I

Erano bastate tre paroline per mutare la paura in un timido interesse.
«A mezza paga?» L’attendente di campo aveva la voce tremula da baldracca.
Scabjor grugnì «M’hai sentito o sei sordo?»
Gonfiò il petto e mosse appena il braccio destro, giusto a ricordargli delle dimensioni dello spadone appoggiato alla spalla. Gli occhi del soldato si ripassarono per il lungo quel mostro d’acciaio.
Lo leggeva in quei suoi occhietti slavati quello che gli passava per la testa.
Quanto cazzo è grosso quell’affare?
Fece una risatina che pareva un ringhio.
Me lo dicono tutte.
L’ometto deglutì, il gozzo pallido fece su e giù. «Beh, se è la mezza… però abbiamo già…»
Scabjor sentì l’impulso di agguantarlo per il gambesone e squartargli il collo con un morso. Si leccò i denti appuntiti, immaginando la sensazione del muscolo che veniva masticato.
«Mi vuoi di’ di no?»
L’uomo sbiancò, assumendo il colorito delle ossa spolpate. «N-no, cioè.»
Scabjor, forte dei suoi due metri e trenta e dello spadone altrettanto lungo, lo guardava come un gigante guarda un pupo. Un pupo che sta per essere schiacciato sotto la suola dello stivale.
«Capiamoci bene,» snudò quelle zanne che aveva al posto dei canini in un ghigno da lupo. «Io vengo a dirti che ti faccio mezza paga. Te stai a corto di gente, io ti porto cento bastardi assetati di budella e mi dici che non si può? Ma te lo sai chi sono io?»
L’ufficiale diede una sbirciata alle due guardie armate di picca che stavano di fianco al suo tavolino del cazzo.
Oh, sì che lo sai.
«Sì.»
«Dillo.» Scabjor fece scrocchiare il collo. «Di’ chi sono. Lo sai come mi chiamano?»
«Il Selvaggio.» L’ometto non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Si schiacciò contro lo schienale della seggiola. «Scabjor il Selvaggio.»
«E lo sai cosa facciamo noi, al nemico?» Si voltò verso la masnada dei suoi, radunata ai carri, poco fuori dai margini del campo kulraziano, e alzò il pugno.
«Gli mangiamo il cuore!» Fu il grido della banda.
«Per mezza paga si potrebbe fare…»
La sua esitazione accese il fuoco nelle vene di Scabjor. Se la tirava ancora per le lunghe, il soldatino si sarebbe ritrovato a pendere dall’estremità del suo spadone.
La pazienza è la virtù dei froci.
Abbatté la mano sul tavolo, aperta. Era grossa quanto il registro che l’ufficiale teneva davanti agli occhi.
I due soldati scattarono indietro, le picche strette al petto. L’attendente tentò di ribaltarsi a terra per scappare.
Gli occhi gialli di Scabjor colsero la contrazione dei tendini del collo.
«Non ti vedo convinto.»
«N-no, i-io… si potrebbe…»
Scabjor si gustò la sua paura, la vibrazione attorno al suo cranio, le mani che tremavano. Solo quella, per adesso. La sua preda era molto più succulenta, ma gli toccava aspettare.
«Serve una dimostrazione di forza, neh?»
Si drizzò di colpo e in tre passi raggiunse l’albero che stava a ridosso di una delle tende. Il suo tronco era largo quanto il petto di un uomo.
Lasciò cadere a terra l’elmo, agganciato alla cintola, e si spazzò via i capelli unti dalle tempie con un gesto.
Prese la scure posata su un ceppo vicino con una mano sola. Tra le sue dita pareva un giocattolo.
Caricò sulla spalla. Mezzo passo, torsione del busto. Stunk!
La testa di ferro divorò quattro dita di legno.
Scabjor la staccò con una pedata e mollò un altro colpo. Stunk!
Schegge e briciole di legno schizzarono in aria. Altra pedata, altro movimento della spalla. Stunk!
Tirò indietro e il manico dell’ascia si sbriciolò all’attaccatura della testa, con un crack netto di ossa spezzate.
