Cazzo, se quel cretino non la smette di sbuffare giuro che…

«Amore mio, amore mio bello! Ah! Sì!»

«Derghat»

«Sì, amore mio!»

«Derghat…».

Ma niente, quello sembra quasi che c’ha la merda nelle orecchie, sente solo le sue stesse parole, n’altro po’.

«Derghat, per i Santi Déi!».

Finalmente si ferma, cazzo erano dieci minuti che andava avanti così. Smette di parlare, smette di fare quei versi da idiota, mamma mia quanto diamine odio la gente che parla mentre scopa.

«Scusami Bery, oggi non lo so che cosa c’ho»

«Son dieci minuti che spingi con quel coso floscio come un verme»

«Scusami…»

«Ma la smetti di scusarti? Bastava che me lo dicevi che non era aria stasera, mi risparmiavo mezzora a sentirti gemere come una troietta. Dai, rivestiti che di là c’è parecchia gente»

«Sì».

Diamine, sto cretino ammazza gente a pugni, è alto almeno quattro volte me, ma ha la forza di volontà d’un marmocchio malmenato quando si parla di fottere.

Lo vedo mentre si rimette addosso quella corazza di Stilfghar, piena di lacci e spuntoni. Cazzarola quel vecchio stronzo oramai le regala a cani, porci e ogre le sue armature. Un tempo, il vecchio era molto più geloso della sua roba, evidentemente adesso starà a corto di soldi.

Derghat si riveste, tenendo scoperte le braccia e parte del petto, brandendo quel suo martellone di ferro e poggiandoselo sopra la spalla nuda, scuotendo i lunghi capelli crespi, che un poco gli vanno a finire pure sulla bocca piena di zanne.

«Allora alla prossima, mia amata!»

«Mh mh».

Lui fa per uscire, ma stupido come un macaco sbaglia porta, diamine la sbagliano sempre tutti quella cazzo di porta.

«Ah, ah, ah! Non da quella parte, caro».

Gli indicò col dito l’uscita di servizio proprio di fianco al comò, quello sorride e se ne va di lì, abbassandosi per non sbattere la testa all’antone. Che idiota.

Mi alzo dal letto e mi rinfilo la gonna, fortuna che non m’ha fatta spogliare tutta quanta, che già ho sentito chiamarmi almeno cinque volte da là dietro. Mi guardo allo specchio, cazzo c’è ancora quel brufolo che non mi da pace da due giorni, sotto alle labbra. Ma non c’ho tempo da perdere là davanti, quindi mi lego i capelli a treccia, me li nascondo sotto la cuffia e me ne esco fuori da lì di scatto.

Apro la porta e la sala è ovviamente piena. Il profumo del sudore, della birra, delle parole che sanno di cipolla e aglio incastrato tra i denti, della carne arrosto nel camino, di Fiori della Parsimonia infilati nelle pipe e confusi col tabacco. Poi c’è anche il Bardo che suona, tiene tutti quanti incantati là in fondo, vicino al palchetto. Diamine quel tizio m’ha fatto fare una fortuna da quando viene qui a suonare, e non si prende manco niente.

Meglio così.

Mechidol sta dietro al bancone a pulire col panno le stoviglie, mentre chiacchiera con Giaro. Quello, come sempre, se ne sta fermo lì coi boccali pieni di birra in mano, a ridere come un bamboccio.

E se Giaro era qui, allora pure tutti gli altri dovevano essere ficcati da qualche parte nella calca.

«Ehilà! Bell’imbusto!» gli grido mentre mi asciugo le mani dal cazzo di Derghat.

«Ma buonasera! Madama Beredith!» mi risponde lui fissandomi con quei suoi occhioni azzurri.

«I tuoi compari? Ci sono anche loro?»

«Come sempre! Guarda».

Lui si gira e con la mano mi indica un tavolo proprio vicino alla scala, e seduti là ci stanno tutti, fortunatamente. Ber, Tnorat e la bellissima Lurwìl. A, diamine quanto vorrei farmela con quell’elfa. Li saluto con la mano e loro mi ricambiano sorridendo, menomale che sono tutti ancora vivi e vegeti, quei quattro pazzi.

«Caccia grossa oggi pomeriggio?».

Giaro si fa un po’ triste in viso, tirando ancor di più quella cicatrice gigantesca sulla sua guancia.

«Meglio non parlarne, stasera voglio festeggiare la vita! La vita e le belle persone!» poi mi sorride facendo anche l’occhiolino a Mechidol, che poverino ancora s’imbarazza quando gli fanno degli apprezzamenti.

«Va bene caro, allora festeggia! E non dimenticarti di dire quella cosa a Lurwìl».

Giaro se la ride di gusto e per poco non fa cascare la birra tutta per terra.

«Sei determinata Bery! Va bene, va bene, vedrò cosa si può fare!» poi sparisce nella calca per tornarsene di là.

«Bery! Vieni un po’ qui».

Mi faccio vicino a Mechidol per capire che vuole.

«Ci sono Vesirius e Reveka, stanno di là nel salottino, m’hanno chiesto se gli passiamo dei Fiori per spassarsela un po’, che stanno parecchio nervosi, m’hanno detto. Ah, poi c’è un tipo strano che sta seduto di là in fondo al bancone, nessuno ci si vuole sedere affianco perché è un po’ inquietante».

