Non era questa la mia vita fino a poco più di un anno fa. Né avrei mai immaginato che, da un giorno all’altro, mi sarei trovato in mezzo a una strada con un figlio che cerca di capire cosa ci è accaduto. Liam è così piccolo, non ha nemmeno compiuto quattro anni. Come posso dirgli che in realtà suo padre non ha fatto nulla per meritarsi un simile trattamento?
Io, che per la musica, la mia più grande passione, ho speso tanto, studiato, fatto sacrifici personalmente e non solo, anche i miei genitori hanno dovuto rinunciare a molte cose per permettermi di frequentare la scuola di musica, nello specifico; di violino. Quando sono diventato abbastanza grande da permettermi di pagare la retta lavorando, ho finalmente liberato la mia famiglia da quell’incombenza, anche se loro mai me l’hanno fatto pesare. Io ero il terzo figlio, l’ultimo, e capivo quanto era difficile accontentare ciascuno di noi. Ma forse, nonostante tutto, erano riusciti a cogliere il mio talento. Poi ho cominciato a suonare nei concerti a diciassette anni e anche per quello guadagnavo compensi. Ed ero felice.
Ben presto mi sono diplomato e poi sono diventato maestro. Ho avuto il piacere di insegnare la stessa musica con cui sono cresciuto, di tramandare le mie emozioni. Ho composto persino canzoni.
Mi sono innamorato un’altra volta, ma di Julia, musicista come me. L’ho sposata dopo soli nove mesi e di lì a poco abbiamo messo al mondo il nostro bambino. Avevo una vita piena, appagante, poi, improvvisamente, tutto è cambiato. Mia moglie è venuta a mancare per un difetto cardiaco e sette mesi dopo io sono stato accusato di molestie da parte di un’allieva. Non era vero. Il mio unico errore era stato aver scelto un’altra ragazza per un importante concorso nazionale.
Il nostro è un ambiente competitivo e spesso pericoloso, sgradevole. Dove per primeggiare si è disposti a qualsiasi stratagemma, a scavalcare e schiacciare chiunque, addirittura chi ti ha formato.
Purtroppo lei è stata credibile e a me è toccato il licenziamento immediato, il divieto di esibirsi nei concerti e di insegnare musica. Mi sono ritrovato un uomo triste, umiliato, logorato, senza più un lavoro, peraltro con un bambino a cui badare. Quindi, ho fatto ciò che mi riesce meglio. Ho preso il violino, caricato in spalla mio figlio e sono sceso in strada. Ho camminato e camminato. Sono giunto in un’altra città, in un’altra nazione. Mi sono fermato negli angoli opportuni, ma meno noti, e ho suonato la mia musica. Allietavo le passeggiate dei cittadini e dei turisti, e loro, se volevano e apprezzavano, lasciavano del denaro che a fine di giornata mi consentiva di dare un pasto al mio bambino e di acquistare un biglietto per il prossimo viaggio. Un nomade, ecco in cosa mi sono trasformato.
Certo, non immaginavo che qualcosa stesse per cambiare. Non lo sapevo ancora quando il treno si era fermato a Napoli. Non ci ero mai stato. Era una bellissima giornata di sole di febbraio, anche se faceva freddo. Avevo aspettato che Liam finisse la sua brioche e il bicchiere di latte caldo, gettato le carte e, stringendo la sua mano nella mia, sono andato a cercare un posto dove ricominciare a suonare, soltanto per poco, soltanto per un altro giorno. Ho incontrato altri musicisti e mi sono chiesto se indossassero i miei stessi panni.
Non volevo creare problemi a nessuno, per cui ho scelto un angolo lontano, dove non c’era concorrenza. Liam aveva abbracciato il suo orsetto e si era fermato accanto a me. Crede che questo sia il mio lavoro. Dice che è bellissimo. È felice quando i passanti ci lasciano delle monete e a volte anche delle banconote, ma poi è triste se qualcuno non ci presta attenzione. E quello mi strazia. Avrei voluto essere un padre migliore. Dargli una sicurezza. Lui se lo merita. Se fossi rimasto a casa nostra i servizi sociali sarebbero corsi a prendersi il mio bambino. Non volevo e non voglio perdere anche lui. È tutto ciò che mi resta. Liam pensa che io suoni per gli altri, invece la mia melodia è per lui e per sua madre.