Più di mezzo tronco era già andato. Scabjor ringhiò, i denti scoperti.
Eccolo, il demone, il suo fuoco nelle vene.
Uccidi! Uccidi!
La gola dell’ometto. Carne e sangue tra i denti. Sbriciolare le ossa, lacerare la carne, farne poltiglia tra le dita.
Cazzo, sì!
Si scagliò di spalla contro il tronco e produsse uno schiocco secco. Il dolore dell’impatto era una piacevole carezza.
Si ripassò la mano sul cranio mezzo pelato. Nemmeno una goccia di sudore.
Il volto dell’ufficiale era diventato, se possibile, ancora più bianco, come se l’avessero candeggiato nel piscio. L’unica nota di colore era l’ugola della sua bocca spalancata, il buco perfetto in cui cacciare un pugnale.
Dopo, magari.
«Direi che questo basta, eh, amico?» Il suo sorriso rimase il ringhio di un animale. Riprese lo spadone e se lo caricò in spalla.
«Una condizione. Voglio che ci metti in prima linea.»
Tutto procede secondo il piano.

II

Jan si spruzzò l’acqua del bacile sul volto e se lo strofinò. Il pizzetto ispido gli punzecchiò i palmi.
Si guardò nello specchietto che il valletto reggeva in mano, passando l’indice sulla linea della mascella e poi sulle tempie, nei capelli.
Troppo lunghi.
Con quello sguardo torvo e i capelli arruffati, Jan aveva l’aspetto di un gattaccio selvatico.
Congedò il servitore con un gesto.
Che si muovano a venire a farsi uccidere.
Si chinò sul tavolo. La mappa della valle si era oramai impressa nel suo cervello, le possibilità erano ridotte a tre.
Se arrivano dalla collina, via dalle palle e ci facciamo inseguire.
Le sue dita scorsero sulla cartapecora incerata, accarezzando i tratteggi dei dislivelli e le linee dei sentieri.
Dal basso, ci fermiamo e facciamo fare ai tiratori. Oltre al fiume…
«Mio signore.» L’ingesso della tenda svolazzò.
Non aveva bisogno di acuire i sensi per indovinare chi fosse. Puzza di cavallo, ansiti di corsa. Se ascoltava bene, poteva sentire il cuore che galoppava.
Si voltò verso l’esploratore. «Taglia corto. Dove passeranno?»
Il ragazzo doveva avere sì e no l’età che aveva lui quando aveva ammazzato per la prima volta. Il suo primo uomo, s’intende.
Gli animali non contano.
La sensazione del collo di un gatto che si spezzava sotto la sua stretta gli percorse le dita.
«Radenti alla collina con la cavalleria in testa e fanti dietro.» L’esploratore faceva del suo meglio per star dritto davanti al marchese.
Bella mossa del cazzo. Ne faremo carne trita.
«Ma si sono divisi. I tiratori saliranno sul fianco del boschetto a nord-ovest per chiuderci a tenaglia.»
Cazzo.
Monfernette doveva avere scoperto dei suoi archibugieri spediti a presidiare Slodn.
Questo limitava le opzioni a una soltanto.
Tamburellò le dita sul tavolo ascoltando il resoconto del ragazzo. Perché ogni volta quei lysiani mangiarane del cazzo dovevano fare i loro colpi di mano all’ultimo?
Monfernette si deve credere meglio dei dodici che ho seccato prima di lui. Devono davvero morire dalla voglia di prendermi.
«Molto bene.» Annuì piano. Non bastò a sciogliere la tensione sul volto del giovane esploratore, che si passò una mano sui capelli per scollarli dalla fronte sudata. Tremava.
«Vai dal cuoco e mangia qualcosa, ma restami a disposizione.»
Questo sì che gli fece passare un po’ di strizza. S’inchinò e girò i tacchi.
«Come ti chiami?»
La domanda di Jan dovette sembrare uno schiocco di frusta al ragazzo, perché drizzò la schiena e s’immobilizzò.
Lo sentì deglutire. «Pavel, eccellenza.»
Un altro Pavel.