Ci getto un’occhiata di là e in effetti ci sta un tizio seduto, tutto trasandato e ricurvo, coi capelli lunghi legati, neri e sporchi. Diamine, sarà di uno di quei drogati dell’Est Ghetto, poco ma sicuro.

«Va bene Mechi, tu prepara i fiori per il Ratto e la Serpe, io me la vedo un po’ co sto tizio».

Mechidol annuisce e io mi faccio vicino all’uomo seduto al bancone, diamine se sta messo male, quello ciondola tutto e manco sembra essersi accorto che sono là davanti a lui.

«Vuoi una birra?».

Quello mi guarda e c’ha gli occhi neri e persi nel vuoto proprio come un drogato, speriamo che non se ne viene con qualcosa di strano, altrimenti mi tocca richiamare Derghat da fuori.

Ma fortunatamente quello fa solo sì con la testa, quindi gli preparo una mezza pinta e glie la porto subito, e quello lì se la beve.

«Avete una stanza?».

Diamine la sua voce non è di qua, non ha l’accento della Valle di Urwine e nemmeno di quegli schifosi imperiali di Asgàile, no. Questo viene da lontano, forse pure dalla Stella del Sud. Quello, poi, si controlla le tasche come a cercare qualcosa, ma sembra non trovare niente.

«Sì, c’abbiamo libera la tre, se ti interessa».

Quello mi guarda e fa ancora sì con la testa, poi si prende il boccale e se lo comincia a bere, tutto sommato il tizio sembra innocuo.

Mechidol mi piomba alle spalle e mi fa prendere un mezzo accidenti.

«In polvere o in narghilè i Fiori?»

«Ma che in polvere, Mech! Quelli là sono gente per bene, non dei cazzo di tossici! Tritaglieli con l’acqua nel narghilè che va benissimo. Aspetta, portamelo coi Fiori già dentro e poi ci penso io a portarglieli, che sto tizio sembra apposto».

Mechi corre di là e io getto un’ultima occhiata al tizio, che tiene in mano un foglio di carta e se lo guarda manco fosse la fica di sua moglie.

«Beredith!».

A chiamarmi stavolta sembra Jeremy, io mi giro e in effetti è proprio lui, basso come me ma molto più secco e stupido.

«C’è un tizio qua fuori, un vecchio scemo! Sta lì a gridare che gli Déi stanno morendo, che sta arrivando l’apocalisse! S’è messo davanti alla porta a fare il teatro e non sta facendo entrare nessuno, diavolo lui!».

Adesso ci mancavano pure i vecchi pazzi.

«Esci fuori e va a chiamare Derghat, facci risolvere a lui la cosa che io, come vedi, sono un attimo impegnata. Tanto di clienti ne abbiamo a sufficienza per stasera, no?».

Jeremy sbuffa e io so pure perché, non è che tra lui e Derghat scorra proprio buon sangue, ma io non ho tempo da perdere appresso alle loro stronzate sulla razza.

«Va bene, va bene, ora vado a chiamare Derghat» dice lui lisciandosi le orecchie lunghe.

«Ecco qua» Mechidol m’arriva affianco e c’ha in mano il narghilè tutto pieno di Fiori tritati, me lo passa e io lo piglio per bene.

«Vai a dare una mano a Jeremy, che fuori ci sta un pazzo che crea problemi».

Mechidol mi fa sì con la testa e corre fuori, io vado al salottino col narghilè in mano facendo attenzione a non farlo cascare, dando un’ultima occhiata al salone prima di entrare.

“Sopravviveranno tre minuti senza di me?”.

Apro la porta e devo fare attenzione, perché la stanza la illuminano solo le Lanterne Auree, e quindi a parte quegli aloni viola e soffusi, non è che ci si veda poi così bene.

«Beredith, che bello vederti!».

Vesirius si alza mentre la sua serpe acida manco sposta le gambe accavallate dal sofà. Non la vedo negli occhi, ma sicuramente starà rosicando come sempre, la stronza, mentre il suo sposo m’abbraccia e mi bacia le guance con l’affetto d’un principe.

«Ecco a voi, ragazzi! Con gli omaggi della Barba Dorata».

Poggio il narghilè sul tavolino e per un attimo me ne sto lì in piedi a braccia conserte, mentre Ves inizia ad aspirare, passandone un po’ anche alla serpe stronza, che si solleva la maschera giusto per ciucciare la punta di vetro con le labbra verdi.

«M’ha detto Mechidol che state un po’ nervosi»

«Sì, abbiamo avuto delle rogne giù a Gesimar, stiamo tornando giusto da lì, una fottuta traversata infinita, che si è conclusa con un nulla di fatto».

Poi Ves getta un’occhiata a Reveka che si gira verso di lui, poi verso di me, e poi se ne torna a farsi di Fiori, molto più di quanto non stia facendo il Ratto.

«A te come va, invece?».

Faccio spallucce. E come vuole che vada?

«Va tutto bene, Ves. Qua le cose vanno alla grande».


Al mio amico Libraio di notte, senza il quale tutto questo magico mondo, forse, sarebbe rimasto solo un’idea! 


Racconto di Tiziano Ottaviani.