Queste sono le mie ultime parole, la storia di cosa è accaduto prima della mia morte.
Mi auguro che tu sia uno degli uomini in nero e non un servo di questa sua misteriosa padrona. Mi auguro che tu e la tua fondazione siate dalla parte dei “buoni”.
Spero infatti che il mio sacrificio non sia vano, che la fatica che sto facendo per scrivere mentre questo mostro mi consuma sia ripagata. Almeno voi ricordatevi di me e della vera storia. Dite quello che volete ai miei genitori e a chi mi conosceva, capisco che deve rimanere un segreto. Spero di essere utile a loro nell’aldilà a questo punto, in qualche modo. Assieme al mio piccolo Ginger.
Non farò economia di parole, scriverò il giusto, perché gli voglio dimostrare che mi è rimasta ancora più forza di quanto crede. Vediamo se resisto abbastanza da scrivere tutto quello che voglio, o se si stufa lui e decide di darmi il colpo di grazia anziché continuare questa tortura.
Tutto iniziò undici giorni fa.
Non avevo notizie del mio amico Calvin dal funerale di suo padre. Buonanima, il signor Joshua era morto di infarto, un decesso inspiegabile per i medici, considerato che era un uomo in perfetta salute. Fatto sta che il figlio si trovò a dover gestire all’improvviso la grande azienda di famiglia, senza colui che era stato il suo punto di riferimento, nel lavoro e nel privato.
Volevo stargli vicino in quanto suo caro amico, volevo aiutarlo a svagarsi, ma il lavoro lo aveva subito risucchiato. Non aveva mai tempo per vederci. Quel giorno però passavo in zona da lui e decisi di fare un altro tentativo. Questa volta poteva ricevermi a casa sua per una breve chiacchierata.
«Ciao Edward, che piacere vederti!» Calvin mi accolse a braccia aperte, con un calore e un’allegria che però erano in contrasto col suo aspetto.
Occhiaie evidenti, pelle pallida, guance scavate. Avevo l’impressione che fosse diventato più basso di alcuni centimetri, le braccia ora esili lasciate scoperte dalla maglietta. «Come stai? Non stai lavorando troppo?»
«È stato un periodo tremendo, ti chiedo scusa per essere sparito. Vieni, ti mostro il mio nuovo studio.»
E fu là dentro che vidi questa maledetta sedia. Ripensandoci adesso, non mi stupisco che lo studio avesse una porta blindata, come se stessimo entrando in un caveau.
Fu Calvin stesso a presentarmela, convinto di fare colpo sul me antiquario di oggetti preziosi. Si mise dietro di essa e la girò verso di me. «Guarda, hai mai visto una sedia d’avorio? Mio padre la teneva nascosta nella cantina della sua villa di campagna, non mi ha mai detto nulla! E anche se non sembra, è comodissima. Te che sei del mestiere, quanto può valere?»
Non avevo mai visto niente del genere. Una linea curva univa le quattro gambe, per cui lo spazio superiore fino alla seduta era pieno ed era scolpito con delle figure umane in rilievo, incastrate una sopra l’altra, in varie pose e in varie dimensioni. Dove lo spazio era più sottile erano chinate o inginocchiate. Anche lo schienale e i braccioli erano scolpiti allo stesso modo, con qualche spazietto vuoto tra le figure nel caso del primo, mentre nel caso dei secondi c’era anche uno spazio vuoto ad arco tra essi e la seduta. I braccioli terminavano con due volti molto grandi, i cui lineamenti e i monili li identificavano come un uomo e una donna africani.
Ero meravigliato dal livello di dettaglio di ogni figura. Dovevo dare però una brutta notizia al mio amico.
«È davvero notevole, però temo non sia fatta d’avorio.»
«Come? Ma se è bianca?»
Mi inginocchiai per averla ad altezza viso. «Sì, ma l’avorio ha un bianco più uniforme e caldo di questo ed è anche più lucente. Questo mi sembra più il colore di…ossa.»
Calvin rimase disgustato. «Dai, ma ti pare possibile? Mio padre non si sarebbe fatto fregare in questo modo.»
Ero curioso di toccarla, perciò mi rialzai e mi mossi, ma Calvin indietreggiò trascinandola con sé.
Mi guardò con occhi severi.
«Volevo solo toccarla.»
La sua espressione si addolcì. «Scusami, pensavo ti volessi sedere, sai si chiede prima. È un oggetto prezioso.»
