«Tienici un attimo il banco, Mechi, che vado a farmi una chiacchiera con Gethzevir».

Quello annuisce mentre col panno continua a pulire il boccale. Per essere quasi mezzodì, per fortuna, oggi di gente se n’è vista davvero poca, non che me ne lamenti, sia chiaro. Ogni tanto anch’io mi devo riposare un po’.

«Mia locanda preferita, donna. Sempre un tavolo a disposizione per questo vecchio rompiscatole» mi dice lo Stregone seduto al tavolo.

Io mi c’avvicino sorridendo e poggiandomici sopra con la mano, provo a mostrargli la scollatura della vestaglia, non si sa mai, metti che ci scappa una sveltina. Ma quello nemmeno me le guarda, le tette. Si beve il succo di more e mirtilli, corretto con liquore come so fare solo io, e per quanto sembra sia contento, se ne sta parecchio sulle sue. Non era il solo, stamattina.

«Tutt’apposto Getthy? Ti vedo un poco stranito». Il succo gli cola giù dalla barba crespa, bagnando un po’ anche i baffoni.

«Ah, donna, tu non devi preoccupare. Io solo stanco. Viaggiato tanto negli ultimi dvhoriji. Ora vuole solo tornare casa mia».

«Mh, va bene, Stregone. No, perché avevi l’aria di essere l’ennesimo che s’era stranito per quel botto strano di prima».

«Sì, io sentito. Rumore molto forte, come di vulcano. Ma io viste tante in miei viaggi, forse solo terremoto su in montagna, come altre volte. Non preoccuparsi, dico io».

Non preoccuparsi, e forse tiene pure ragione. Ma quella mattina già cinque persone mi sono venute a chiedere in locanda se l’avevo sentito pure io, quel botto, e a dire la verità io non l’avevo sentito proprio per niente. Ma d’altronde, tutte le volte che fa il terremoto nella Valle, io non me ne accorgo mai, quindi non faccio molto testo.

«E dimmi un po’, dove te ne sei andato di bello?»

«Grande Deserto, a sud di Stella.»

«E che cazzo sei andato a fare alla fine del mondo?»

«Studi. Ricerche per monastero.»

Il vecchio trinca l’ultimo sorso e svuota la tazza, leccandosi i baffi e pulendosi con la manica di camoscio.

«Davvero buono tuo liquore.» Sorrido inarcando le sopracciglia. Brutto vecchio bastardo, è ovvio che è buono, l’ho fatto io!

«Da quanto sei in viaggio?»

«Una settimana.»

«Una settimana? E come cazzo hai fatto a viaggiare dal Ghifafrer al Grande Deserto in una sola settimana?»

Lui sorride, sbattendo le palpebre più volte.

«Sono Stregone, donna. Avrò pure miei segreti, non credi?»

«Beredith! Le botti sono vuote, tocca andare a prendere l’acqua al fiume, ci vado io?»

Mi volto verso Mechidol che mi strilla da dietro il bancone. Fortuna che il salone è quasi vuoto, altrimenti ci avrei corso contro e gli avrei tirato un ceffone così forte da rovesciargli la faccia come una calza. Ma, come ho detto, fortuna che il salone è vuoto.

«No, piccolo usignolo, ci vado io a riempire l’acqua, che tu c’hai le braccia troppo esili. Tanto qui col vecchio io ho finito.»

Lui solleva la tazza vuota e mi fa un cenno di riverenza col capo, io mi scosto dal tavolo e capisco che oggi non ci posso concludere niente con quello là, e va bene pure così, anche se da quando Derghat se n’è andato, non sono ancora riuscita a rifarmi una scopata di quelle come si deve. Forse sono stata troppo dura con quell’Ogre.

Ma per quanto riguarda il vecchio, non c’è proprio storia in questo momento. Di lì a poco se ne riparte per il monastero, magari giusto il tempo di svuotare la vescica alla latrina, prima.


