione.
«Ah, ehm, e… siete un negromante di spada?»
Gli occhi del vecchio rotearono nelle orbite. Scosse la testa e li posò sul profilo delle armi. La mano si scarmigliò i capelli che un tempo erano stati biondi.
Testa a uovo deglutì. Tentò un sorriso. «E… e quel rubino dice… siete di un ordine speciale?»
Michele grugnì.
«Sì.» La voce era come pietra che gratta su pietra. «L’ordine dei benedetti cazzacci miei. Che volete? Manco ho mangiato, ancora.»
«Te l’avevo detto, l’è vecio», mormorò qualcuno.
Vaccagare.
Sibili zittirono il commento.
«Noi abbiamo… avremmo, ecco, bisogno del vostro aiuto. Al cimitero.»
La ragnatela di rughe di Michele s’incrinò in un sorriso. «E che genere di problema? Di quanti…»
«No, no.» Testa d’uovo agitò le mani. «Niente resurrezioni, messere. Ci si è annidato un mostro.»
Gli occhi di Michele fiammeggiarono di interesse.
«Un essere terribile!» La locandiera fece ondeggiare gli otri di ciccia che chiamava tette e si fece avanti. «Ha mangiato il signor curato in un boccone solo.»
«Aveva ganasce come tagliole, la pelliccia nera.»
«E la pelle d’uomo, ma mani come artigli.»
«E le zanne!»
«Ruggiva!»
«Coda di serpe!»
«Le corna!»
Michele alzò la mano, il gesto impose il mutismo alla folla. Puntò la cicciona con l’indice ossuto. «Tu. Descrivi.»
Il triplo mento della donna ballonzolò. «’l gh’aveva un crapon inscì!»
Mostrò le dimensioni allargando le braccia, mimando una testa che doveva essere grossa come il suo ventre.
«Poi?»
«Occhi di diavolo, messere. E la pelliccia nera e ispida come un capron.» Si pulì le mani sul grembiule. «E le zanne…»
«La coda di serpente c’era?»
Fece segno di no. «Me paria pù quela d’on cavallo.»
Gli ci volle un attimo a tradurre dal dialetto imbastardito.
Coda come quella di un cavallo, corpo umano, pelliccia, zanne.
I sorrisi si sprecavano sul volto del negromante, quel giorno. «Siete nei cazzi. Quella è una chimera.»
Bastò il nome della bestia a far indietreggiare la marmaglia. Le mani corsero a segnarsi, a fare gli scongiuri. Corna, strizzate di maroni, palpate al ferro.
«E una chimera necrofaga, visto che sta attorno al camposanto. Una bella violazione della legge della negromanzia.»
Gli occhi di testa d’uovo brillarono. «Quindi l’ammazzerete?»
«Dipende. La paga?»
Più della chimera, la pecunia da versare raffreddò gli animi.
«M-ma se è contro le leggi della negromanzia, voi non dovreste…»
Michele lo spense con un’occhiata. «Certo, se voi formaste una milizia e veniste a darmi man forte. Ma ve lo leggo addosso che non schioderete il culo, o sbaglio?»
Occhi abbassati e mormorii mesti confermarono che non sbagliava.
Come pensavo. Codardi, codardi senza eccezione.
Strinse il ciondolo.
Papà, salvami! Non voglio che mi portino via.
Vecchie ferite che gli urlavano in testa con la voce di una bambina. I villici avevano ragione, a fare gli eroi non si guadagna niente, solo la morte, o anche peggio. Peccato che l’avesse scoperto tardi.
«Quindi, la paga?»
«Eh, ma noi, ecco, veramente…» Testa d’uovo era il peggior diplomatico che Michele avesse mai avuto la sfiga di incontrare.
«Non avete i soldi?»
«Ne abbiamo, ma le tasse, le decime, le gabelle…»
«Sono tutti sinonimi di tassa, ammazzapidocchi», lo fulminò Michele. «Ma è il vostro giorno fortunato. Non voglio soldi.»
L’atmosfera si ravvivò in uno schiocco di dita. Come sempre, quando l’oro stava nel borsello, tutti erano felici.
«E allora cosa?»
Michele pregustò ancora un istante il momento in cui avrebbe spezzato loro l’ilarità e la pacatezza con due sole paroline.
«Un bambino.»
