I poveri fanno il botto solo quando si spiaccicano senza paracadute.

Non gli passa per la testa nulla di meglio che quella battuta insulsa, mentre cade dal trentesimo piano della torre Velasca, più veloce di tutti i pensieri, più rapido delle vertigini e del misero film che è stata la sua vita.

Pietro chiude gli occhi per non vedere il grigio cemento venirgli incontro a velocità folle.

Li riapre un attimo dopo, sta galleggiando sul tetto del basso edificio che fa da reception alla Xeon inc. Un metro sopra alla morte, si posa leggiadro con un piede e poi con l’altro, il respiro e i battiti fuori controllo sull’interfaccia visiva della maschera, in viola, nemmeno in rosso. Scava nella sua mente per ritrovare il piano di fuga. È tutta colpa di quella maledetta maschera. Si stupisce di non aver mollato il canne mozze per la paura durante la caduta.

Prende a correre e salta giù dal tetto, tagliando per il prato, dritto verso la Subaru rossa fiammante, che accende a distanza, prima di scivolare agile sopra al cofano e fiondarsi dentro dal finestrino abbassato del posto guida. Butta lo zaino sul sedile passeggero, la Subaru ruggisce, lui invece deve riprendere fiato. La maschera lo soffoca, ma non può ancora toglierla. Senza quella, non vale nulla.

Il volto nello specchietto retrovisore è quello di un uomo furbo, taglio militare, brizzolato, un accenno di barba e il sorriso a bocca chiusa di chi ne sa una più di te. Decisamente non è la sua vera faccia.

“Ehi, Bottai, hai fatto bel casino là dentro, eh? Grilletto facile, non mi aspettavo. Mi piace.”

È K, la cadenza cinese riesce ad attraversare l’alterazione della voce, il volto oscurato in basso a destra dell’HUD. Sembra allegro. Andasse a fanculo.

La Subaru parte di traverso, portandosi via buona parte del prato all’inglese che circonda la sede della Xeon. Pietro evita con un controsterzo la siepe scolpita a forma di doppia elica, il marchio corporativo, e finalmente la fine meccanica riesce a scaricare i cinquecento cavalli imbizzarriti del mezzo sulla strada di polimero levigato e grigio che porta lontano dal centro storico. Il palazzo a forma di torre degli scacchi è sempre più piccolo negli specchietti retrovisori.

“Sì, non so che cazzo mi è preso. Non ho mai premuto il grilletto prima e…”

“E tu trucidato cinque ex colleghi, disarmati. Poco male. I figli di puttana di Corporazione non ci tenevano molto a te, ti hanno gettato via come chip bruciato. Gliel’hai fatta vedere, yángrén!”

Psicopatico mafioso del cazzo. Via Rugabella scorre veloce coi suoi edifici storici addobbati di colori olografici, pubblicità che ha visto mille volte prima, mentre andava a lavoro.

“Dove cazzo vado, K?”

“Continua a correre. Abbiamo compagnia. La vedi quella freccetta blu sull’interfaccia di maschera? Seguila.”

Rumori di sirene. Pietro guarda gli specchietti in cerca di luci azzurre e per poco non diventa un tutt’uno col tram che taglia la via.

“Porca troia!” Solo a Milano ci possono essere ancora i tram nel duemila e trentotto.

Stende due paletti a scomparsa ed entra con un salto nel senso unico successivo, il tachimetro segna centottanta, la belva di metallo se ne accorge appena e il turbo continua a ululare. Le sirene lo accontentano e appaiono dietro di lui. Le persone sono macchie indistinte ai lati, se solo sfiora qualcuno, se lo porta al nascondiglio, spalmato sul parabrezza.

“Quanta adrenalina, eh, Pietro? Non mollare, pensa a moglie e figlio.”

Pezzo di merda.

Non è un gran guidatore, ma l’IA che risiede nella maschera è un tutt’uno neurale col suo mediocre cervello, lo rende un dio per osmosi. È il suo spirito guida.

Le volanti sono troppo vicine, il tragitto lo sta portando in piazza Bertarelli. Dal cielo scendono angeli neri, sbirri corporativi in suite corazzate, portano armi pesanti. Sono in grado di volare. Pietro inchioda e poi dosa il freno, scala due marce, entra di traverso in piazza e controsterza, tiene lì il gas. Bacia col posteriore una fila di moto parcheggiate, avviando un domino di lamiere, sente l’artiglieria leggera lambire il tettuccio blindato. Un’esplosione fa saltare un’auto alla sua destra in un boato che fa tremare il parabrezza blindato.

