Sotto il tetto della foresta c’è sempre buio. Gli alberi sono ricoperti di muschio rosso e puzzolente. Ogni volta che ci fermiamo sembra che i rami si pieghino su di noi, come per ascoltarci.
A Squalo è toccato il primo turno di guardia. Gli altri dormono tutti insieme, stretti l’uno all’altro. Persino Slag ha chiuso i suoi occhi pallidi da insetto.
Il mio giaciglio è un po’ in disparte, come al solito. Il fuoco è troppo piccolo e troppo lontano: il freddo della notte non mi lascia prendere sonno. Comunque, proprio non mi andava di dormire.
Provo a pizzicarmi il braccio un’altra volta. Sento un fastidio che scompare quasi subito. Nessun dolore, da questa mattina. Da quando ho messo piede a Illhebron.
Dèi, che cosa mi succede?
Non sentire male è così bello che vorrei mettermi a saltare dalla gioia, ma ho anche paura di quando lo sapranno gli altri. Tenerglielo nascosto è molto più semplice.
Cosa sarò per loro? Soltanto un peso.
Mi giro con la pancia all’insù, poi sull’altro fianco. Sono troppo nervoso per restare qui coricato. Forse mi sentirei meglio se facessi la guardia insieme a Squalo.
Sto per alzarmi e andare da lui, quando vedo scintillargli accanto un paio di globi luminosi, spettrali. Mi paralizzo. Non sembrano gli occhi di un animale.
Squalo fa scrocchiare le nocche, si siede a terra e appoggia la balestra accanto a sé.
Lui… non li vede!
Gli occhi spariscono per un istante, poi riprendono a brillare. Sono più vicini. Si dirigono da me. Mi rannicchio e mi tiro il mantello fin sopra alla testa.
Improvvisamente sento una voce sussurrarmi all’orecchio. È una voce molto dolce.
— No, non ti nascondere! Sei così grazioso, tale e quale a un piccolo cardellino!
Mi stringo ancora di più sotto al mantello e chiudo gli occhi.
— Chi sei?
La voce mi sente, anche se sono tutto coperto e ho mosso appena le labbra.
— Siamo amici. Vogliamo aiutarti.
Forse allora…
— Siete stati voi a… portarmi via il dolore?
— Sì.
Mi accorgo che la voce ne contiene molte altre. Basse, soavi. Centinaia di voci.
Il cuore sta per schizzarmi via dal petto. Apro gli occhi. Abbasso il mantello lentamente, un centimetro di stoffa alla volta. Non c’è nulla. Niente mostri, niente occhi luminosi. Gli altri sono tutti immobili, sdraiati accanto al fuoco.
Sento soffiare leggermente sulla pelle, tra l’orecchio e la nuca, come se ci fosse qualcuno disteso accanto a me. Trattengo il respiro.
— Perché muori di paura, piccolo cardellino? Non ce n’è bisogno! Vogliamo solo sapere il tuo nome…
— No.
Ho la bocca asciutta.
— Se ce lo dirai non soffrirai mai più, te lo promettiamo. Di sicuro è un nome dolcissimo. Lo canteremo tutti insieme, nella foresta.
Ricorda cosa ha detto Eren…
Non rispondo.
— Resta con noi, piccolo cardellino. Loro non ti amano, sei sempre solo. Insieme a noi non dovrai più piangere.
— Ho detto di no.
Stavolta ho parlato troppo forte. Squalo gira la testa nella mia direzione e scatta in piedi. Le fiamme proiettano la sua lunga ombra sui tronchi degli alberi. Chiudo di nuovo gli occhi e fingo di dormire. Squalo si avvicina al fuoco e ci butta un pezzo di legno, poi torna a sedersi.
La voce riattacca subito.
— Che ne dici di un altro nome? Quello dell’uomo alto andrà bene… Sarà felice qui! Per sempre giovane, per sempre forte!
— No, lui no! Non potete prenderlo!
— Il mutaforma, allora. Non è umano, lo sai, non è come te! Sì, lui è come noi!
Non voglio tradire Slag, ma non voglio nemmeno che il dolore ritorni.
All’improvviso mi sento molto stanco.
Non fare il Moccioso. Cosa direbbe Cardinale, se ti vedesse così?
Ingoio le lacrime.
