Dietro lo schermo del televisore, il presentatore annuncia con pesante accento svedese: “al dottor Benigno Malpighi”, un applauso educato si alza dalla platea, “per il farmaco che ha sconfitto la morte”.

La mia versione più giovane si alza e sale sul palco a stringere la mano al presentatore, che le consegna un cofanetto con una medaglia dorata. Sopra, in rilievo, il profilo di Alfred Nobel.

Mimo con le labbra l’inizio del discorso: “ringrazio gli stimati i colleghi e la comunità scientifica tutta.  Faccio una smorfia e mi gratto le palle, «stimati colleghi…».

*Drin*, il suono del campanello mi fa sobbalzare. Urto il tavolino: il telecomando cade e interrompe la registrazione; la birra si rovescia a terra.

Bestemmio e rimetto in piedi la lattina, «cosa cazzo volete ancora?», attraverso in due passi il monolocale e afferro la scopa vicino alla porta. Apro, «con le vostre minacce mi ci pulisco il culo». Il pianerottolo è deserto, sul pavimento niente lettere. «Cos’è, uno scherzo?», esco e mi appoggio al corrimano delle scale, «non vi basta più rovinarmi la carriera?». Scuoto la scopa verso i piani inferiori, «venite fuori se avete il coraggio!». Niente. S’ciabatto verso il buio del mio appartamento, riappoggio la scopa alla parete e afferro l’anta della porta per chiuderla. Un braccio mi si infila attorno al collo e un ago mi infilza poco sotto l’orecchio sinistro, alla base della mandibola. Fa male, come se mi stesse iniettando del miele. Mi aggrappo al braccio per allentare la presa, ma è troppo forte e mi si annebbia la vista.

Una voce mi sussurra all’orecchio, «ti piace la tua medicina?».

Cado a peso morto, incapace di muovermi. Annaspo in cerca d’aria, ma i polmoni si rifiutano di espandersi. Sudo e tremo di freddo.

Un’ombra mi scavalca e si chiude la porta alle spalle.

La voce del televisore accompagna l’aggravarsi dei sintomi: “soprannominato dalla stampa Il Resurrezionista, Benigno Malpighi è stato radiato…”. Svengo.

 

Casa mia ritorna a fuoco sulle note del Telegiornale: “Decadenti in aumento in tutte le maggiori città italiane. Lombardia in zona rossa. Si raccomanda di evitare gli spostamenti tra centri abitati”.

Mi metto seduto e subito la testa mi gira. La pressione… Il collo mi fa male e mi formicolano le dita.

Il televisore prosegue in sottofondo: “dunque, dottor Pivetta, quali sono i sintomi?”.

“Innanzitutto vorrei rassicurare che il morso non è contagioso. Se non vi è stato iniettato l’intruglio di quel ciarlatano, non avrete problemi. In caso contrario… l’insorgenza varia: all’inizio noterete debolezza, vertigine e altri sintomi associati all’ipotensione. Da lì a qualche giorno, sentirete un formicolio all’estremità delle dita. Sono sempre le prime a staccarsi. Il corpo in questa fase si sta disidratando, quindi avrete la bocca asciutta e farete fatica a parlare”.

«Ba…gno», ho la lingua impastata e le fauci secche. Mi sollevo in piedi e mi trascino verso il locale di servizio. Un uomo stempiato, in canottiera, mi guarda dallo specchio del lavandino. Ha la barba sfatta e gli occhi infossati. Mi passo le dita su una guancia. Si vedono le vene.

Dopo almeno un mese, il vostro pallore aumenterà visibilmente, la cute perderà elasticità e i muscoli consistenza. In poche parole, sarà come imputridire vivi”.

“È terribile. Ed esiste una cura?”.

“Purtroppo nessuna terapia si è ancora rivelata efficace”.

«Questo», la mia voce è un gracidio indebolito, «perché i-il ciarlatano sei tu, collega», torno nell’altra stanza e prendo il cellulare. Sono le 11 e 37. Dal dolore mi sa che mi hanno iniettato la soluzione pura. «Dovrei avere almeno 7 ore», compongo il numero dell’università.