Infami figli di troia sifilitica.
Manco una smorfia avevano fatto. Solo un rapido “Ah”, seguito da “E che tipo di bambino?”.
A Michele veniva da ridere e da vomitare assieme.
Se non altro, almeno il sacrificio per l’incombente mezz’inverno l’aveva trovato. Guardò il cielo pallido fuori dalla finestra della sua camera.
L’estate oramai aveva fatto fagotto, e la luna decretata per la riunione alla roccaforte di Torrescura si avvicinava sempre più, l’ascia di un boia sul collo di un condannato.
Diede una profonda inspirata all’aria intrisa di miasmi alchemici della stanza. Sopra tutto, lo zolfo che incendia le narici, e copre gli altri odori.
Travasò il decotto nella fiasca di ceramica, stando bene attento a non versarne nemmeno una goccia fuori. Il liquido color smeraldo opaco reagì con un sibilo al contatto con l’ampolla.
Scese le scale con passo pesante. Quelle giunture vecchie gli avevano proprio rotto il cazzo. Acciacchi di qua, dolori di là, schiena che scrocchia, torcicollo. Il mondo era diventato un mosaico di dolorini e fastidi.
L’arte di manipolare la vita invecchia presto chi tesse i fili della morte.
Parole belle di un gran figlio di puttana. Il volto di Mastro Gaio riapparve dalle tenebre dei suoi ricordi, accompagnato dalla prima notte in cui lo aveva visto.
I passi sulle scale si tramutarono per un momento in quelli di un altro, su un ponte levatoio fradicio.
Il ricordo della pioggia battente che gli schiaffegiava il volto, la grande torre del castello di suo padre che ardeva come una fiaccola nella notte. Una bambina strillava.
Aurora.
«Tse ti il negromante?» Il berciare raschiante alla fine delle scale lo strappò dai suoi ricordi.
Michele batté la catenella con le dita in automatico. «Che vuoi?»
«Sono la milizia del villaggio. Par servirv.» Un figuro tutto barba ispida e arti nodosi stava a fare la guardia alla fine della scala.
«E te saresti?»
«Me ciamen Primo. Sono il taglialegna.» L’uomo accarezzò la testa della scure che portava alla cintola. «E sono l’unico che ‘l ga i bali di venirti ad aiutare.»
Michele lo superò. «E che me ne faccio di un vecchio con una scure?»
«Ho più coglioni del resto del paese.»
Su questo non ha tutti i torti.
Lo tallonò fino alle stalle, muto. Michele gli diede un’occhiata.
Era vecchio, quello sì, ma la sua utilità poteva averla. «Fammi fare il giro della zona.»
La chiesa era sul colle al margine del villaggio, un edificio basso, col campanile dal tetto sghembo. Accanto, il camposanto, e dietro ancora si vedevano le frasche della macchia di querce che si infittiva verso ovest.
Il posto perfetto per fare tana. Vecchie ossa da sgranocchiare e il sole che tramonta alle spalle.
Erano fermi a cento passi dalla chiesa, con il vento che tirava il mantello del negromante e arruffava quei rovi che Primo chiamava barba.
Il vecchio scrutava le ombre sotto agli alberi, come a voler carpire un movimento, un indizio. «Visto che ti accompagno, come milizia del paese…»
«Vuoi che rinunci al bambino.» Michele piantò gli occhi di ghiaccio nei suoi, due pozzi di carbone. «Se i tuoi compaesani ci tenevano, al marmocchio, alzavano il culo e venivano qui, non ti lasciavano solo.»
«Di loro me ne fotto. Quel ca me voli è che lasci stare il piccolo. Lui non ha fatto niente.»
Papà! Non voglio! Salvami!
Fece tacere la voce di Aurora. «Non mi interessa. Il mio prezzo è quello. Il bimbo verrà con me a Torrescura, e diventerà come me.»
Ghignò nel vedere i lineamenti di Primo contrarsi.
«Cos’è, pensavi che me lo sarei mangiato? O do l’impressione di essere uno che si scopa i mocciosi?»
«Dai l’impressione che sei un pezzo di merda. Solo quelli ci sono rimasti, qui.» Primo sputò per terra. «Ai tempi del mio babbo, di eroi veri ghe n’era ancora.»