— Andate via.
La voce diventa cattiva. Fischia e sibila come un serpente. Mi fa paura.
— Dacci un nome e ce ne andremo. Oppure resta zitto e soffri, soffri per sempre.
Un nome e andranno via. Un nome e niente più male, mai più. Niente più stare lontano, niente più stare solo.
È così facile arrendersi. Alla voce basta un sussurro minuscolo, poco più forte di un pensiero.
Avanzo lentamente, cercando di non fare rumore. Frugo la boscaglia con gli occhi, ma è troppo buio. La luce della luna filtra appena tra i rami aggrovigliati. Questi alberi hanno uno strano odore dolciastro, come di carne marcia. Qualcosa schiocca sotto al mio stivale. Mi immobilizzo e trattengo il fiato. Nulla, soltanto un brusio di foglie. Si è alzato un vento gelido, che soffia da ovest.
Di colpo esplode un grido che fa vibrare tutta la foresta. È Jack. Stringo più forte il coltello e balzo in avanti. Le urla crescono di intensità. Sono acute, piene di panico. Il cuore mi batte forte contro le costole.
Calmati, Markov. Non fare l’idiota.
Sento lo schianto di un fulmine, poi un’invocazione soffocata. E nient’altro.
Non mi frega più un cazzo della storia del silenzio. Mentre corro, inizio a gridare.
— Ehi! Sono qui! Segui la mia voce!
Jackie!
Sto per chiamare il suo nome, ma non lo faccio. Mi precipito tra gli alberi.
— Sono qui! Sto arrivando! Sono qui!
All’improvviso, la vedo. È seduta a terra, appoggiata a un tronco. Ha il petto squarciato e gli occhi sbarrati, stupefatti. Cado in ginocchio accanto a lei.
— Oh, no. No, no, no, no.
Mi riconosce. Allunga una mano sul mio viso. È così fredda, viscida di sangue.
— Addio.
— No.
— Devi andare via, io…
— No, non morirai.
— Va’ via! Scappa!
— Ti prego, non morirai! Ti salverò, devi credermi!
Le sue pupille si dilatano.
— Non morire. Non morire.
La mano le scivola giù dalla mia faccia.
No, Jackie, maledetta stronza, questo non me lo dovevi fare.
Grido fino a scorticarmi la gola, fino a quando sento in bocca sapore di sangue.
Un rumore di passi mi fa scattare in piedi. Ruoto su me stesso, col pugnale in mano. Dall’oscurità spuntano Erendhel, Alec e Tomm. E Jackie.
Ma cosa…?
Mi volto di colpo. Niente, nessun cadavere. Soltanto un vecchio tronco e radici contorte.
— Che cazzo succede?
Alec strabuzza gli occhi.
— E lo chiedi a noi? Amico, ti hanno appena sentito urlare fino a Urwine.
Quasi non riesco a respirare. Barcollo in avanti e indico Jack con la testa.
— Una visione, credo. Lei… era…
Non posso continuare. Erendhel annuisce.
— Sono i trucchi di cui vi ho parlato. La foresta vuole sapere i nostri nomi, non vuol farci andare via.
C’è il terrore negli occhi di Jack.
— Non l’ho detto, il tuo nome. Non l’ho detto.
Vorrei solamente abbracciarla.
Erendhel sussurra qualcosa a Dood. Il gufo si alza in volo e scompare tra gli alberi.
— D’ora in poi faremo la guardia sempre in due alla volta. Andiamo.
Tomm mi da una pacca sulla schiena e si incammina dietro alle nostre guide. Jackie si avvicina e mi prende la mano.
— Andiamo. — ripete, con dolcezza.
Le sue dita sottili si insinuano tra le mie.
Sulla foresta sorge il sole. Luce rossastra che filtra tra le foglie. Carcassa di volpe sul sentiero. Nido d’api nel terzo tronco a sinistra, a sette piedi da terra. Il ronzio è smorzato. Per riuscire a intuirlo socchiudo le palpebre.
Erendhel è già pronto a partire. Seduto in disparte, sussurra al gufo. Mi piace la lingua degli elfi.
Tomm respira a bocca aperta. Si è preso un raffreddore.