«È sicuramente un oggetto notevole, ma quanto sia prezioso è da capire. Se me la lasci posso fare delle analisi per scoprire di cosa è fatto il materiale.»
«No!»
Lo scatto di voce mi fece trasalire.
«Mi serve.» La sua voce ritornò a un tono normale. «Da quando la uso, lavoro molto meglio. Ho più intuizioni, più energia, riesco a convincere i clienti nei meeting online con più facilità, so sempre la cosa giusta da dire. Questa sedia è diventata il mio portafortuna.»
Non insistetti, né provai ancora a toccarla, turbato dalle sue reazioni. Non commentai nemmeno il suo aspetto fisico. Parlammo del più e del meno per un quarto d’ora, poi me ne andai.
Quattro giorni dopo, mi chiamò al cellulare.
All’una di notte.
Mezzo stordito dal sonno interrotto, premetti il tasto verde. «Calvin, che diavolo…»
«Apri subito il cancello del tuo cortile, sto arrivando in macchina. Devo lasciarti la sedia, ho bisogno che…»
«Cazzo, non puoi passare domani?»
«Vogliono rubarmela, e la polizia è dalla loro parte. Oggi hanno ispezionato l’azienda, di sicuro verranno anche a casa mia. Devo farla sparire, far loro credere che non lo ho mai avuta.»
«Loro chi scusa?»
«Non so chi siano, mi hanno chiamato presentandosi come degli amici di mio padre, dei collezionisti che condividevano la sua passione per l’antiquariato. Sapevano delle cose su di lui. Volevano vedere la sedia, hanno usato anche la scusa di offrirsi di valutarla. Io ho negato di averla, quei tipi mi puzzavano. Quel giorno stesso mi hai chiamato e ho pensato che potevi essere tu a togliermi la curiosità di quanto valesse.
«L’indomani altre persone mi hanno contattato, affermando che mio padre non l’avesse ottenuta legalmente. Li ho mandati a quel paese. Da allora mi sento pedinato e vedo spesso girare un uomo vestito di nero e con in mano una valigetta. E oggi ricevo l’ispezione della finanza con la scusa di presunte irregolarità da parte mio padre.»
Rimasi in silenzio. Non sapevo come commentare quelle notizie improvvise.
«Sei ancora nel letto? Vai ad aprire, ti prego, se sei un amico vai ad aprire!»
Meno male che eravamo nel pieno dell’estate. «Ok, vado, così potrai ammirare il mio nuovo pigiama coperto di geroglifici.»
Si può dire che fosse già sotto casa: un minuto dopo aver aperto il cancello, si fiondò dentro ed ebbi paura che si schiantasse contro il muro di casa: inchiodò all’ultimo secondo.
Aperta la portiera balzò giù e aprì il bagagliaio. Mi avvicinai per aiutarlo a prendere la sedia, ma ce la fece da solo.
Lo osservai a una distanza di mezzo metro: forse era la scarsa luce, ma la pelle del viso mi appariva di un pallore per niente sano. La T-shirt mi permise di notare delle macchie scure sugli avambracci.
«Calvin, stai bene?»
«Nascondila. Ora scappo, cercherò di farmi vivo il prima possibile.»
Sollevai un braccio come per trattenerlo. «Non mi piace questa situazione, e se ti avessero seguito? Non voglio finire nei guai pure io!»
«Sono abbastanza sicuro di averli fregati, comunque come ulteriore depistaggio andrò a prendere una puttana e me la porterò a casa. Fidati di me.»
Così se ne andò, ignorando le mie preoccupazioni e senza badare a una mia replica. Non mi rimase che chiudere il cancello e portare dentro la sedia.
Sedia che al tatto era stranamente tiepida.
Quella notte dormii male. Mi dissi che ero preoccupato per quello che stava accadendo. La giornata nel mio negozio trascorse all’insegna dell’ansia di tornare a casa. Volevo capire se era di avorio o di osso, ma anche sedermi per sentire quella strana sensazione di calore che avevo provato mentre la portavo nel mio laboratorio.
Tornato a casa, avevo intenzione di esaminarla con i miei strumenti, invece per prima cosa mi ci sedetti e solo il richiamo del gatto che aveva fame mi fece consapevolizzare quanto tempo fosse passato!