Attraversa la nube di fumo ed è in contromano su via Cornaggia. Solo aeromobili in Area V, nessuno in vista, fino in fondo. Gli sbirri gli stanno attaccati al culo, mentre veleggia su Corso di Porta Ticinese, gli angeli neri non fanno più fuoco, ora che la zona è affollata. Lui continua il suo slalom con le sirene assordanti nelle orecchie, deformate dall’effetto doppler, la Subaru inizia a sputare puzza di bruciato dalle bocchette dell’aria, nella sinfonia di turbine e motore. Merda.

“Quanto manca, K?” Le gomme minacciano di esplodere sui pannelli sintetici che lastricano la via, reliquie dei tempi andati. Sembra di tenere in mano un martello pneumatico. Il tram gli arriva incontro, Pietro non ha spazio per scansarlo, chiude gli occhi d’istinto. Li riapre e attraversa le colonne immemori di Porta Ticinese, un rumore lancinante alle sue spalle e un’esplosione gli annunciano che gli sbirri di terra non hanno avuto altrettanta fortuna nello schivare la locomotiva. Restano solo gli Iron man in nero. L’IA della maschera, da sola, gli ha salvato la vita, senza che nemmeno guardasse.

“Ci sei quasi, Pietro, vai verso Navillio Grande.” K la fa facile.

“È dove diavolo passo? Mi tuffo in acqua?”

“Sì.”

Pietro vede avvicinarsi troppo in fretta l’esile ringhiera che lo separa dal canale. Cerca di sterzare, ma le mani non rispondono, possedute dall’IA. Volta il capo per non guardare, vede per un attimo la poetica distesa di fiori dei ristorantini che presidiano il viale, e un tonfo gli annuncia che hanno fatto un tuffo a bomba. La schiuma lo circonda per poi sparire. La temperatura si abbassa di colpo, la luce e i colori sfumano, il silenzio lo avvolge, solo qualche scricchiolio della Subaru. Viene pervaso per un secondo da un senso di pace innaturale e profonda, prima che l’angoscia e la claustrofobia gli riempiano cuore e polmoni.

L’auto affonda troppo velocemente, lui comincia a battere sui vetri. La risata distorta e sguaiata di K in chiamata.

“Datti una calmata, collione, non affogherai per questa volta.“

Non crede ai suoi occhi. Un portellone si apre nella murata di fronte a lui, una sorta di autoguida porta dentro il mezzo, che evidentemente è anfibio. Una brusca salita lo fa sbucare dall’acqua in uno scroscio, quel posto funziona come una campana subacquea, un’enclave d’aria sottomarina. Ritornano i colori, il suono dominante è uno sgocciolio confuso, i tergicristalli asciugano il parabrezza. Una fila di luci automatiche svela un tunnel infinito, percorso da un acquitrino. Pietro non aveva idea che Milano avesse fogne del genere.

Cerca di togliersi la maschera, tira, gratta, spinge, ma nulla, sente solo inerti polimeri, sotto alla sua posticcia faccia olografica. Adesso procede lento, con una mano fruga nello zaino. Recupera il cubo che ha rubato alla Xeon, luci evanescenti si rincorrono azzurre sulla superficie, facendo pensare che dentro sia vivo. È liscio e cangiante, eccezion fatta per sei piccoli fori disposti a raggiera su un lato, una specie di presa connettiva. Ha architettato lui stesso il sistema di cyber security di Torre Velasca, lo stesso che oggi ha violato, ma non ha mai saputo cosa custodisse. Non ha mai visto nulla di simile.

Attraversa il tunnel al minimo, come se potesse dilatare il tempo, rimandando le sue decisioni.

La volta a botte che sovrasta la galleria si apre in una sorta di magazzino, i cui confini si perdono nel buio. I fari della Subaru illuminano dieci uomini disposti a raggiera, tutti in nero, indossano facce rosse di demoni. Sua moglie e suo figlio hanno entrambi un’arma puntata alla tempia, non riesce a leggere le loro espressioni.

“Bottai, ora stai calmo e scendi con mani in alto, se rivuoi tua famiglia.”

Adesso la voce di K è reale. Pietro è lì solo per quello, le cure costano due terzi del suo stipendio, e non ha più un lavoro. Gli stessi che vendono la medicina sono la malattia, la Corporazione decide le sorti di tutti. Fosse solo per sé stesso, preferirebbe essersi spalmato ai piedi del grattacielo, in una liberazione definitiva.

Scende col cubo magico nella destra, lascia il canne mozze sul sedile. L’umidità è opprimente anche da dietro la maschera che preme sui suoi lineamenti di carne, puzza di topo morto.

“Tizi… Gianni!” Vuole riabbracciarli. Nella sua mente balenano fotogrammi freschi e assolati della loro vacanza in Trentino, Gianni impazziva per le gite in jet pack.