Suona libero. «Università degli Studi di Milano, facoltà di Medicina e Chirurgia».

«Ho bisogno dell’accesso al mio laboratorio».

«Dovete fare capo al docente di riferimento».

Ringhio, «sono io il docente».

«Matricola?».

Sorreggo il telefono tra l’orecchio e la spalla e prendo il tesserino dal borsello, «195870–LM9».

«Lei risulta licenziato».

Tu le olimpiadi della deficienza le hai vinte a tavolino, «forse non ci siamo capiti. Sono stato contagiato. Voglio-il-mio-laboratorio. Ora!».

«Nome?».

«Benigno Malpig–, pronto?», ha messo giù, «vaffanculo!». Richiamo. Cade la linea.

Un conduttore appare sullo schermo: “senatore, buongiorno.

“Buongiorno”, un vecchio si raddrizza sulla poltrona col contegno di chi ha visto più osterie che cravatte.

“Ci dica, il governo come intende risolvere il problema dei Decadenti?”.

Cammino avanti e indietro, e bestemmio l’anima di tutti i centralini. Un antigene, Cristo. Di un antigene ho bisogno. Devo accedere alla riserva. «Muovete il culo!».

“La nostra priorità”, il vecchio punta pomposo il dito verso l’alto, “è la sicurezza dei cittadini”.

“Può farci un esempio?”.

“Tanto per cominciare, abbiamo fatto distruggere l’intera scorta del siero Malpighi”.

Abbasso il telefono con la bocca mezza aperta, «ma sono cretini?». Mi metto le mani nei capelli, il mio vaccino... Aurelio! Ha continuato a lavorarci. Scorro la rubrica e compongo il numero.

«Questa è la segreteria del dottor Aurelio Sarfatti. Si prega di lasciare un messaggio dopo il bip».

Oh per l’amor… «Aure’, m’hanno infilzato. Dimmi che hai conservato qualche dose. Ho bisogno dell’immunogeno. Ora. Chia-ma-mi».

Posso farlo venire qui? Scosto la tenda in cerca di giornalisti. Non mi fido.

Richiamo. Di nuovo la segreteria, «oh, dove cazzo sei finito? Chiamami ho detto».

La parrocchia scampana, il telefono segna mezzogiorno. Perfetto, ho buttato mezz’ora.

Ho un messaggio non letto: ti ricordi di mia figlia? Sto arrivando.

«Merda», è arrivato da dieci minuti.

Prendo giacca, chiavi e cappello, «merda, merda». Indosso la mascherina e mi fiondo giù per le scale.

La testa di un giovanotto sbuca dalla rampa di sotto.

Abbasso il cappello sulla fronte e lo supero.

«Vai di fretta?», un secondo tizio mi blocca il passaggio.

Faccio un passo indietro, ma sbatto sul primo ragazzo.

Un lento battere di tacchi risale la scalinata, «sei sempre stato rapido, su questo niente da dire, ma», è il mio finanziatore, «poco affidabile». Giacca fumo di Londra, cravatta rossa, gemelli e, ora che è più vicino, un leggero sentore di colonia. Si ferma a metà della rampa, «com’è che han distrutto le dosi?».

«Non lo so! Giuro. Mi hanno licenziato, prima ancora che potessi–».

Il ragazzo dietro di me mi immobilizza per le braccia.

L’uomo riprende a salire, «tu realizzi una medicina con i miei soldi, una medicina che mi assicuri salverà mia figlia. Ora, non solo non funziona, ma salta fuori che non c’è una cura e l’unica sostanza da cui poterla tirar fuori è stata distrutta?». Si pianta davanti a me.

«M-mi aveva chiesto di essere veloce», uno schiaffo mi gira la faccia.

«Mia figlia! Sta imputridendo per colpa tua».

Il ragazzo davanti a me tira fuori da sotto la giacca un seghetto da falegname.