Di gente in giro, a Urwine, ce n’è parecchia invece. Stanno a muoversi a destra e a manca coi cesti in testa o stretti tra le mani, portando carriole di legno piene di grossi ceppi e arbusti. La bancarella di Joffry ha ancora tutte le stoviglie poggiate sopra, nonostante sia mezzodì, nessuno s’è ancora messo a comprarle. Il piccolo Jimmy Felton rammenda gli stivali a un tizio con una camiciola sbottonata e i peli in bella vista, seduto su un tronco mozzato a fumarsi ‘na pipa.

Anche se quello sta col petto da fuori, devo dire che fa piuttosto fresco, per essere in estate.

A vedermi andarmene al fiume, coi secchi vuoti in mano, già tre giovanotti m’hanno chiesto se volevo ‘na mano, ma io di ‘sti fringuelli volenterosi non è che mi fido poi tanto, le cose mi piace farmele da me, specie quando si parla di lavoro. Qorin SenzaPiedi, adagiato sul suo carretto di legno, mi saluta battendosi il mestolo sulla pentola che indossa in testa come fosse un elmo, gli faccio un cenno e un sorriso a quel poveretto, e me ne continuo a camminare verso la secca.

La Torraccia del Focolare troneggia sotto un cielo nuvoloso, che in tutti gli anni della mia vita, non avevo mai visto prima. Un colore strano, un verde spento, morto, che pare quasi di putrefazione. Forse deve piovere, o forse qualche Mago testa di cazzo si sta divertendo con qualche esperimento.

A nord c’è fumo.

Un bel cumulo nero che sale verso l’alto da dietro le montagne, e che già con quelle nuvolacce lì, a oscurare il sole, fa sembrare quasi di non essere nemmeno a mezzogiorno, pare più quasi di essere al vespro. Quel fumo, però, c’ha qualcosa di preoccupante. È alto, molto alto, e dietro quelle montagne ci sta solo un posto che può bruciare. Uno e uno soltanto. Poi, c’e nell’aria ‘sta puzza. Come un odore d’arrosto di carne andata a male.

«Sta a Illhebron, è da un’oretta che va avanti così».

Jeremy mi sta dietro e mi posa la mano sulla spalla alla stessa mia altezza, poi fa per afferrare uno dei secchi, e io glie lo cedo. Non smette mai di fissare il fumo.

«A Illhebron, dici? Che sarà? Gli Imperiali?»

«Nah, non credo siano davvero così imbecilli. Quelli gli alberi li bruciano e li ripiantano in due giorni, ma guai a farlo fuori dalle loro colonie.»

«Illherbon non è mai bruciata, Je.»

«E che lo dici a me? Forse il caldo di ‘sti giorni, io che ne so.»

Una frotta di gente comincia a strillare da dietro di noi, uomini e donne. Si lamentano, bestemmiano e imprecano. Io mi volto e vedo l’Urwanen esondare oltre i bordi all’improvviso. L’acqua sale e investe le bancarelle, spezza i moli e fa rovesciare le chiatte. Mi si blocca il cuore per un momento, getto il secchio a terra e me ne tiro indietro, trascinandomi Jeremy con la mano e risalendo le scalinate che portano alla secca. Le lavandaie si fanno indietro strillando e tutti i panni finiscono nell’acqua, alcune finiscono pure loro nel fiume. Non faccio in tempo a vedere se stanno bene o no, non faccio in tempo a vedere niente.

«Ma che cazzo sta a succedere?» Jeremy alza la voce, è incazzato e spaventato allo stesso tempo.

«Getta il secchio, torniamo su! Attento, attento!»

La corrente aumenta e stavolta sembra quasi che ci sta un’alluvione, anche se non piove da giorni.

