Un grosso pugno si abbatté tre volte contro il portone, mentre l’altra mano dell’uomo reggeva una più minuta figura avvolta in un manto di lana grigia. Ransolco, dall’altra parte, accorse più in fretta che potè, per quanto glielo permettessero le vecchie gambe.

«Chi viene?», strillò volgendo l’orecchio buono al portone.

Da fuori si udì una voce debole, che mandava parole indistinguibili.

«Chi viene?», ripeté Ransolco con un accento di impazienza.

A rispondergli fu un altro colpo di maglio, e un tuono di voce che quasi lo rispedì indietro.

«Apri, vecchio! È Belegrario che viene!»

«Belegrario!», esclamò il custode reggendosi il petto.

Combattendo contro l’artrosi alle dita, aprì il portello per far entrare l’inatteso ospite, ma si trovò davanti un tronco d’uomo che da lì non sarebbe mai passato. Bisognò spalancare tutto il portone per permettere ai due viandanti di sfuggire al gelo che, nonostante l’estate, si faceva ancora sentire sulle vette del Monte Ghifafrer.

Belegrario appariva molto provato dal viaggio, il capo chino e lo sguardo vacuo, la lunga barba dismessa e costellata di coriandoli di neve. Il suo compagno, invece, non accusava alcun segno di spossatezza. Non era giovane, ma godeva della salute e della possanza tipica degli uomini oltre-nord, quel popolo di cacciatori quasi sconosciuto agli Ystorieliani delle regioni più temperate.

«Quest’uomo ha bisogno di cibo e calore», disse il gigante ponendo Belegrario tra le braccia tremanti del custode, «A me basterà della birra, se ne avete di buona da queste parti.»

Quel giorno Sinesgarmo aveva chiesto di poter pranzare nel suo studio, per continuare senza interruzioni certe ricerche. Sul largo tavolo la minestra, intonsa, si stava ormai raffreddando mentre lui muoveva le dita tra carte, pergamene e pagine di tomi ammuffiti. Le folte sopracciglia gli si contorsero come bruchi morenti quando sentì arrivare Ransolco tutto trafelato.

«Prendi aria, amico, e dimmi che succede. Non vedo a che ti serva correre quand’anche fossi inseguito da un orso. Ormai siamo troppo vecchi per avere l’energia e la volontà di sfuggire a qualunque fine.»

Il custode, reggendosi allo stipite della porta, annuì e provò a rispondere.

«Ci… sono… visite… Bele… grario…»

Sinesgarmo, dimenticando l’età, si alzò di scattò e uscì dalla stanza a grandi falcate.

«Te la sei presa comoda per avvertirmi, eh Ransolco?»

Arrivando in un salone, trovò che Belegrario era stato disposto, avvolto come una mummia, sopra una panca imbottita. Ad alimentare il fuoco che lo riscaldava c’era un imponente esemplare d’uomo con indosso solo un paio di larghe mutande. Sinesgarmo, vedendo quella inusuale scena, fu incapace di dare il benvenuto ai suoi ospiti. L’oltre-nord, accorgendosi della sua presenza, prese l’iniziativa e andò a stringergli la mano.

«Grazie per l’accoglienza, signor vecchio. Io sono Kreith, e devo dire che da queste parti fa un caldo d’inferno! E nonostante ciò devo sudare sette pellicce per scongelare il vecchio Bel.»

«Piacere mio…», fece Sinesgarmo ancora stranito.

Si sciolse dalla morsa di Kreith e andò ad accovacciarsi accanto a Belegrario, che si agitava sul suo giaciglio per attirarne l’attenzione.

«Belegrario, vecchio amico! Non sai quanto mi riempia di gioia rivederti dopo tutti questi anni… quanti saranno, venti? Trenta? Sono davvero felice di averti qui, ma, ahimè, ti vedo malridotto, e temo che la tua presenza non sia dovuta al mero piacere di farmi una sorpresa. Porti cattive nuove, vero?»

«Ho visto cose terribili», stentò a dire Belegrario, «Ma lascia che mi riprenda un attimo, e ti racconterò tutto. Ti dirò tutto, anche se ti parrà di sentire i deliri di un moribondo…»

Belegrario venne nutrito e accudito, e dopo qualche ora di riposo in una piccola cella del monastero, ebbe recuperato le forze necessarie per parlare col suo amico. Sinesgarmo chiese che fossero lasciati da soli e, mentre fuori cominciavano a ululare i lupi, interrogò il degente.