«Forse dovrei portarti con me», l’uomo se la fa passare, «e tagliarti via un pezzo per volta man mano che lo stesso succede a mia figlia».

«No», mi divincolo ma i miei muscoli sono già indeboliti.

Il ragazzo che mi tiene fermo stende il mio braccio verso il corrimano.

«Forse dovrei cominciare da qui. Pare che le dita siano le prime ad andarsene».

Devo sbrigarmi. «Posso- posso aiutarla!». Un altro schiaffo mi fa scricchiolare la mandibola.

«Ancora con le tue cazzate?», poggia il seghetto sul polso, «facciamo tutta la mano».

«Giuro, giuro! Giuro… avevo già cominciato a preparare un antidoto. C’è-», mi dispiace, «c’è il mio assistente, l’ho chiamato! Ha conservato delle dosi. Da quelle posso ricavare un vaccino».

«Non me ne frega un cazzo come farai. Tu hai creato il problema e tu lo risolverai. Fallisci ancora…», un cenno del capo e il giovanotto dietro di me mi lascia.

Mi aggrappo al corrimano per restare in piedi e li osservo scendere le scale. Ho il fiatone, mi tremano le gambe e il cuore batte all’impazzata. Il formicolio alle dita aumenta.

Con un piccolo tonfo, il mio anulare destro si schianta su un gradino.

 

«Hai sentito di Farmacologia?», una ragazza mi urta con la tracolla in via san Clemente.

Il corso di Aurelio?

«Sono due giorni che il Sarfatti non si vede», annuisce un collega, «pare che accorperanno le tre classi al San Giuseppe».

Attraversano il primo tratto di via Larga senza guardare. I semafori lampeggiano fuori servizio.

Li seguo.

«Conosco uno che lavorava ai laboratori, sai», la ragazza abbassa la voce, «quelli», e indica col pollice  una tenda nel parcheggio sulla destra. Su un cavalletto rovesciato sopravvivono alcuni lembi di un cartellone pubblicitario: Siero Malpighi – Il siero che sconfigge la morte.

«No! Al Politecnico?»

«Sì, sì, lì in Lambrate, cos’è? Via Pascal. Be’, era un ricercatore. Dice che gli han fatto chissà che iniezione»

Palle. A meno che tra gli assegnisti non ci siano criceti.

«E che fine ha fatto?»

«Sparito», ‘sta cretina annuisce con aria d’intesa, «scommetto che adesso è a perdere pezzi fuori città».

Sospiro, dirò ad Aurelio di comprarsi una ruota. Controllo il cellulare, ancora nessuna chiamata.

Un coro di voci cresce di intensità, «Malpighi, in miniera. Non basta la galera». Lo scorcio su via Festa del Perdono è ostruito da una selva di cartelli e pugni alzati.

«Ehi tu», un energumeno si avvicina dalla folla.

Faccio un passo indietro. La coppia si immerge nella ressa.

«Sei qui per la protesta?», mi porge un cartello, «facciamogliela vedere. Altro che galera!», e mi molla una pacca che mi fa scricchiolare le costole.

Non ho via di scampo. Tremante, mi premo una mano sulla mascherina, «giusto!».

Quello aggrotta la fronte, «che sei malato? Ti avranno mica fatto l’iniezione?».

Ringrazio il siero che non mi ha riconosciuto. «N-no. È solo…», tossicchio, «influenza».

La fronte dell’attivista si rilassa, «gira un po’ in effetti. Su, su!», altre due pacche, «dritto nella mischia».

Mi strizzo tra gli sputazzi dei cori e l’odore di ascelle sudate. Un cordone di polizia blocca l’accesso all’università. Oltre, sparuti individui si fanno ispezionare ed entrano per le lezioni.

«Prendetelo!».
Il cuore mi salta in gola, ma un giovanotto incappucciato si lancia di corsa verso l’ingresso laterale. Un paio di agenti gli si buttano addosso.