Io e Je ce la filiamo da lì e proviamo a risalire verso il chiosco che sta in alto, quando si sente un boato d’inferno. Uno stridore di metallo, come un corno di guerra che tuona nel cielo. Qualcosa di assordante, di terrificante. Tutti si gettano a terra tappandosi le orecchie, e pure io. Mi sale un groppo alla gola e sento il petto che sussulta forte, le gambe pure mi cominciano a tremare. Cazzo, sto quasi per farmela addosso.

«Cos’è? Cos’è?» grida qualcuno dietro di noi. Ma poi smette subito, quasi si fosse zittito di colpo.

In mezzo alle persone c’è un pilastro nero. Enorme. Lucido. Non era lì un minuto fa. Non è un pilastro, però. È a punta. Sembra quasi una spina. Una spina nera.

Dalla cima della spina piove qualcosa, è rosso denso. Ne piove così tanto che sembra come se una botte piena di vino fosse stata scoperchiata e rovesciata. Ma quello non è vino.

Una donna urla, urla così forte che mi vibrano le orecchie. È solo a pochi passi da me. Grida “Amore mio! Amore mio!” ma io non capisco.

«Ce ne dobbiamo andare, Bery! Ce ne dobbiamo andare subito!» Jeremy mi afferra il polso e me lo stringe quasi da spezzarmelo. Mi prende di forza, una forza che non gli avrei mai e poi mai potuto riconoscere. Mi trascina via, verso la locanda. Verso la Barba Dorata. Dove stanno tutti gli altri.

Il terreno trema, l’aria vibra, urlano e gridano tutti quanti. Sento i muri esplodere, il legno spezzarsi, poi la carne triturarsi. Vedo spine, rovi, fili neri, bianchi e rossi. Vedo briciole, brandelli di carne per terra. Ho le mani lorde. Di cosa? Non può essere sangue, non può essere sangue.

Jeremy smette di trascinarmi. S’è fermato, io mi volto perché voglio capire che gli è saltato in testa, ma lui non c’è. Eppure mi sta stringendo ancora. Eppure la sua mano è ancora attaccata al mio polso.

«Jeremy?»

«Gli dèi sono morti, mia Regina! È giunta infine l’ora Viridiana! Oh Madre delle Lacrime! Regina dei Chiodi! Salvami! Salva il tuo servo!»

Quel vecchio pazzo che strilla lo conosco, lo conosco eccome.

«Jeremy, che stai facen…»

Il moncherino gronda sangue e la mano di Je è pallida e rigonfia. Io strillo mentre me la faccio addosso e mi si inzuppa la vestaglia. Grido, mentre qualcosa mi risale dai lombi alla gola e mi serra il respiro in una morsa. Con le dita stacco via le sue dal mio polso, e getto quello che rimane di Jeremy a terra, e per un attimo casco col sedere pure io.

Un muro mi esplode di fianco, i mattoni volano per aria e i ceppi e le schegge mi svolazzano addosso, mi si ficcano nella carne. Le orecchie mi fischiano.

«Non sono gli Imperiali, Jeremy…»

Il vecchio pazzo ha smesso di gridare. Adesso gorgoglia, stride, come se stesse soffocando. Non voglio girarmi nemmeno a guardarlo. Sento solo le sue ossa spezzarsi e la sua voce riempirsi di rantoli inumani.

Mi alzo e comincio a correre. Non c’è tempo per nient’altro.

Corro senza nemmeno stare a pensare a quello che succede. Davanti a me c’è una calca di persone che si camminano addosso, una montagna di corpi che si muovono, che imprecano, che strillano e piangono.  Sono quasi arrivata, ma da lì non ci passo, non ci passo manco per sbaglio. Devo cambiare strada, la locanda è lì davanti, la vedo pure, ma con tutta sta gente non riuscirò mai ad arrivarci. Prendo il vicolo che passa dietro la bottega di Renfort, senza pensarci sfondo il cancelletto con una spallata e mi faccio una corsa fino al muretto.

Ci sono quasi.