Squalo è disteso accanto a Jack. Lei apre gli occhi per prima, muovendosi lo sveglia. Si guardano un istante più a lungo del necessario. So che vorrebbero accoppiarsi. Credono che non me ne accorga, o che non mi importi.
Già, che ti importa? Sono umani.
Gli umani desiderano soltanto di non essere soli.
Appena sono tutti pronti ci mettiamo in cammino. Diamo le spalle al cuore di Illhebron e torniamo indietro verso Urwine.
Gli alberi di Gylis puzzano di carogna. I sensi dei cani ne sono disturbati.
Spero che stavolta sia la pista giusta.
Questo posto confonde anche me.
Avanziamo uno dietro l’altro, in silenzio. Io cammino davanti, coi due segugi. Poi ci sono Alec, Tomm, Moccioso, Jack e Squalo. Erendhel chiude la fila insieme al gufo.
Sono tutti spaventati. I loro passi sono cauti, la loro carne odora di paura.
Mi volto a guardarli. Moccioso è molto pallido. Piange nel suo solito modo, col viso immobile e le lacrime che gli traboccano dagli angoli degli occhi.
Incrocio lo sguardo Grigio.
— Fermiamoci un attimo, il ragazzo…
Volto di nuovo la schiena.
— Abbiamo perso già troppo tempo.
C’è ben altro a cui pensare. Che Moccioso pianga non è una novità.
Avanziamo sempre più lentamente. Il terreno è ripido e accidentato, pieno di fossi.
I cani si fermano a fiutare l’aria. Li imito. Odore fresco di terra umida, con una punta di acre.
Danko abbaia come un pazzo. Il suo chiasso mi fa male alle orecchie.
C’è una specie di crepaccio, una fenditura stretta tra le rocce. Mi avvicino. Scheletro d’uomo sul fondo, a circa dieci piedi da noi.
Con Erendhel e Tomm scendo giù a controllare.
Il morto ha la pelle secca come una pergamena. Labbra avvizzite, denti scoperti, orbite vuote.
Gli animali non lo hanno toccato. Perché?
Gli scosto il bavero. Il collo è piegato a sinistra con una strana angolatura. Il coglione se l’è rotto cadendo nel fosso. Il Grigio storce la bocca.
— Strano che sia così rinsecchito. Il terreno è umido e non ha perso sangue.
Erendhel si stringe nelle spalle.
— Qui sono tutti così. La foresta li prosciuga.
Sotto al bavero c’è un medaglione. Un sole d’argento con al centro una mano dalle dita tese.
Trovato.
Squalo si china sul bordo del crepaccio.
— Allora, siamo contenti? È il nostro uomo?
Tomm ridacchia. Sfila il ciondolo dalla testa del morto e se lo mette in tasca.
— Proprio lui!
Gli altri sospirano di sollievo. Non vedono l’ora di tornarsene in città.
Ai piedi del mago c’è un involto di tela macchiata. Il simbolo ricamato è lo stesso del medaglione. Mi chino a raccoglierlo.
Merda!
— Manca la lanterna!
Tomm si guarda in giro.
— Gli sarà caduta, deve essere qui intorno!
— E allora cercatela!
È questione di pochi attimi.
— Ehi, venite qui! Venite a vedere!
E brava ragazza.
Mi arrampico su per la parete del fosso. Uso i nuovi artigli, tutti e due. Squalo afferra la mano di Tomm e lo issa fuori.
Jack ha trovato un soldatino di legno, un gingillo per bambini.
— Ci sono alcuni piccoli villaggi, qui vicino. Case di contadini. — interviene Erendhel —Possiamo chiedere se qualcuno dei loro figli ha smarrito un giocattolo.
Jack annuisce.
— E se ne ha trovato un altro…
Tomm si scuote giù la polvere dai vestiti. Le prende il soldatino dalle mani.
— Aye! Ma adesso andiamocene da qui.
Erendhel insiste ancora: vuole aiutare i dannati asgaillani.
— Perché non parli tu coi contadini? Ti hanno visto altre volte, si fidano di te.
— Il mio lavoro è finito, Eren. Cercavano il mago e l’hanno trovato: sono stato pagato per questo.
Io me ne torno dritto dritto a casa.
Finalmente si arrende.
— D’accordo. Fa’ come credi.
Mi da le spalle e se ne va dal suo amico incappucciato. Diamine, quel tizio mette i brividi.