Ho sfiorato la corda con la bacchetta e avviato le prime note de “l’Inverno” di Vivaldi. Ogni tanto alzavo lo sguardo dal violino per non perdere di vista mio figlio, per prudenza (perché non avevo il permesso di stare lì) e anche per curiosità. Finivo un brano e ne cominciavo un altro, regalando note al vento, al mare, alle orecchie di chi vuole ascoltare, a chi ama.
È stato poco dopo che mi si è presentata l’occasione. Un uomo mi aveva osservato per tutto il tempo, ma io non me ne ero accorto. Era dietro di me, su una panchina. Così, quando ho concluso il mio spartito, stavo riponendo lo strumento nella custodia, lui si è avvicinato. Era una persona distinta, avanti con l’età, ma portata molto bene. Mi aveva fatto i complimenti, io l’ho ringraziato e mi sono presentato, poi mi ha chiesto quali fossero i miei progetti. Mi sono sforzato di parlare al meglio la sua lingua, l’ho studiata, e gli ho risposto che non ci avevo ancora pensato ma che comunque stavo per lasciare quella città.
«Allora avrei io una proposta per lei. Le andrebbe di suonare per il mio locale? La sua musica si adatta perfettamente e io sto cercando un ottimo musicista»
«Davvero? Dove, signore?» Ho chiesto. Sì, forse in quel momento la mia espressione somigliava a quella di Liam quando qualcuno ci dona una mancia generosa. Ma il pensiero che avrei potuto rendere migliore il futuro del mio bambino era una speranza che non volevo lasciarmi scappare.
«Qui a Napoli, ma non solo. Le do il mio biglietto da visita. Mi chiami, per favore, desidero conoscerla meglio». Ho preso il biglietto e letto il nome, l’indirizzo e un numero di telefono con il cuore in gola. Prima di salutarlo, gli avevo promesso che lo avrei contattato presto. L’uomo coi baffi e il giaccone beige mi aveva sorriso, stretto la mano e se ne era andato. Io mi sono inginocchiato di fronte a mio figlio che stava contando le monete.
«Siamo ricchi papà, guarda!» ha gridato entusiasta. No, figlio mio. Non siamo ricchi, ho pensato. Però io ho te e farò qualunque cosa per proteggerti.
Così, nella stessa giornata, nei pressi della stazione, ho trovato una cabina a gettoni e composto quel numero di telefono. Non avevo molto tempo da perdere. Se la sua offerta non faceva a caso mio, avrei dovuto intraprendere un nuovo viaggio.
Rispose quasi subito il signor Paolini e mi ricevette a casa sua alle 8 di sera. Spiegai la ragione per cui c’era mio figlio lì con me, e raccontai un po’ tutta la mia storia. Io capii in fretta che Paolini era un uomo importante, con una certa impronta sulla città. Aveva davvero bisogno di un musicista per i suoi locali. La sua proposta di lavoro era allettante, tuttavia mi avrebbe esposto a un possibile rischio. Quando lo feci notare, senza tanti giri di parole, lui mi garantì una sicurezza, per me e per mio figlio, che non potei proprio rifiutare. Sapevo che forse non stavo agendo nella maniera più giusta, dopotutto la vita con me non lo era stata. Non volevo vivere senza mio figlio, questa era una certezza, e l’idea di vagare continuamente per il mondo non mi faceva impazzire.
Per cui, Vittorio Paolini, in pochi giorni, conferì a me e Liam due nuove identità, una casa, un lavoro ma, soprattutto, una speranza. Un presente e un futuro.
Non dovevo più fuggire.
–
Racconto di Monica Cerullo
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