Cosa mi era preso? Mi ricordavo solo di essermi stancato al lavoro e per quel motivo di aver indugiato sulla sedia, la quale era davvero comoda nonostante le apparenze. È un periodo intenso per noi antiquari, colpa dell’uscita di La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone: ha acceso un’ondata di interesse per oggetti dell’antica Cina.
Mentre ero seduto avevo lasciato vagare la mente tra gli affari in corso e i progetti futuri. Elaborai dei piani e dei programmi con una lucidità e un dettaglio mai raggiunti, e con la certezza di ricordarmi tutto.
Ma meno male che c’era il mio piccolo Ginger a ricordarmi dei bisogni fisiologici. Solo dopo essermi alzato sentii anche il brontolio del mio stomaco.
Dopo cena il gatto mi seguì nel laboratorio, ma dovetti chiuderlo fuori, perché iniziò a soffiare contro la sedia come se fosse una creatura vivente. Pensai che fosse colpa delle figure umane, fatte troppo bene.
L’esame con la lente confermò la mia ipotesi: si notavano delle strutture porose, a tratti “a fiocchi di neve”, anziché le linee di Schreger. Decisi di fare anche un test chimico: ricavai una scaglia dal sotto della seduta e vi applicai una goccia di perossido. Il risultato fu la comparsa di piccole bolle, imputabile a una forte presenza di collagene, proprio come nelle ossa.
Ma erano di quale animale?
Presi un altro campione per portarlo l’indomani a fare il test del Dna in un laboratorio di fiducia.
Stavo per andare in camera da letto, ma decisi di sedermi di nuovo sulla sedia: mi sentivo attratto da essa. Dormii sulla sedia e al mattino, diamine, mi sentivo fresco e carico come se avessi dormito sopra il materasso migliore del mondo. Una parte di me cominciava a sospettare qualcosa, ma una parte più forte, una vocina interiore, mi suggeriva di usarla come sedia del mio studio. Sarebbe stata il mio portafortuna, proprio come per Calvin.
E mi suggeriva anche di lasciar perdere l’analisi del Dna.
Dovevo andare di nuovo in negozio. Dopo qualche ora da quando ero uscito di casa, la curiosità di scoprire la natura delle ossa tornò impellente, perciò a fine giornata presi il campione e andai al laboratorio.
Fu lì che vidi l’uomo in nero. La mia memoria aveva registrato ogni parola detta da Calvin, per cui quella persona seduta su una panchina della piazzetta davanti al laboratorio mi colpì. Stava leggendo il giornale, o meglio dovrei dire che faceva finta. Fosse stato vestito solo di nero lo avrei ignorato, invece aveva vicino proprio una valigetta, e il viso era coperto da occhiali da sole e un cappello con falda.
Per il risultato mi avrebbero fatto sapere dopo tre giorni. Quando uscii, invece di seguirmi entrò lui nel laboratorio.
Forse avevo fatto una cavolata, ma ormai era fatta. Comunque i pensieri tornarono alla sedia. Al desiderio di spostarla nello studio e a sedermi.
Dopo cena, di nuovo per prima cosa mi ci sedetti, come un amante che non sa attendere e balza addosso all’amato.
E fui assalito dal gatto.
«Ginger, che cazzo fai?» aveva affondato i denti nel mio polpaccio. Iniziò a tirare come se volesse trascinarmi via.
Agitai la gamba, invano. Allora portai il ginocchio al grembo, gli aprii la bocca con le mani e lo lanciai via.
Ginger si avvicinò, mi miagolò contro come se volesse dirmi qualcosa di importante. Non lo avevo mai visto così agitato. Non capivo, aveva già mangiato. Non c’erano rumori in casa. E non volevo alzarmi. Non me ne fregava niente del sangue che colava dalla ferita. Non era profonda, non sentivo fretta di medicarmi.
Lo aveva capito anche lui, perciò tornò all’attacco, ma il mio piede lo tenne a distanza. Scartò di lato ed ebbi la certezza che volesse graffiare la sedia. Allora mi alzai e gli tirai un calcio così forte che volò contro il muro.
E non si mosse più.
«Oh mio Dio, cosa ho fatto.» Mi pareva di aver sprigionato una forza sovrumana, non mi capacitavo di aver perso il controllo in quel modo.