Facile da ricordare, se non altro. Pensò di rivolgergli un sorriso, ma rinunciò l’istante dopo. «Hai fatto un buon lavoro, Pavel.»
Lo lasciò scappare e tornò alla sua mappa.
Che palle.
Una bolgia di sangue e carne sulla pendenza della collina, a far tirare i suoi di fretta per non avere i lysiani nel culo, proprio non gli andava. Monfernette era stato meno idiota degli altri, la carica di cavalleria su per la collina era un diversivo.
Sono disperati al punto da sacrificare i loro cavalieri, pur di prendermi?
La cosa più probabile era che la cavalleria sbucasse dal fianco del boschetto prima dei tiratori e facesse il giro lungo la collina, chiudendogli le forze.
Le dita passarono sul bosco a est, più folto e profondo, che si abbassava lungo il dorso della collina.
L’illuminazione gli fece tornare il sorriso.
Fece un gesto al valletto, in piedi all’angolo della tenda. «Maciej, chiamami Ludchenko e convoca i vessilliferi nella mia tenda.»
Sbuchiamo con la cavalleria dal sottobosco, abbattiamo i loro cavalli con i balestrieri e gli archibugi. Dopo passiamo a dare una lavata con l’acciaio.
Quello sì che era un bel modo per ammazzare, lama alla mano, con la vibrazione dei colpi che ti corre nelle ossa. Sempre che tutto fosse andato secondo il piano.
Prese la sciabola appoggiata al fianco del tavolo e ne saggiò il filo con il dito. Una zanna d’acciaio lunga poco più del suo braccio, il bilanciamento che chiamava la falciata, il taglio, il sangue.
Si stravaccò sulla sedia e si concesse una risata.
Tanto non va mai nulla secondo i piani.

III

Alla fine avevano messo i suoi in prima linea, ad aspettare l’attacco dei lysiani a mezza collina. C’era da aspettarselo, erano mercenari, sacrificabili. E Scabjor non aveva dato altre opzioni all’attendente.
Non avrei potuto chiedere di meglio.
Quelli erano arrivati, e lui non era riuscito a trattenersi dal lanciarsi avanti con i suoi.
Abbatté con un pugno il cavaliere in armatura completa che gli barcollava davanti. La sua ridicola spadina gli scappò dalle mani e rotolò lungo la china.
Stuzzicadenti.
Tutto attorno, kulraziani da una parte e lysiani dall’altra ruggivano e pestavano gli avversari più forte che potevano. Quello sì che era il paradiso. E pensare che solo in quei momenti sentiva bruciare così forte il demone nel suo petto.
Ironico.
Scabjor alzò il pugno. «Avanti!»
I suoi, lance e scudi pronti, gli si mossero dietro come un sol uomo.
Il sangue gli ardeva nelle vene, il demone gli si torceva nei muscoli. Spazzò davanti a sé con lo spadone, un cavaliere perse la mazza ferrata nel tentativo di parare il colpo. Il polso scattò e si storse.
Mulinello sopra la testa, altra spazzata. Le armature erano insignificanti. Con quell’arma bastava colpire, non tagliare.
Allungò un affondo dritto sotto la visiera di un elmo. La punta trapassò il cranio, la sentì grattare contro la calotta dall’altra parte.
Sì! Sì!
Una mazzata gli percosse il costato attraverso la corazzina d’acciaio. Gli fece il solletico.
Il soldato lysiano che era riuscito a penetrare nella sua guardia indietreggiò e alzò la mazza.
Scabjor rise.
Scarafaggi in armatura, questo siete.
La gomitata che gli mollò sulla visiera, tra cubitiera d’acciaio e spinta dei muscoli strappati all’inferno, gli ammaccò l’elmo peggio d’un colpo d’azza.
Quello sbrodolò sangue dai fori per l’aria e crollò.
L’enorme mercenario si fece sotto, lo spadone in presa di ferro usato per affondare e colpire di botta. Un turbine di sangue, ginocchiate, gomitate.
Ogni colpo che arrivava era legna sul fuoco nella sua gola, nel suo petto.