La folla si serra, mi spingono in davanti. Vogliono caricare. Sguscio a fatica verso sinistra e mi accuccio per evitare di essere trascinato con gli altri. Tornano a formicolarmi le dita. Gli scudi antisommossa vengono piantati a terra. Si leva un lamento e uno scoppio. Forse un petardo.

Non sento più due dita dei piedi. Cazzo.

«Oh», mi bisbigliano attorno, «hanno preso uno in testa».

«Maledetti!», il bisbiglio diventa un grido.

Partono invettive contro la polizia, ma la pressione si allenta e riesco a rialzarmi. Mi concentro sul respiro e il formicolio si attenua. È davvero l’adrenalina.

L’incappucciato è trascinato via di peso, il suo braccio destro giace a terra poco distante. Si dimena e il cappuccio gli cade: ha la pelle grigia, poco più della mia. Sulla destra, in fondo alla strada, un poliziotto alza il telo di un camion. Dentro, diversi corpi sono legati e accatastati come carcasse.

Scuoto il cartello e ripeto i cori, ma tengo la sinistra. Due autoblindo sorvegliano il proseguo della strada, oltre l’edificio universitario. L’unica è il vicolino che costeggia la Ca’ Granda. Acchiappo il primo ragazzino per la collottola e gli pianto il cartello in mano, «continua così». Pollice in su, e schizzo a denti stretti. Due dita in meno fanno una bella differenza.

Mi appoggio a una cancellata, i cori sono fiochi in lontananza. «E mo’ che cazzo faccio?».

Squilla il telefono, non credo ai miei occhi. «Aure’, Cristo di una Madonna, dov’eri finito?».

Le campane del circondario intonano le due. Quattro ore…

Quello biascica sfinito, «dopo che son venuti a requisire la roba in sede, ho girato i laboratori»

«Aspetta, non l’avevano distrutta?».

«Se la sono presa, Benigno! Non voglio sapere che ci faranno».

Sono meno scemi di quel che pensassi, «e?».

«Giusto due dosi, nient’altro».

La tensione mi scivola via dalle gambe, mi siedo su un muretto. «Basteranno».

«Porca troia, Benigno, ma che t’è saltato in mente?».

«A me? M’hanno teso un agguato sull’uscio di casa, ecco che m’è saltato in mente».

«Ci mancava pure questa… sono loro?».

«E da quando hanno le dosi? Ma li ho rivisti. Lui in persona. E non è di buon umore».

Aurelio sibila un paio di imprecazioni.

«Va bene, ascoltami», abbasso la voce, «spegni il telefono. Ci vediamo là».

«Là».

«Hai capito. È isolato, e ha l’attrezzatura giusta».

«È in culo al mondo! Ma lo sai che gli zombie li mandano in periferia?»

Lo so, sospiro, e che mi tengano tutti alla larga, «fai in fretta».

Spengo il telefono, tolgo SIM e batteria, e butto l’apparecchio oltre il cancello, nel giardino dell’università.

 

La sirena della pattuglia si incupisce, sempre più lontana. Butto la tenaglia e mi lascio la recinzione alle spalle, verso la baraccopoli. Oltre i portoni e le finestre divelte, corpi su corpi imputridiscono accasciati tra i propri stessi arti. Pochi, per strada, arrancano su moncherini di gambe, o si trascinano con le braccia. Qui e là, una testa sbuca da un auto rovesciata, e un paio d’occhi mi segue da dentro un cassonetto dei rifiuti. Ovunque, è tutto un gorgoglio, un lamento e un rantolare aiuto.

«Ehi, ehi tu. Novellino».

Aggrotto la fronte. Un armadio tumido e gonfio si preme un braccio contro la spalla, lancia un gorgoglio di frustrazione e passa all’arto successivo tra quelli sparsi a terra. Ignoralo.

«Riconosco quell’andatura. Hai perso le dita dei piedi, eh?».

Il Decadente getta via una mandibola e passa a una gamba.

«Non mi avrai preso per il ciccione, spero. Guarda giù».