La Barba Dorata, eccola lì, proprio dietro quel muretto. Viene stritolata da una morsa di spine nere alte come case, viene accartocciata come una pergamena che brucia tra le fiamme. Esplode tra pezzi di legno e pietra. Qualcuno lì dentro ha gridato forte.

Mi faccio indietro, casco per terra e mi rialzo. Poi corro di nuovo via. Via. Via. Via da lì. Via da qualunque posto. Sto piangendo, anche se non c’è tempo per piangere.

Sbatto contro un vecchio col barbone grigio, sta imprecando forte, parla una lingua che non conosco. Si agita, come in una danza. Sembra cantare. Muove le mani, stringe qualcosa. Poi mi guarda negli occhi, i suoi sono lucidi e rigonfi, come i miei. Mi afferra stretta e poi getta qualunque cosa stesse tenendo in mano per terra. Sale un fumo d’argento.

Poi buio. Vuoto. Sembra come cadere e galleggiare allo stesso tempo. Forse è questo che si prova quando si vola? O forse sono morta. Non riesco a sentire niente.


Sbatto i polsi sul terriccio, è pieno d’erba, puzza di terra nuova. Sembra come se mi ci fossi schiantata addosso in caduta libera. Mi gira la testa, tanto. Cielo e terra si confondono tra di loro, non ci capisco più niente.

Mi giro giusto un secondo e vomito tutto quello che tengo in corpo, due volte. La bocca acida e acre mi regala una sensazione che conosco bene, la prima da quando è iniziato tutto quanto. L’uomo a fianco a me sta imprecando, si lamenta, ripete sempre la stessa cosa. Forse lo conosco, forse è Gethzevir?

Lo osservo per poco, per quanto riesca a farlo. È in ginocchio, si tiene la testa tra le mani. Osserva l’orizzonte, ripetendo sempre la stessa cosa.

«Dljia bogh ovv! Dlijia bogh ovv!»

Guarda davanti a sé. Mi ci trascino a carponi, voglio vedere anch’io. Voglio capire.

Urwine è proprio laggiù, sotto ai miei piedi, sul fondo della valle. Distrutta, stretta dai rovi e dalle spine che ancora si muovono come se fossero vive. A ovest, verso il Veitkarm, una figura alta più di cento piedi fluttua sopra l’acqua. Al suo passaggio si ereggono spine acuminate, che dal fondo del lago spuntano fuori fino ai suoi piedi, come tanti aghi stridenti. La creatura emette un verso, un canto, rimbomba nella valle come il corno tonante nel cielo di poco fa, anche se stavolta la sua eco è diversa. Sembra un lamento, come il sussurro tetro di un’amante in estasi.

In lontananza, dietro i picchi innevati, verso Illhebron, un altro gigante discende lento dal ghiacciaio, mentre una valanga l’accompagna e una scia nera di fuoco e fiamme segue i suoi passi. L’essere risponde tonando a sua volta, un suono ben più greve e pesante. Un suono che sembra quello di una campana grande come una montagna.

«Che… che cosa… che sta succedendo?».

Il vecchio si volta verso di me, e a guardarlo bene sembra proprio Gethzevir, stavolta.

«Sono tornati! Beredith! Sono tornati! Sinesgarmo aveva ragione! I segni erano corretti! Loro hanno aperto Cancello!» strilla lui venendomi incontro di corsa.

«Chi… chi è tornato?»

Gli esseri continuano a cantare, quasi si stessero richiamando a vicenda. La creatura che ha distrutto la mia casa si muove con grazia, sembra quasi una donna. Sembra quasi essere sospesa tra la terra e il cielo. In posa come una cariatide. Regale come una regina. Il vecchio Stregone s’abbassa di fianco a me, mi prende il capo e mi fissa dritto negli occhi rigonfi.

«Gli Angeli, Beredith. Gli Angeli sono tornati…»

Racconto di Tiziano Ottaviani.