Fece saltare un braccio con un colpo ascendente, pestò una caviglia e la mandò in frantumi.
«Maman! Je te…» Spaccò la faccia al lysiano con un manrovescio d’acciaio.
L’antipasto l’aveva stufato, le linee di quegli invertiti mangiarane erano bell’e rotte. I suoi uomini, dietro, finivano con lance e coltelli i rimasugli del suo divertimento. Lavoro di bassa manovalanza, adatto a loro.
Dove sei?
Il diavolo con l’armatura rossa non si era ancora fatto vedere. Che non volesse combattere?
Impossibile.
Se i racconti erano veri, il diavolo aveva una sete di sangue pari solo alla sua. Caricava sempre in prima linea. Per quello Scabjor lo voleva.
Pur nella bolgia di acciaio che cozza su acciaio, sentì il ringhio a denti stretti, e il graffiare l’aria di una punta di lancia.
Come al solito, il demone faceva miracoli.
Non spostò nemmeno la testa. Alzò la sinistra e afferrò l’asta tra le dita. La punta aveva quasi toccato la celata del suo elmo.
Il silenzioso bastardello aveva gli occhi di un porco davanti al macellaio.
Il track dell’asta che si sbriciolava sotto la sua presa, un movimento del braccio. Gli piantò la punta nella guancia, sfondando lo zigomo e l’arcata superiore.
«Hhhhraaaaaaahhh!» L’urlo comico di un idiota, mezzo affogato dal sangue.
Lo calciò a terra senza badarci. Tutto attorno solo vessilli strappati, cavalli che rotolavano, quella linea di fanteria che si avvicinava.
«Carica!» Dal bosco a destra eruppe un fiotto di cavalieri, irto di lance, sciabole e mazze.
Eccolo.
Il diavolo in acciaio rosso montava un bestione nero, il muso coperto d’acciaio. Niente lancia per lui, solo la zanna della sciabola.
Scabjor si mise a correre, il cuore che pompava piombo fuso nei muscoli. «Seguitemi!»
La cavalleria fece un passaggio sul culo delle retrovie, scompaginando la marcia dei picchieri. I nitriti si mescolarono alle urla, file di lance barcollarono e caddero.
Poveri coglioni.
I Lysiani tentarono di ritrovare una specie di ordine.
Il diavolo menava falciate con la sua sciabola a destra e a manca, il cavallo scartava e scalciava da solo, il morso serrato tra i denti.
Evitò le lance scrollando il capo, si piantò e ruotò, diede spazio al suo cavaliere per colpire spalle, volti, gole.
Bestione aggressivo, eh?
Scabjor entrò ad ariete sulle schiene dei lysiani che si erano girati a fronteggiare il cavaliere. Alzò lo spadone sopra il capo, con ambo le mani.
Sotto l’elmo, la bocca contratta in un ghigno, dalle zanne stillava saliva. Aveva l’acquolina.
Povero diavolo.
Gli calò il fendente addosso.

IV

Lo percepì dallo spostamento d’aria, dalle grida e dal rumore di ferraglia alla sua sinistra.
Fendente.
Jan scartò indietro col busto, un istinto di conservazione che era difficile abbandonare. Una lama larga quanto il suo braccio gli sfrecciò davanti.
Il nitrito di dolore divenne un trillo che gli perforò i timpani. Le emozioni del cavallo lo investirono come un torrente, in risposta a quelle con cui lo aveva soffocato fino a un momento prima per muoverlo come voleva.
Panico.
Acciaio che sega muscoli, tendini, ossa. Paura.
Dolore.
Nient’altro.
Si staccò da quel vortice un istante troppo tardi. Sotto le gambe solo il vuoto.
Cosa cazzo…?
La botta contro il terreno fu un calcio in petto, vomitò aria e inghiottì terra attraverso la celata. Si mescolò al sangue di un morso alla lingua, gli attraversò la bocca come una coltellata.
Non mollò la sciabola.
Mano a terra, si puntellò per alzarsi. Con la coda dell’occhio, attraverso il terriccio che cadeva, una sbarra d’acciaio gli correva addosso.