Una testa attaccata a un pezzo di collo mi fissa con l’unico, strabuzzante occhio rimasto. Parte della guancia sinistra si è sfaldata e, scoprendo la dentatura sottostante, le conferisce un ghigno perenne.

«Fortuna che la testa mi si è staccata sotto le corde vocali».

Sollevo le sopracciglia, «ah-ha», e torno a camminare.

«Fermo!», mi rotola davanti, «ahia. Non vorrai mica lasciarmi qui con quella scorreggia ambulante? Presente le esplosioni addominali?», rimarca, «esplosioni!».

Non dovrebbe poter parlare, né sentire odori. Un liquido viscoso gli esce dall’orbita vuota, dal naso e dalle orecchie. Il suo cervello dovrebbe essersi già sciolto.

«E poi ci pensi se mi raccoglie? Io, su quel corpo lì?», finge una risata, «da morire».

Il silenzio è tangibile.

«Sì… ascolta. Tu mi porti con te, e io ti faccio vedere in giro. Che ne dici?»

«Devo andare», lo scavalco.

«Ehi. Non mi ign– non mi ignorare, sai? Non mi ign– ehi!».

Volto in una traversa e scosto un cassonetto dei rifiuti. Lo sforzo mi costa il braccio destro. Dietro, c’è una porticina di metallo che porta allo sgabuzzino del laboratorio. Entro e chiudo a chiave.

Gli insulti della testa mi arrivano attutiti, «spero che l’ultima parte che ti rimarrà attaccata alla testa sia il buco del culo!».

Accendo la luce. Armadi aperti, scatoloni squarciati… tutto ripulito. «Aurelio?». Silenzio.

Una porta si apre nell’altra stanza e mi blocco. Il formicolio mi risale gli arti fino al torso.

«È questo il luogo?».

Non è Aurelio. Il cuore mi accelera.

«O qui, o in un altro buco, in Bovisa», iI secondo è più giovane.

Non sento più le gambe. Il ginocchio sinistro cede e cado mani avanti su dei frammenti di vetro. La putrefazione dei nervi contiene il dolore e trattengo il lamento.

«Ed è sparito?».

Prendo il moncherino di gamba e rotolo di lato sotto uno scaffale.

«I ragazzi hanno trovato il telefono in un cortile. Il boss che dice?»

Cristo, il ragazzo delle scale. Striscio fino a una grata di ventilazione.

«Dobbiamo chiamarlo se lo troviamo».

Mi ci strizzo dentro e mi spingo in avanti come un lombrico.

«Guarda un po’ l’altra stanza, allora».

La porta dello sgabuzzino si apre, «ehi, c’è la luce accesa qui».

Il sangue mi va alla testa, non ho chiuso la grata!

«Arrivo».

Accelero, ma il condotto si interrompe. Non è possibile!

«Benigno?», Aurelio mi chiama da destra.

Calmo il respiro e giro la testa verso la voce. Il condotto prosegue. Mi si è dimezzato il campo visivo? Con dita tremanti raggiungo l’orbita destra. È vuota.

La luce della stanza principale filtra da una seconda grata, più avanti.

Mi avvicino, «Psst», picchietto sul metallo, «Pss–».

«Chi abbiamo qui?», il ragazzo torna dallo sgabuzzino.

Mi tappo la bocca e rimango immobile.

Aurelio fa due passi indietro.

«No, no, no. C’è qualcuno che vorrebbe conoscerti».

Aurelio scatta, ma un secondo paio di piedi lo insegue. Un tonfo fa vibrare la lamiera del condotto.

«Guarda un po’? Non sei un palestrato, e questi non sono steroidi».

«Sono diabetico, quella è insulina».

Il ragazzo sghignazza, «e Benigno è il tuo dottore? Sì, boss? Ne abbiamo trovato uno, ha le dosi. Ottimo». Si avvicina anche lui ad Aurelio, «sei fortunato, amico. È qui in zona».