«Ai tempi del tuo babbo ci saran stati gli ultimi stronzi. Se son morti loro e noi no, un motivo ci sarà.»
Le mani di Primo, che parevano radici di quercia, tanto erano storte e forti allo stesso tempo, si strinsero a pugno. Il suo tono, però, era calmo. «Gli eroi non muoiono mai.»
«Cazzate.» Ringhiò Michele. «Gli eroi muoiono proprio perché fanno gli eroi. Ti riempiono la testa, dal nobile al pezzente, che ci sono questi eroi che drizzano i torti e ammazzano i malvagi. Poi succede che i malvagi non sono idioti e gli eroi sì.»
Si voltò e piantò lì il vecchio, scendendo piano la china, a ogni falcata una bestemmia per il ginocchio e la sciatica.
Primo non demordeva. «Il compito dell’eroe l’è de sacrificarsi. Lottare per i giusti, senza paura della morte.»
Michele gracchiò una risataccia. «Senza paura della morte. Come piace, ‘sta frase di merda, a quelli che non sanno cos’è la morte.»
«E te pensi di conoscerla perché ci traffichi?» Primo accelerò e gli si piantò davanti. «Ho seppellito due mogli e sei figli, tutti in quel camposanto là.»
«E questo ti dà qualche diritto?» Come artigli, le dita di Michele ghermirono la tunica e strattonarono avanti il taglialegna con una forza che non avrebbe dovuto appartenergli. «Vuoi che mi commuova alla tua storiella? Quando il negromante picchia sull’uscio per portarti via il figlio, tu glielo lasci. Non fai l’eroe. Non ti fai ammazzare. Altrimenti, al resto della famiglia chi ci pensa?»
Prendi me! Prendi me, non mia sorella!
Lo mollò e fece un passo indietro. «Non ci sono più eroi, dici? Non ce ne sono mai stati. C’è solo chi vive e chi muore. Io faccio quello che faccio, e resto vivo. Se verrai con me stanotte, stai certo che non sarai un eroe.»
Il frusciare dell’erba sugli stivali lo accompagnò al ritorno verso la locanda, assieme all’ultimo calore del sole che andava a morire alle sue spalle, nella foresta.
L’elisir gli fermentava nei muscoli. Erano gonfi, grotteschi su quel corpo di vecchio.
Si lasciò condurre da Primo dentro il bosco. Il taglialegna teneva l’ascia come un professionista, non tanto dell’abbattere gli alberi quanto dell’abbattere persone. Passi silenziosi preferivano calpestare il terriccio che le foglie morte.
Passi esperti.
S’insinuarono nelle ombre sotto le fronde da nord. Il bosco era muto, come se stesse trattenendo il respiro.
Il profilo della chiesa sbucava a sprazzi tra le foglie.
Fetore di morte.
L’essenza di putrefazione che ammorbava l’aria si faceva più intensa a mano a mano che si avvicinavano al margine del camposanto.
Si appoggiarono al muretto di pietre e malta che ne tracciava il perimetro, accucciati. Michele soffocò un porcone. Anca e ginocchio erano tavole di legno trafitte da chiodi.
«Sentirà il nostro odore.»
Il negromante zittì Primo con un’occhiataccia. «La chimera non è un cazzo di animale. Sente solo due cose. Morte e sangue.»
Indicò quello che restava di un edificio in pietra, una specie di piccola cappella. «Cos’è quello?»
«Mi su minga nient. Era murato, prima che la bestia…»
«Ho capito.»
Michele si sporse per guardare meglio. Il piccolo fabbricato era sventrato su un lato, il buco era grande a sufficienza da far passare un uomo. Nel buio della voragine si intravedevano degli scalini.
Le cripte. Una chimera abituata al lusso.
Scesero scale vecchie, pericolanti come denti marci. Il veleno dell’elisir gli bruciava le vene, Michele sentiva di dover scattare. Serrò la mano sulla spada sottile, la sfoderò senza fare rumore.
Qualcosa scrocchiò dalle profondità della cripta. Scricchiolio acuto, ossa vecchie.
«Non vedo un cazzo.» Bisbigliò Primo.
«Oh, mo’ vedrai eccome.» Nelle tenebre della cripta quel bagliore sanguigno che strisciava sulle pareti attirava l’attenzione, stringeva le budella. Michele non ebbe bisogno di indicarglielo.