Jan alzò la sciabola, ma la mazzata lo gettò culo a terra. L’impatto gli intorpidì le dita, l’arma gli scivolò. Serrò il pugno per non perderla.
Fostio cane, chi merda è?
Un gigante con una spada altrettanto gigante. Il volto coperto da una celata ammaccata, lorda di sangue.
«Pensavo meglio, per essere un diavolaccio.» Il suo ringhio era smorzato dalla celata dell’elmo.
Scaricò un fendente che l’avrebbe piantato a terra. Se si fosse fatto prendere.
È veloce. Troppo veloce.
Fu veloce anche lui. Sgusciò sotto e si puntellò col ginocchio. Il colpo gli graffiò la piastra dorsale dell’armatura.
Battito di cuori come martelli su un’incudine, tutti attorno a lui. Niente vessilli.
Rotolò più veloce di quanto un uomo potesse fare, i muscoli che bruciavano.
Il bastardo mi ha ammazzato il cavallo.
La carcassa giaceva a due passi da lui, il collo taurino che spruzzava sangue, tranciato per due terzi.
Quella è la spina dorsale.
Non si era ancora messo in testa quanto fosse veloce quel gigante. Falciata orizzontale.
Fu costretto a bloccare, barcollò di lato per la botta.
Un allungo mostruoso, quell’arma. Schivò un montante che gli avrebbe tranciato la gamba, l’altro raddoppiò sul lato mancino.
Jan accompagnò i suoi movimenti col mulinello della sciabola, per accentuare il suo sbilanciamento. Niente, quella montagna di muscoli e acciaio muoveva lo spadone come fosse una piuma.
Sollevò per un fendente.
Polsi scoperti.
Jan chiuse misura con uno scatto, serpi di fibre muscolari si fusero dalle cosce con il metallo dell’armatura.
No, non adesso. Troppi sguardi. Troppi testimoni.
Giravano già abbastanza storie su Jan il diavolo.
Falciò al polso, nello spazio tra guanto d’arme e protezione dell’avambraccio, appena spostata. Sangue.
Centro.
Come se non l’avesse sentito, il colosso tirò giù. Il forte della lama abbatté Jan a terra.
Fottuto il Creatore!
La botta gli riverberò nel cranio.
Lo sentì ridere sotto la celata. Ruotò l’arma e affondò verso il basso, per inchiodarlo a terra.
Jan rotolò sul fianco, l’acciaio che lo sfiorava, e alzò la sciabola. Punta alla giuntura dell’ascella. Questo non poteva non sentilo.
Grugnito.
Risata.
Fu la conferma di quello che sospettava Jan.
Non è umano. Fostio cane.
Il mostro in armatura lo calciò in pieno busto. Le costole fecero la fine di rametti secchi.
Lasciò che il dolore gli annebbiasse la mente, gli entrasse nei polmoni come una nebbia venefica.
Soffri, cane. Soffri! Questo ti meriti, a essere così stupido.
Sangue in bocca. Lo sputò.
Alzati.
«Sei davvero tu il marchese Cravenia di Leshn?» Il bestione si appoggiò l’arma alla spalla.
«Che cazzo vuoi tu?» Jan approfittò della pausa per tirarsi su. Guardò attorno a sè.
Mercenari.
Le brigantine color fango, rattoppate da anelli di ferro incistati alla buona nel cuoio, non lasciavano dubbi. Avevano creato attorno a lui e al gigante corazzato una specie di arena, tenevano lontani i lysiani che ancora non erano fuggiti. Il suo piano, alla fine, aveva funzionato.
C’è solo un inconveniente di due metri e mezzo.
«Trovare qualcuno che sia diavolo quanto me.» Il colosso si rimise in guardia, spada sopra la testa.
«Tua madre ti ha proprio cacato fuori stupido, eh?» Jan sentiva il desiderio della sua carne di fondersi all’acciaio, di lasciare la sciabola e andare a cavargli il cuore con le mani.
Sempre che ce l’abbia, un cuore. Cosa cazzo è ‘sto armadio?