Mi fiondo lungo il condotto. L’aria si rifiuta di entrarmi nei polmoni, respiro sempre più in fretta. Non sento più le gambe. Il formicolio è intollerabile. Faccio leva col braccio per svoltare a sinistra e, con uno schiocco, mi si spezza l’omero. Mi trascino col mento. Ho la nausea. Le mie viscere si gonfiano. Sono incastrato. Mi dimeno, spingo. Una fitta mi lacera l’addome e un liquido viscoso fuoriesce. Spingo ancora, il liquido aiuta a sbloccarmi. Mi contorco per svoltare a destra. Dovrei essere sull’esterno ormai. Dove sono le grate? Uno spiffero mi raggiunge. Più avanti, un segmento del condotto è lacerato. Lo raggiungo e ne addento un lembo. Tiro, spingo. Non si muove.

Un’auto romba in lontananza.

Lo prendo a testate. Una, due, tre volte. Mi salta il naso, un orecchio. Diversi denti. Lo allargo appena.

L’auto accede alla strada e si ferma. Scendono tre individui, uno ha la cravatta rossa.

Lo sgherro del laboratorio esce per strada insieme ad Aurelio, pesto e legato, «hai sentito? Veniva dal condotto».

Resta immobile.

«Saranno topi», il ragazzo lo segue, «salve boss».

Il liquido viscoso mi scivola lungo il viso fuori dallo squarcio.

Il boss si avvicina, «o forse uno solo, ma bello grosso. Aprite».

Sono un morto qualunque.

Un piede di porco si infila nello squarcio e apre il condotto.

Non mi riconosceranno. Due mani mi sollevano per la testa, che si stacca dal torso.

«Salve Benigno. Brutta giornata?».

 

Un ago mi si infilza nel poco di collo rimasto, poco sotto la mandibola.

«Ce ne serve soltanto una», il boss fa un cenno e mi gettano oltre un muretto in una traversa. Si accende un motore e il rumore si allontana con l’ultima dose e il mio assistente.

«Non è proprio il buco del culo, ma mi accontenterò».

«Crepa», biascico.

«Eh, la fai facile. Aspetta… tu parli?».

Parlo. Penso. Il mio cervello m’è colato dagli occhi, non–, «quante iniezioni ti han fatto?».

«Tre. L’ultima me la sono fatta nel braccio quando m’è cascato la prima volta, l’ho ricucito e tutto».

Più parla, più il mio occhio si spalanca.

«Funzionava… più o meno. Poi è cascato di nuovo e non avevo più soldi per la quarta dose».

Non posso fare a meno di sghignazzare.

«Perché ridono tutti?», mi guarda offeso, «è vero!».

«Oh, ci credo», un tizio in buone condizioni si avvicina al vicolo, spaesato, «ehi tu, novellino», urlo, «hai mica un cellulare?».

 

Un’infermiera entra nel laboratorio, «c’è una consegna per lei», e poggia una scatola sul tavolo.

Taglio lo scotch e tiro fuori la testa conosciuta nel vicolo.

Mi sputa addosso un pellet di polistirolo, «ma ti pare il modo?».

La porto al torso che ho preparato sul tavolo operatorio, «preferivi senza?». Ci inietto il siero, ce la cucio, e ripeto col braccio sinistro.

«Dove hai trovato tutte queste dosi?».

Indico le casse con lo stemma dell’esercito accatastate in un angolo, «non c’è niente di meglio di un soldato che non muore, e la guerra fornisce molti pezzi di ricambio». Sollevo la siringa, «si dà il caso che io sappia come produrla, così ho stretto un… piccolo accordo».

Accendo il televisore. È il telegiornale, “L’Italia è travolta dalla seconda rivoluzione Malpighi. Cliniche su tutto il territorio si rendono disponibili al trattamento dei Decadenti, anche in funzione estetica”.

Faccio un mezzo sorriso e passo alle gambe, «come cambia il vento. Ieri un mostro, oggi un eroe».

Racconto di Roberto Villa