Primo deglutì.
Il negromante ghignò. Aveva quasi finito la merda di chimera necrofaga, ne avrebbe riempito volentieri un’altra ampolla. Sempre che si potesse fare volentieri una cosa simile.
Confusi con le altre ombre, sgattaiolarono verso la luce. Il tanfo di marcio degli escrementi di chimera li prese al naso. Stesso odore di un bagno di sangue, lasciato a frollare per giorni.
Pensava che Primo avrebbe dato di stomaco e si sarebbe attirato addosso la bestia, ma così non fu. Il legnaiolo aveva uno stomaco che rivelava più di quanto dovesse.
Mano ferma sull’ascia, stomaco ancora più fermo.
Michele iniziava ada vere la certezza che non avesse seppellito solo i familiari, quel Primo.
Il suo cuore bramava di pompare sangue alle braccia, di far scattare la spada. Affondare tagliare, smembrare.
Strinse i denti.
Cumuli di merda nera come la pece, striati da vene rosse di luce, pulsanti, facevano da letto alla creatura.
Proprio ben fatta. Tutte le parti ben salate al posto giusto.
Quella stronza però era troppo piccola. Testa ipertrofica, circondata da una criniera nera, braccia che culminavano in artigli da rapace. Si contorse nella tana, il corpo quasi umano scrocchiò. Non era più grande di un cavallo.
Quanto cazzo mangia?
La sua inquietudine fu rotta dal grido di Primo. «Rrrraaaahhhh!»
Il taglialegna alzò l’ascia sopra la testa e partì alla carica. La frittata era fatta.
Gli andò dietro, coi passi e col braccio, i bicipiti di un trentenne che chiamavano sangue sulle ossa di un ottantenne. Accettata da un lato, falciata dall’altro.
Se il coglione non avesse urlato avrebbero inchiodato la chimera a terra al primo colpo. Quella, invece, scartò indietro, e l’ascia le sfregiò solo il muso, un’accozzaglia di tratti ferini e umani.
Michele mirò all’occhio, il bulbo verdastro esplose in un rigurgito rosso scuro.
La bestia ringhiò di dolore e mollò una zampata orizzontale.
Un formicolio incandescente si spanse dal ginocchio e dall’anca del negromante, ma non lo rallentò. Si accucciò sotto il colpo, subito imitato da Primo.
Allungò la lama in una stoccata alla gola della chimera. L’acciaio si piantò tra le zanne grondanti di saliva.
Il cuore martellava sterno e costole, senza posa. Lo assordava.
La mano.
La mano non ne voleva sapere di muoversi, era come di pietra. Non la sentiva.
Michele inspirò, un conato di vomito gli si strozzò in gola. Una sola parola, come monito.
Intossicazione.
Lo sapevo! Cazzo fottuto.
Il braccio destro formicolava, la mano non voleva saperne di aprirsi. Troppo elisir, troppo sangue avvelenato. Il suo corpo non aveva l’età, avrebbe dovuto…
Il cuore, per un istante, smise di sovrastare ogni altro pensiero. La sua mente rilevò qualcosa che avrebbe dovuto notare prima. Troppo veleno nelle vene, troppa la furia di combattere lo avevano distratto.
C’era qualcosa che non andava, e lui ci stava immerso fino alle ginocchia.
Quel letto di merda luminescente era troppo grande. Troppo, per una sola chimera.
Non per due.
Avrebbe urlato, ma l’elisir gli contraeva persino i muscoli della bocca. Vide la zampata alle sue spalle con la coda dell’occhio.
Il petto eruttò una vampa di fuoco dritta nei polmoni.
Papà! Non mi lasciare! Non voglio andare!
Le mani di suo padre strette sulle spalle. Mani tozze di soldato, callose. Sulla barba ispida, lacrime che bruciavano. Michele le sentiva, bruciavano anche le sue.
Aurora strillava, la chioma corvina strappata dal vento, il braccio tirato dall’uomo in nero.
Prendi me!
Si divincolò dalla presa di suo padre.
Te? Cosa credi, bimbo, di far l’eroe?
Negli occhi di Aurora, però, l’eroe c’era. Un bambino di dieci anni, i capelli biondi come l’oro.
Michele!
L’urlo di suo padre, alle sue spalle, era sfocato dalla pioggia che batteva.