Prese una guardia d’invito, lama bassa. Inutile attaccare quel bestione, era troppo alto. Il sangue gli colava da sotto l’ascella sull’armatura, e nemmeno ci badava.
Cosa cazzo c’è sotto tutto quel metallo?
Fece un passo indietro.
Doveva cercare di ammazzarlo con una lancia, era l’unica maniera discreta.
Cercare? Io non cerco di uccidere, io uccido e basta.
Scartò di lato e alzò la protezione del collo di uno dei mercenari che gli dava la schiena. Zanna d’acciaio tra le vertebre.
Gli strappò via la picca prima ancora che aprisse le mani. Il bestione era già lì.
Jan piroettò via con la grazia di un ballerino. L’armatura ammaccata gli opprimeva le costole, non permetteva loro di tornare a posto. Coltellate ai polmoni accompagnarono il suo movimento.
Sopporta, stronzo.
Il gigante falciò a vuoto nell’aria, Jan lo bersagliò di una raffica di punte. Su, giù, su, destra, giù, e via, l’ultima gli scavò la carne all’attaccatura del cavallo.
Questa volta un ringhio glielo strappò. Balenare d’acciaio, prima che potesse ritrarre l’asta. Il legno andò in frantumi sotto la lama.
Il mostro non gli diede tempo di scappare, gli balzò addosso e lo schiantò a terra.
Il pomo calò a martellargli la testa.
Un’esplosione alla tempia, un’altra, un’altra, come se gli stesse piantando chiodi nel cranio, a ritmo.
Stunk! Stunk! Stunk! Stu-
Acchiappò alla cieca, con la destra. L’elmo deformato gli schiacciava onde di dolore sul cranio.
Basta.
Fu istinto. Il suo respiro attraverso i fori nel metallo lo guidò.
Un sinistro caricato, bicipite che si univa ai segmenti metallici, muscoli, tendini e acciaio. Il pugno si plasmò in corazza irta di spine.
Scaricò sul mento e udì un muggito di dolore. Sgusciò sotto di lui alla cieca, l’elmo gli trafiggeva l’orbita destra. Ringhiò. Il metallo si piegò alla sua volontà, le schegge gli uscirono dal cranio.
Controllati.
Respiro. La carne si slegò dall’armatura.
Piano.
Il bosco, oltre la fila di mercenari. Quelli almeno, erano umani. Si tirò in ginocchio, una fitta gli azzannò la coscia.
Il femore.
Se ne fottè e partì in scatto, armato solo di un pugno di terra.
«Hel holpo.» Gli rise dietro il gigante.
Mi basta raggiungere gli alberi.
I cavalieri dovevano essere usciti tutti, oramai. L’ordine era di caricare e basta, senza tornare indietro. Per nessuno.
Bravi ragazzi.
Lasciò che il femore spezzato si mordesse la carne della coscia.
«Hey! Non shappare! Horna hui!»
Uno scrocchio alle sue spalle. Non si voltò.
Vieni a prendermi, se hai il coraggio.
L’osso della gamba tornò al suo posto con uno scrocchio sordo che poteva sentire solo lui.
Il mercenario che provò a fermarlo si trovò a terra con il volto sfondato.
Bene.
Ora bastava solo raggiungere il bosco.

V

Gli era bastato raggiungere il bosco, e quell’infame era scomparso.
Altro che diavolo.
Scabjor si strappò con una zampata la celata dell’elmo, oramai deformata, e sputò un grumo di sangue e denti. Poco male per quelli, sarebbero ricresciuti.
L’ultimo pugno, però…
Nessuno gliene aveva mai dato uno così forte. Non da quando il demonio era entrato in lui. Si massaggiò la mascella.
Quel pugno era il solo motivo per cui lo aveva seguito. Se non gli fosse girata la testa per a botta, l’avrebbe preso prima che si infilasse tra le frasche.
Da quant’è che non mi gira la testa per un colpo?
Sentiva qualcosa, al basso ventre, oltre al pizzicare della ferita al cavallo. Qualcosa tra le budella, qualcosa di strano, un accenno di…
«Non c’è.» Uno dei suoi gli si affiancò, alzando la visiera dell’elmo.