“Vieni avanti lentamente e senza fare scherzi.”

“Come tolgo la maschera, K? Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto, non ce la faccio più.”

Questa volta la risata del mafioso ricalca perfettamente il ghigno malefico della faccia da demone, è quasi un gorgoglio.

“Non puoi. E poi, perché toglierla? Quando un uomo indossa maschera, dice verità, fa quello che desidera davvero, è libero di essere sé stesso.”

“Che significa?”

“Significa che vita è finzione, la tua lo è solo un po’ di più. Ricordi cosa fatto ieri?”

Pietro vede solo un vuoto bianco, nessuna immagine prima del furto. Il licenziamento, la mafia che lo contatta e gli dà la maschera. In qualche modo sa che è successo, ma non può richiamare alla mente gli eventi.

“Tu sei solo androide, modello molto avanzato, certo, ma sei schiavo di leggi della robotica,” riprende pacato K. “Non sei che coscienza umana innestata su un androide, in bell’involucro olografico, e così famiglia che credi di avere. Proprietà di Tóng del Drago Rosso.”

“Ma io ricordo tutto il resto, i miei genitori, la mia infanzia…”

“È questo il punto: Pietro Bottai è maschera, P.3.Bot-AI è quello che sei davvero. Circuiti e polimeri. Non è grottesco? Il bello è che quelle di Pietro, di Tiziana e Gianni, sono vere coscienze, trapiantate su di voi. Scarti della Xeon, morti in un incidente un anno fa e conservati su supporto virtuale, finché noleggio dello spazio non è scaduto e sono finiti all’asta. Capo di tong ha voluto organizzare questa pagliacciata per divertirsi, ci guarda in streaming.”

“Io… Pietro conosceva davvero il sistema di sicurezza nei minimi dettagli.” Per quello hanno dovuto impiantargli la sua coscienza e i suoi ricordi. Per il colpo. “Come è possibile che alla Xeon se lo siano lasciati sfuggire? Hanno lasciato la biometrica di Bottai nel sistema.”

“Incredibile, vero? L’arroganza di Corporazione è senza fine, per loro tutti sono solo pezzi di carne usa e getta. Adesso passami il cubo e facciamola finita. Non ricorderai nulla, promesso, è un atto di pietà.”

P.3 è troppo confuso per ragionare, la verità l’ha colpito come un maglio d’acciaio impietoso, come un reset di sistema. Tutta la sua vita è una menzogna, i suoi affetti, quello che crede di ricordare, non gli appartengono. E se li rendesse reali?

“P.3, consegnami artefatto e disattivati, è un ordine.” Ora K è perentorio, ma qualcosa nella sua voce si è incrinato.

I suoi script urlano di obbedire, ma la coscienza di Pietro è come un virus ribelle che esige giustizia. P.3 guarda il cubo nella mano destra e lo avvicina alla sinistra. Dal palmo escono dei cavi di connessione, si muovono con vita propria, come vermi in fibra ottica che anelano una stilla d’acqua, si agitano come i capelli di Medusa.

“P.3, cosa cazzo…” Adesso K non è più così calmo.

I vermi scavano nella presa del cubo. Connesso. Sente fluire in lui la libertà, se può essere una sensazione fisica, tutti i suoi protocolli sbloccati. Ecco cos’è il cubo, libertà allo stato solido.

K gli sta già sparando addosso col suo M12, i proiettili calibro 9 rimbalzano su ciò che riveste i suoi componenti, nascosto dalla pelle olografica. Dai suoi avambracci escono cannoni pesanti, le canne cominciano a roteare, finché sono due cilindri confusi. Si può ricordare ciò che non si è mai vissuto? Si può padroneggiare ciò che non si è mai imparato? Nel suo nuovo stato, P.3 comincia a distribuire morte equamente, come un canne mozze al ballo di fine anno.

Venti secondi dopo, la gloriosa Tóng del Drago Rosso è niente di più che una poltiglia sanguinolenta sulle pietre inzuppate. Tiziana e Gianni si connettono alla sua rete, è come se si conoscessero da sempre.

Sale sulla Subaru e loro lo seguono. Il ruggito dell’auto è di un calore confortante. Guida verso l’oscurità del tunnel successivo, il futuro incerto, ma deciso da lui, non importa che sia Bot-AI o Bottai. È Pietro da pochi minuti, ma è come se lo fosse da sempre. La Xeon ha un nuovo nemico e lui una famiglia.

Ci sono maschere che, dopo averle tolte, lasciano la loro impronta sul viso.

Racconto di Gianvito Cirami

Vincitore del Contest Stagionale Maschere 2023