Fermo sul ponte levatoio, Michele scoprì l’avambraccio.
Non l’hai ancora fatto, il patto rosso, no? Ci vengo io con voi.
L’uomo in nero aveva riso. Un latrato roco, la risata di un avvoltoio, o di un lupo.
Te sei il primogenito. Sangue di tuo padre, erede del casato. Questa sorella…
Unghie di bambino scavarono nella carne, stille rosse tinsero il braccino pallido. Rosse come il rubino che adornava l’anello sulla sua manina. Regalo di Aurora.
Ecco il mio contratto.
Come respiri nel temporale, l’acqua le lavò via in un secondo. Michele piantò di nuovo le unghie, chiodi di fuoco gli attraversarono il braccio. Non si fermò.
Sotto il riso dell’uomo in nero, si scavò ancora nell’avambraccio, fino a che il sangue non zampillò fuori. Bruciava ed era freddo al tempo stesso.
La mano che ghermiva il polso di Aurora la lasciò andare, e afferrò il suo. Dita pallide solcarono il rosso.
Giocherai con la morte, la darai e la prenderai. Non importa a chi, bambini, donne o uomini. Sarai il male minore per gente che sputerà dove cammini. Odiato, temuto. Ti senti pronto, piccolo eroe?
Michele guardò un’ultima volta sua sorella, corsa tra le braccia del padre. Il barone Daniele di Malfossa la stringeva a sé, ma i suoi occhi pallidi non si schiodavano dal figlio.
Così non dovrà farlo lei.
Merda di chimera in faccia, luce pulsante di rosso schiacciata negli occhi.
Le immagini di quell’alba gli scomparvero davanti, confondendosi con le ombre della cripta.
In sottofondo, lo scroscio della pioggia si tramutò nel ringhio gorgogliante della seconda chimera.
Si voltò. Le costole lanciarono un grido, lui lo trattenne.
Davanti a lui, due gambe bene piantate.
«Ve chi, putèna! Ce l’ho io qualcosa per te!» Primo ruggiva, la spalla destra sbregata che buttava sangue sulla tunica. In mano, ancora l’ascia.
Fermo tra lui e la chimera, come a voler fare la guardia. Non sapeva che alla bestia bastava buttarlo a terra per sbranarli entrambi.
Le fauci schioccarono, pronte a colpire.
Il cuore di Michele batteva piano. Poco sangue, dunque poco sangue avvelenato.
La possibilità c’era, ma non era per nulla eroica. Strinse con la sinistra il ciondolo. Non era mai stato un eroe, per quanto ci avesse creduto da piccolo.
Fece leva contro il terreno e sferrò un calcio dritto alla schiena. Primo barcollò avanti, un grugnito di sorpresa come epitaffio.
La chimera non aspettava altro. Mezzo scatto avanti, e le fauci si chiusero sul costato del taglialegna. Zanne contro costole, scrocchi sordi.
Nemmeno Michele aspettava altro.
Rotolò nella merda, ignorò anca, ginocchio, costole. Potevano far male quanto volevano. Quello che stava per fare avrebbe fatto molto peggio.
Piantò la spada nella pelliccia, alla congiunzione delle spalle col collo. Vertebre deformi trattennero l’affondo, lui ci si buttò di peso.
Crock!
La lama sottile scese, liscia come l’olio. Michele torse e strappò. Midollo, sangue, cartilagini, una fontana di schifo gli fiottò sul volto.
La bestia crollò, il taglialegna morto stretto tra le fauci. L’altra era già morta, il cranio sfondato dall’ascia di Primo, il corpo affondato nel suo letto di merda.
Nel bagliore rosso sangue degli escrementi di chimera, Michele dovette scardinare a forza le dita della destra dalla spada.
Il petto bruciava, ma l’elisir coagulava il sangue. E poi, anche fosse morto, cosa sarebbe cambiato? Un bambino salvato dalle grinfie di un negromante? E per cosa, poi?
Gli venne da ridere.
Sulle sue labbra affiorò una frase che aveva ripetuto spesso, una vita prima. «Per lei. Così che non debba farlo lei.»
Per questo vivo ancora.
Michele sputò a terra.
Luridi vermi.
Il bambino aveva una manciata d’anni sulle spalle e lo sguardo sterile di chi è nato in un posto dove si aspetta solo di morire.