«Questo lo vedo da me, testa di merda.» Con un manrovescio blando buttò a terra il cretino. Gli avrebbe insegnato a non sputare ovvietà. «Cerchiamolo, dementi.»
Quella sensazione di cui non ricordava il nome gli attorcigliava il fondo dello stomaco. Spadone in spalla, si inoltrò tra gli alberi, respirando pesante.
Fuori, gli echi della battaglia si spensero piano. Il bosco si faceva fitto nell’allontanarsi dal colle, i cavalieri avevano avuto gioco facile a passare da lì. Gli alberi, da larghe colonne che erano, si tramutarono in un budello buio di tronchi, fronde basse e radici. Ne falciò un po’ a spadate.
I suoi non si sentivano già più, lo sferragliare degli schinieri e delle brigantine era svanito.
In culo quei leccamerda.
Gli stavano vicino come le mosche al culo del toro, aspettavano di cibarsi di quel che lasciava loro. E tra troie al seguito o coglioni ubriachi, qualcuno con cui divertirsi c’era sempre.
Era delusione, quella che provava? Quel diavolo rosso era una fregnetta tale e quale agli altri. Veloce, sì, e basta.
Ne aveva vista di gente veloce. Se l’era mangiata, la gente veloce.
No, era qualcosa nato, al contrario, da quel pugno. Da quel pugno così forte.
Pensare non gli dava noia, di tanto in tanto, ma ora sì, invece. ma quella sensazione…
L’ultima volta che l’aveva provata era stato quando aveva incontrato il demone. O meglio, quando il demone aveva trovato lui.
Muscoli d’ombra, zanne di notte e parole di miele.
Ammazziamo assieme. Sarai il mio braccio e la mia mano, e io il sangue nelle tue vene. Non avrai più paura.
E gli aveva teso le braccia. Scabjor si era asciugato le lacrime e s’era fatto prendere, o l’aveva preso lui, quello non lo ricordava. Solo la sensazione di vomitare e poi forza, tanta forza come non ne aveva mai avuta. E fame.
Era tutto così silenzioso. Da quando s’era fatto tanto buio? Era solo mezzodì.
Crocchiare di ossa tra le radici ritorte.
Strinse l’impugnatura. Eccolo lì. Vederlo gli diede sollievo allo stomaco. Dopotutto, era lì per lottare.
Adesso li vediamo i tuoi pugni.
Altro che diavolo, sembrava un cartoccio deforme color sangue. Non ricordava di averlo colpito così tanto da…
Il diavolo fece scrocchiare il collo. Erano muscoli, quelli?
Non è possibile.
La stretta alle budella tornò.
«Come ti chiami?»
Non dirglielo!
Una voce che non era la sua gli scoppiò nel cranio. Anche il piombo nei suoi muscoli pareva aver paura.
«Oh, adesso capisco.» Il diavolo si stiracchiò. Non c’erano dubbi, erano proprio muscoli. Rossi, grondanti di liquido. Muscoli corazzati d’acciaio rosso. Petto, spalle e piastre d’acciaio erano un solo corpo. «Siete una cosa sola, voi due.»
Puntò un dito. Più che altro, la grinfia di un rapace, un rasoio curvo.
Uno squarcio si aprì nel metallo sul volto. Tenebre e carne sorrisero, una ferita strappata. Dentro, denti sottili e appuntiti come aghi. «Te lo strapperò dal petto e me lo mangerò.»
Non avrai più paura.
Scabjor urlò e si lanciò avanti. Fuoco nei muscoli, polmoni tramutati in mantici, fendente dritto. Divorò la distanza tra loro in due passi.
Una mannaia sul collo del condannato, la lama precipitò sull’attaccatura della clavicola.
Stridio d’acciaio, risucchio di carne che cede.
La lama entrò di due dita e si fermò.
Era come se sotto ci fosse un blocco di pietra, impenetrabile.
Il diavolo tamburellò con gli artigli sull’acciaio e snudò un sorriso di chiodi aguzzi. Il suo volto era solo tenebra e metallo, qualcosa si agitava sotto le ombre. L’elmo plasmato dalla carne pareva più la parodia di un teschio che altro.