«Oh, Sinesgarmo, sono passati davvero tanti, tanti anni dall’ultima volta che si siamo visti. Ricordo che decidemmo insieme di abbandonare l’Accademia di Ylhovrest… tu per ritirarti a studi più profondi tra queste montagne, io per vagare nel globo alla ricerca di storie che non erano scritte nei nostri libri d’occidente. E ne ho apprese di storie, amico. Storie grandiose, di imperi caduti, eroi invincibili e mostri da far paura a qualsiasi gigante. Ma quello che ho visto nelle gelide pianure dell’oltre-nord, amico mio, mi ha terrorizzato!

«Niente che abbia a che fare davvero con quelle gelide pianure quasi prive di vita, è vero, ma proprio lì qualcosa di orribile era custodito. È buffo, sai? Quello era un viaggio di ritorno, in realtà… Sapevo di aver sfidato già troppo a lungo la mia età e il mio corpo, e avevo deciso di tornare ad Adelweiss per riposarmi, ma la mia testaccia dura mi ha convinto a fare il giro, per così dire, lungo. Ah! C’erano leggende di città sperdute tra i ghiacci che stuzzicavano incessantemente la mia curiosità e pensai: perché non dare un’occhiata tra le lande al limite della terra per concludere il mio viaggio? Era un’idea sciocca, lo so, e uno sciocco sono senz’altro io, ma che porta notizie importanti!

«Assoldai il buon Kreith per essere accompagnato nel mio vagabondare, e sono davvero contento che la sorte mi abbia accoppiato a questo essere ricco di coraggio. Chiunque altro, ne sono certo, mi avrebbe abbandonato nel momento peggiore. Assieme a lui trovai una città lontana sia fisicamente che moralmente da qualsiasi civiltà. Dapprima ne fui affascinato, lo devo ammettere. Pensavo fosse un curioso popolo di selvaggi dall’animo puro come il ghiaccio su cui avevano le case, ma qualcosa aveva infettato da chissà quanti secoli il loro cuore. C’era un culto oscuro in quel paese, mostri raffigurati ovunque, e una strana forma di mutismo collettivo che si trasformava in follia e violenza quando il cielo si tingeva di verdi aurore.

«La loro religione ruotava attorno a un inquietante manufatto che scoprì solo dopo diverse settimane. Sai, inizialmente io e Kreith eravamo trattati molto bene, e noi avevamo pure una buona impressione di loro prima di vederne riti. Il mio amico cercò di convincermi ad abbandonare quel luogo malato, ma io sentivo che c’era qualcosa da imparare ancora, o da scoprire. Infatti lo trovai! Quel manufatto che ti dicevo, era celato in una profonda caverna a cui potei accedere solo di nascosto, poiché era un luogo sacro e proibito. Le pareti di roccia erano ricoperte di pitture paurose… mostri ti ho detto, e creature orrende, divinità dall’aspetto truce che compivano azioni aberranti. E poi lo toccai… quell’enorme… scaglia! E non appena vi poggiai sopra il palmo della mano, venni trasportato… la mia mente venne trasportata in un luogo che ancora rivedo nei miei incubi.

«Non vidi niente chiaramente. Erano immagini distorte e sfocate, come disegnate dal fuoco si muovevano in continuazione. Vidi creature gigantesche, Sinesgarmo. Titani, padroni di una terra tetra e squallida, compivano azioni che difficilmente potei interpretare. Erano all’opera su qualcosa… costruivano, assemblavano qualcosa! C’erano corpi morti, o inanimati, grandi quanto loro o di più. E loro li riportavano in vita… o li attivavano, non so. Ne vidi uno, inserire un cuore di fiamme e luce dentro… e la creatura aprì gli occhi… e mi guardò. Guardò, me, amico mio, ma io sapevo di non essere lì! E fu allora che capii, o forse loro mi fecero capire, che non vedevo né il passato, né il futuro…»

Belegrario ebbe un sussulto e ricadde supino, mentre Sinesgarmo gli stringeva le mani.

«Amico mio, cos’è che hai visto? Cos’erano quelle creature?»

Scosse il suo corpo, per ridestarlo, ma Belegrario riuscì a sussurrare solo poche parole.

«I cieli… si tingeranno di verde, di nuovo.»

Poi spirò.

Racconto di Leonardo Iacono.