La mattina dissi ai miei assistenti che sarei rimasto a casa e seppellii Ginger in giardino, per fortuna il nostro comune lo permette. In un certo senso, avrebbe continuato a restare vicino a me. Mi sentivo debolissimo ed ero scioccato, così tanto che non entrai più nel laboratorio.
E non ci sarei tornato per chissà quanti giorni…
Se la notte Calvin non fosse ricomparso.
Mi chiamò alle ventitré, avevo appena indossato il mio pigiama a caratteri cuneiformi.
«Calvin, ma che cazzo…» gli dissi al cellulare.
«Fammi entrare, sono in macchina al tuo cancello.»
«Zero preavviso stavolta?»
«Fammi entrare!»
Una volta dentro e sceso dalla macchina, gli andai incontro. Il suo aspetto era migliorato, ma il volto tradiva una grande paura.
«Calvin, che succede?»
«Portami dalla sedia, e ti dico tutto.»
Così ci ritrovammo nel laboratorio. Appena la vide, corse verso di essa, ma io mosso da un riflesso sconosciuto lo bloccai e lo spintonai anche!
«Bastardo» mi ringhiò. «Ti sei seduto. Ti avevo detto di nasconderla e basta! Adesso la vuoi tu eh?»
«Cosa cazzo stai dicendo…»
«Quando ti dissi che è il mio portafortuna, non esageravo. Questa sedia è magica, è abitata dallo spirito di tantissime altre persone. Loro mi parlano, sommano la loro intelligenza alla mia, la loro energia, la loro conoscenza.»
Lo fisso a bocca aperta. «Per questo mi sento così bene sopra di essa?»
«Sì, e ora me la riprendo, scapperò lontano. Senza di lei non so più come gestire la mia azienda, non so più come vivere. L’ispezione a casa mia è stata fatta, ma gli uomini in nero continuano a girare attorno. Fuori c’è una strana tensione nell’aria, sta succedendo qualcosa di sovrannaturale. Questa notte li ho visti occupati a scacciare… qualcosa. E ne ho approfittato per defilarmi. Intanto non hai fatto analizzare un campione in un laboratorio vero?»
«L’ho fatto.»
Calvin scattò e mi buttò a terra. Si mise a cavalcioni su di me, pronto a tirarmi un pugno. «Idiota, fottuto antiquario del cazzo! Stanno controllando tutti i laboratori della città, potrebbero arrivare da un momento all’altro!»
Il suo corpo si sollevò e, come un metallo attratto da una calamita, venne trascinato all’indietro fin sulla sedia. Una sagoma di fumo nero dai contorni umani si materializzò alle sue spalle.
Calvin si afflosciò, si sgonfiò come un palloncino. Il volto, le braccia, il torso, le gambe… tutto si deformò e scivolò giù dalla sedia.
«uuu…aaa…guah…» Suoni inarticolati uscivano dalla sua bocca. Gli occhi si muovevano in direzioni opposte, gli arti spazzavano il terreno.
Guardai l’ombra con orrore, che adesso aveva un profilo più definito e simile a Calvin. «Cosa sei?»
«Io sono tanti, ma per te non ha importanza. Il padre di Calvin mi aveva sottratto alla mia legittima padrona, tu mi aiuterai a tornare da lei.»
Mi voltai per scappare, ma una forza iniziò a farmi indietreggiare, come se mi tirasse. Lottai a lungo, minuti strazianti in cui vedevo la porta allontanarsi. Quando la forza mi fermò, sentivo il fiato dell’ombra sul collo.
«Non voglio farti del male, lasciami parlare.»
Non le credevo. «Non ti basta Calvin? Cosa ti ho fatto di male? Detto che non eri d’avorio?»
«Te non mi hai fatto nulla, io ti ho salvato da Calvin, ti avrebbe ucciso. Come suo padre, voleva sfruttare il mio potere per il suo profitto. Perdonami, ma quello che hai visto era l’unico modo che avevo per fermarlo, ora che potevo ribellarmi.»
Mi resi conto che avevo pestato il corpo di Calvin, ora immobile. Guardai i miei piedi: erano affondati nel suo torace come se fossi sopra un materasso.
Balzai di lato, la mano alla bocca per trattenere i conati di vomito.
«Lo ripeto, non voglio farti del male. Sei entrato in cose più grandi di te. Quegli uomini in nero appartengono alla Mayflower, una fondazione malvagia che vuole usarmi per i loro interessi. Per mia fortuna sei comparso tu e ho indotto Calvin a portarti da te, mentre il cappio della fondazione si stringeva.»