La spada scivolò nel corpo, ci affondò dentro. Fasci di muscoli vi corsero sopra, cacciandola in profondità nel petto, stendendosi e attorcigliandosi attorno alla lama.
Scabjor la lasciò andare e barcollò indietro, gli occhi sgranati.
Il diavolo! Il diavolo!
La paura gli inondò le viscere.
Quella presa di muscoli sbriciolò la lama come fosse pane vecchio. Punta e manico caddero tra le radici, le schegge di metallo del medio sprofondarono tra le carni del mostro. Il suono era quello di un animale che mastica.
Mastica.
Scabjor era passato dall’essere al vertice della catena alimentare a sentirsi torcere le budella. Reazione da preda.
L’istinto gridava combatti o fuggi.
Il demonio non gli diede scelta. Scattò avanti come una molla, le unghie si aprirono la strada nell’armatura di Scabjor. L’acciaio era carta, cedette al tocco degli artigli.
Il petto s’incendiò, il mercenario e il demone che gli si annidava in corpo ulularono assieme.
Anche quello non lo sentiva da anni. Dolore. Vero dolore.
Evitò la seconda zampata gettandosi indietro. I riflessi, almeno, c’erano ancora.
Le radici sporgenti lo fecero incespicare. Il diavolo continuò col sorriso e gli artigliò la spalla, cacciandogli aghi roventi nella carne.
Lo gettò con la schiena contro il tronco di un albero, si accucciò per balzare. Un lampo rosso, una ginocchiata di quel demonio segaligno, e il fusto dell’albero esplose, come colpito da una cannonata.
Scabjor ebbe il tempo di abbassarsi all’ultimo, una pioggia di schegge gli investì il viso.
Il diavolo balzò via, piroettò in aria e rimbalzò su un altro albero. Gli fu addosso subito, un’unghiata piegò il metallo della calotta che gli copriva la testa, gli piantò acciaio e lame nella tempia. A occhi serrati, Scabjor mollò un pugno.
A vuoto.
Una mano sottile lo intrappolò in una morsa. Grinfie bucarono il parabraccia, la carne, le ossa.
Il demone urlava nel suo petto.
No!
Si sentì sollevare e volar via, privo di peso. La terra gli ricordò che ne aveva, e anche troppo. Ruzzolò su un fianco, tra fango ed erba.
Strinse i pugni.
Non avrai più paura!
Ringhiò, scoprendo i canini, arricciando il naso storto. O combatti o fuggi. L’avrebbe venduta cara a quel…
Il diavolo aprì la mano di scatto, col suono di una lama snudata dal fodero. Gli artigli crebbero, i bordi come rasoi. Quella mano grottesca, sottile e al tempo stesso enorme si aprì e si chiuse, piano.
Dallo squarcio di bocca che aveva, la risata fu uno stridio di cento lame che cozzano. Aveva solo giocato, finora.
Fuggi.
Scabjor aveva ricordi confusi di corse come quella nei suoi anni da marmocchio, a occhi semichiusi, nel buio, le lacrime che scivolavano sulle guance. Corse da incubo, con grinfie sempre pronte a piantarsi nella schiena, l’alito del diavolo sul collo, i denti…
Fuori.
La luce del mezzodì ormai passato gli trafisse le palpebre. Aprì gli occhi.
Non smise di correre, si fece quel campo di battaglia più veloce di un cavallo al galoppo, fottendosene di lysiani, kulraziani e chissà chi cazzo di altro.
La paura spinse i muscoli lontano, sempre più lontano.
La paura.
Riuscì a frenare quella corsa da moccioso e quantomeno a rallentare. Si guardò indietro. Bastarono le fronde del bosco lontano dietro di lui per stringergli di nuovo le budella.
La paura era tornata a far parte del suo corpo come il sangue, come l’aria, come quel demone che tremava dentro di lui.
Fu un solo pensiero, un rovello d’ansia nel cervello, ad accompagnare la sua fuga.
Cosa può far paura a un essere così?

The Michael Macrae (Deviantart)