Neanche mezza lamentela. Non una protesta. Nessuna madre in lacrime, nessun padre che gli calava l’ascia sul cranio. Niente. Gliel’avevano dato bell’e pronto.
«Negromante.» Vomitò quella parola a mezza voce, il moccioso non diede a vedere di averlo sentito.
Un cappio gli legava le mani, i boccoli biondo sporco sobbalzavano a ogni passo.
Il fianco gli bruciava, azzannava la carne con denti roventi.
Si passò una mano tra i capelli, sotto al cappuccio. Un tempo erano stati biondi pure quelli, ma gli occhi non li aveva mai avuti spenti come quelli del marmocchio.
Respirare si faceva sempre più difficile.
Arrancarono fino a una radura nella vegetazione. Michele smontò da cavallo e incespicò, crollò in ginocchio sul pavimento di foglie.
Nessuna reazione. Il bambino manco lo guardava.
Potrebbe ammazzarmi anche lui. Potevano darmi due colpi, seccare ‘sto corpo da vecchio e liberarsi del problema, a costo di una vita o due.
Si tirò su.
Estrasse la lama nera dal fodero sulla sella. «Accendi il fuoco.»
Slegò il bambino con la segreta speranza di vederlo scappare. Tossì, che si accorgesse che di aria nei polmoni gliene restava poca.
Il piccolo perlustrò la radura, un fantasma di pelle e ossa, raccolse pietre e rametti, e tornò a fare il falò.
Michele lo guardava attonito. Mani vecchie, curve come artigli, presero la pietra e lustrarono il filo della spadona.
Acciarino contro la focaia, scintille sulla stoppa. Con gesti vuoti, il bambino fece scoppiettare le prime fiamme.
«Bravo.» La voce di Michele tirava gli ultimi. Con un cenno stanco gli fece segno di avvicinarsi. «Ora, bambino, devi fare una cosa importante.»
La vista diventava sempre più scura, il fianco non la smetteva di mordere.
«Come ti chiami?» Il vecchio parlò in un sussurro, non arrivò nemmeno agli alberi.
Il bimbo aprì la bocca per rispondere.
Affondo.
La lama aprì uno squarcio all’altezza del cuore, sfondando lo sterno. Grattò le costole, uscì dalla schiena.
Le labbra del ragazzino restarono aperte, senza esalare nemmeno un fiato. Solo gli occhi si animano, come se nella morte fossero, per la prima volta, vivi.
Si riempirono di lacrime, ma il corpo non lasciò andare nemmeno un singhiozzo.
Michele contò i battiti del suo cuore stanco.
Fanculo il sacrificio, non ce l’avrei fatta a tornare. Ne troverò un altro.
Cinquantaquattro, cinquantacinque, cinquantasei…
Il mondo ha bisogno di mostri, per far sorgere gli eroi. E a me tocca fare il mio lavoro.
Cinquantanove, sessanta.
La perla di sangue coagulata all’estremità del pomo era di un rosso immacolato, perfetto.
Il sorriso non riuscì a increspare le labbra di Michele. Forse, un tempo, sangue così puro ne aveva avuto pure lui. Prima che il bambino morisse e il mostro nascesse.
Inghiottì quel gioiello di vita strappata.
Scese giù a ridare vita a tessuti sula soglia della morte, a tendere la pelle, a tonificare le ossa. Muscoli giovani si tesero su un corpo rinato.
Scrocchi di cartilagini, sibilo muto di rughe stirate.
Michele crollò in ginocchio, vide le mani tornare lisce e dritte come quelle di un ventenne.
Inspirò aria stantia da polmoni nuovi.
Prese lo specchietto dalla bisaccia. Il volto di un bel giovane dagli occhi di ghiaccio gli ammiccò di rimando.
Esaminò la ferita al fianco.
Riaperta. Lo sapevo.
Trasse ago, filo e succo di ghiandola di orsolupo. Degnò il corpicino essiccato di un’ultima occhiata. Era ancora riconoscibile, nonostante tutto.
Magari qualcuno sarebbe venuto a cercarlo, per quello che aveva fatto.
Michele ci sperava, in fondo. Forse anche troppo.
Si rattoppò e ripartì, senza neanche degnarsi di coprirlo.

Racconto di Luca Vitali