Mi stava venendo un attacco di panico. «E… Adesso cosa dovrei fare? C’è un morto in casa mia!»
«Aiutami a ritornare dalla mia padrona, e lei ti aiuterà a uscire da questa tragica faccenda. Farà in modo che nessuno indagherà su di te per la sparizione di Calvin e che la fondazione si dimentichi di te.
Il mio cuore palpitava. «Dove si trova?»
«Calvin ci ha fatto intuire che la mia padrona sta tentando di rompere l’assedio a casa sua, e anche lei come la Mayflower starà controllando i laboratori, quindi sia i suoi agenti che quelli della fondazione potrebbero arrivare qui stanotte. Per sicurezza è meglio però che mi porti verso la casa di Calvin, sono certo che lei ci troverà.»
L’assurdità della situazione mi fece venire un capogiro. Mi chinai sulla sedia, le mani appoggiate sul bracciolo. Grazie alla distanza ridotta notai sullo schienale una miniatura nuova.
Una miniatura troppo simile a Calvin.
Un mio vanto è la memoria fotografica: ero certo che non ci fosse mai stata, l’altra sera l’avevo osservata per bene. Sentii dell’energia fluire dall’oggetto al mio corpo. La mia mente ripensò a tutte le parole, tutti gli eventi dal giorno in cui andai a casa di Calvin. Dovevo mantenere sangue freddo, perché quella, o ormai posso dire questa, sarebbe stata la mia ultima notte. Ma non sarei stato la sua marionetta.
«Vado a vestirmi e ti porto in macchina.»
«Portami dietro con te.»
Era ovvio che non si fidasse, me lo ero immaginato. Così la portai con me e la sistemai alla scrivania, al posto della mia sedia. Dopo che mi fui vestito, mi sedetti, accesi il pc e attivai il collegamento con le telecamere di sicurezza.
L’ombra si materializzò alle mie spalle. «Che stai facendo? Così perdiamo tempo.»
Mi guardai gli avambracci: si erano accorciati. «Aspetteremo qua. Vedremo chi arriva per primo. E spero che arrivino per primi gli uomini in nero. Forse sono loro i buoni, perché di sicuro la tua padrona, i suoi servi e te stesso non lo siete.»
Percepii il suo sgomento, in qualche modo.
«Mwanaharamu!» ruggì. “Bastardo” in Swahili. Ecco il suo io originario; nato chissà quanti secoli fa.
Le mie labbra si piegarono in un sorriso triste. «Stai solo cercando di manipolarmi. Tu sei fatta di ossa, di ossa umane non è vero? Ti nutri di noi, è così che hai ucciso Calvin, e chissà quante vite prima. Le tue vittime non si accorgono dello stato in cui si stanno riducendo, se non hanno sospetti sulla tua vera natura. Non puoi trattenere la tua fame eh?»
«Il potere ha un prezzo, razza di ingrato. Se arriveranno prima gli uomini in nero, io avrò ottenuto la mia vendetta su Joshua uccidendo suo figlio, e ucciderò anche te.»
«Tanto se arriva la tua padrona morirò lo stesso no?»
«Potresti subire qualcosa di peggiore. Nel dubbio inizierò a mangiarti, lentamente.»
Non potevo più alzarmi. Cominciai a sentire dei dolori nelle ossa, come quando si ha una forte febbre. Ebbi anche la consapevolezza che la morte di Joshua per infarto fosse una copertura. Qualunque cosa gli fosse accaduta, non aveva rivelato l’ubicazione della sedia. Nemmeno io mi sarei arreso al dolore.
Di fronte al mio volto impassibile l’ombra si agitò. «Dannato gatto! Se non si fosse intromesso a quest’ora saresti stato già sotto il mio totale controllo!»
«E tu mi hai trasmesso a tradimento quella forza che lo ha ucciso. Kulaaniwa!» Presi la penna sulla scrivania e colpii con la punta la testa del bracciolo. Un gesto inutile, ma che mi diede soddisfazione.
E l’idea di scrivere al pc questo incubo, in attesa del mio ultimo respiro su questa terra.
Con il mio corpo deformato ad eccezione di testa, busto e questo braccio, continuo a fissare la telecamera.
Finalmente, sorrido.
Addio.
–
Racconto di Fabio Scarnato
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