— Ci si vede da Beredith — gli grido dietro, ma lui non si gira nemmeno.
Fanculo, allora.
È permaloso come tutti gli elfi, anche se lo è solo per metà.
Sulla via che porta a Urwine non ci sono molti viaggiatori. Non in questa stagione, almeno. Cammino per un bel po’ senza vedere anima viva.
Il primo viandante che incontro è una contadina gravida, ferma sul ciglio della strada. Respira affannosamente cercando di prendere fiato. Ai suoi piedi c’è un grosso mucchio di fascine legate con una corda.
— Questa legna è troppa per te, farai male al bambino.
Le ragazza si accarezza il ventre con entrambe le mani. Mi ricorda la mia Greta, quando era incinta di Gale.
— Mio marito è morto tre mesi fa. Nessuno mi aiuta.
Raccolgo le fascine da terra.
— Beh, vorrà dire che lo farò io. Dove abiti?
Lei fa un sorriso stiracchiato e mi indica il colle che sta proprio sopra Illhebron.
Per gli Dèi!
— Sei parecchio vicina alla foresta!
Annuisce. Il suo viso è paffuto e dolce. Non avrà neanche diciott’anni.
— Bene, ragazza, andiamo. Se ci sbrighiamo sarai a casa al tramonto.
La biondina mi ringrazia almeno dieci volte, mentre la seguo insieme a Danko e a Thessa.
A un certo punto siamo costretti ad abbandonare la strada e a inoltrarci nella macchia. Anche se camminiamo lentamente, raggiungiamo il fianco della collina prima di sera.
— Da questa parte, seguimi.
C’è un varco nella parete di roccia, una grotta che la ragazza utilizza come abitazione.
All’interno ci sono un tavolaccio, due sedie, uno sgabello e una cassapanca.
Getto le fascine poco lontano dal focolare e mi inginocchio per accendere il fuoco. Di colpo sento un dolore acutissimo alla nuca e qualcosa di caldo che mi scorre giù per il collo. Vedo cadere a terra un attizzatoio, poi l’oscurità mi cala davanti agli occhi.
Quando mi sveglio è notte. I raggi della luna piena illuminano l’interno della grotta. Sono solo. La testa mi fa dannatamente male, come se fosse spaccata in due. Mi tasto la nuca: ho una grossa ferita coi bordi slabbrati. I capelli e il collo sono tutti incrostati di sangue.
Maledetta troia.
Porto subito una mano alla scarsella: il mio compenso è ancora lì.
Sento un rumore provenire da fuori, un rumore che conosco. Zanne che lacerano carne. Mi trascino pian piano fino all’ingresso della caverna.
Danko è steso a terra, in una pozza scura. La ragazza è a carponi come un animale, china sul ventre squarciato del mio cane. Le viscere spuntano fuori dalla ferita e lei le divora strappandole via con i denti. Sento una scossa lungo la schiena.
Cazzo. Cazzo.
Striscio fuori a carponi, pregando che la strega non mi veda. Di tanto in tanto alza la testa di scatto e si guarda intorno. Ha gli occhi luminosi, scarlatti. Non si accorge di me.
Appena sono abbastanza lontano mi alzo in piedi e mi precipito nella foresta, ma le ginocchia mi reggono a malapena. Le gambe mi tremano. Incespico e cado a faccia in giù. Mi rialzo e ricomincio a correre. Sento in bocca sapore di terra. La ferita alla testa ha ripreso a sanguinare. Continuo ad andare avanti, reggendomi ai tronchi degli alberi. Già, gli alberi sono diversi, ricoperti di muschio rosso. È corteccia di Gylis.
Merda.
Quanto cazzo è buio.
All’improvviso una voce mi sussurra nelle orecchie. Anzi, non una sola. Sono tante voci diverse. Mi paralizzo.
— Bentornato Alec, aspettavamo te.
— Chi siete?
— Siamo amici. Sapevamo che saresti tornato.
Non riesco ad aprire bocca.
Il mormorio riprende. Lo sento provenire da tutti i lati, come se ci fosse una folla intorno a me.
— Noi ti conosciamo, Alec, sappiamo che vuoi restare! Sappiamo il tuo nome: ce lo ha detto un piccolo cardellino.
–
Racconto di Melissa Negri.
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