«Ascoltami, dannato idiota!» Lo straccione che profumava di sangue e fior di vinaccia lo scosse, tremando.
I suoi occhi color vino erano iniettati di sangue.
Il Bardo doveva averlo già visto. Se lo ricordava, eppure non sapeva chi fosse.
Un avventore, forse?
No.
«Sta arrivando a prendermi, idiota maledetto, e poi sarà il tuo turno. Devi dirmi cos’hai visto!»
Era mezzo nudo, avvolto solo nel mantello, il volto era chiazzato di sangue secco.
Il Bardo aprì la bocca e sentì il disperato vuoto che si agitava tra le sue fauci. Fiori della parsimonia, ecco cosa chiamava la sua lingua.
Le dita pizzicarono le corde del liuto, quasi uno spasmo.
Qualcosa di più forte. Tassofumante, spine di istrice, qualunque cosa.
Biascicò qualcosa che non capì nemmeno lui.
«Andiamo, bastardo d’un bastardo, dimmelo. Devi aver pur visto qualcosa, un modo per ammazzarlo…» Gli occhi dello straccione erano pieni di terrore.
Il vicolo dietro la Barba Dorata era deserto, come ogni sera. Almeno dalla morte di quei due Asgaillani incauti.
Gli mancava il sapore dei fiori. Gli mancava sua madre.
Non ricordava il suo volto, ma quello dello straccione invece sì. Dove l’aveva già visto? Cos’era, un parente? Aveva la sua età. Poteva essere suo…
«Fratello, rispondimi. Tu sei l’unico che non ha trovato, e quando troverà me io…» Il barbone sporco di sangue si irrigidì. I suoi occhi si spalancarono.
«Quando troverà me…» Scosse la testa. «Troverà te.»
Le lacrime corsero in fretta sulle sue guance. Crollò in ginocchio, le mani adunche scivolarono via dalla blusa del Bardo.
«Volevo solo vivere, fratello. Perdonami. Perdonami…»
Svanì com’era apparso, nella nebbia d’astinenza che circondava i sensi del cantore.
Pizzicò di nuovo le corde, immobile come se l’aria ghiacciata l’avesse congelato, ritto in piedi nel vicolo, spalle al muro.
Come la sua prima esibizione.
Poco lontano, un grido. Qualcuno non sarebbe tonato a casa, quella sera
La sua canzone come faceva?
Iniziava con un nome, un nome, un nome…
Ferain? Feltha? Feltha, Feltha dai riccioli castani…
La melodia non suonava. Il nome era un altro.
Feolan, Faolan, Filies, Farder, Feri, Ferou, Feoran, Feolid, Feonar, Feonith.
Feonith.
Mio dio/mio fratello.
Scosse la testa. Cos’era quella luce/sole?
Lo aveva visto/previsto. Cos’era? Chi era quell’uomo/mostro che li stava…
Si premette le mani contro le tempie per attenuare la feroce coltellata che gli si stava piantando nel cranio. Passi ovattati alla sua destra.
Era scappato. Si era rinchiuso nel corpo del bambino, aveva… aveva preso quelle delizie/droghe per assopire/dimenticare.
Per nascondersi.
Perché non lo trovasse/ammazzasse.
E quel bambino, tanto, era già rovinato. C’era voluto un nulla per incarnarsi in lui, non lo curava nessuno.
Il suono di metallo/una catena. Altri passi nel vicolo deserto, nell’aria di vetro.
Si era spinto troppo oltre, lo capiva/comprendeva anche lui. Non si può ficcare tutta quella dolcezza/droga nel corpo di un bambino/mortale e sperare che la sua mente…
Feonith/fratello.
Era bastato un volto/ricordo.
Avrebbe dovuto prevederlo, ma chi mai sarebbe venuto a cercarlo lì?
Le sue dita sfioravano le core senza che nemmeno volesse farlo. La musica/vita era così dolce che avrebbe sciolto le pietre.
Avrebbe.
Se lui fosse stato ancora un dio/normale. Se non ci fosse stato davanti a lui quell’uomo/quel mostro.
I passi lenti, l’incedere svogliato. Si posizionò davanti a lui e lo tirò su, lo piantò contro il muro.
Il Macellaio teneva una catena/una serpe di ferro girata sei volte intorno al collo. Gli usciva dritta dal ventre, girava sulla pelle e finiva…
Ectelidat guardò un’altra volta in basso/al ventre. Non l’aveva nemmeno sentita. La catena gli perforava la pancia.
«Mancavi solo tu.» Il Macellaio sorrideva/ghignava. «Bell’idea, devo riconoscerlo.»
Del manrovescio si accorse, invece.
I suoi denti/i denti del ragazzo saltarono come fossero marci. In effetti lo erano.
«Idea da codardo. Guarda cosa siete diventati.» Lo sollevò per il collo, incurante del fiume di sangue che sgorgava dalle sue labbra/labbra del ragazzo. «Nascondersi dentro un mortale e fargli fare questa vita. Sei l’esempio perfetto di quanto siate diventati dei vermi.»
Gli occhi del Macellaio scintillarono. «Speriamo che quelli nuovi siano meno deludenti di voi.»
Chiuse le dita sulla/nella sua gola.
Il muro della Barba Dorata si tinse di un cupo color vermiglio.
Ne avvertirono il tremito nel dissipatore di vibrazioni un attimo prima che la matassa di fili trasparenti si contorcesse tra le loro dita.
Arabrab e Ihmoneth sentirono quella scarica di aghi agitarsi e sfregiare i loro palmi nudi, immersi nel liquido biancastro, e mugolarono di gioia. Si guardarono, lacrime di pura grazia che scendevano lungo le guance incise.
Le loro gole riarse non avevano più corde vocali, ma i loro visi deformi esprimevano la stessa cosa. Il tempo era giunto.
Né Arabrab né Ihmoneth pensavano che, nella loro misera esistenza, sarebbero stati testimoni di tale avvenimento, durante il loro incarico.
Gli scrutatori della Macchina passavano la loro esistenza in ginocchio e nel silenzio, a stringere i fili dell’Oracolo in attesa del momento propizio. I supplicanti morivano e nascevano al cospetto della Macchina, rispettando il suo silenzio per eoni. E ora si era mossa.
L’ultimo era caduto.
I loro crani pulsarono in estasi, le dita sciolsero la presa su quell’anguilla meccanica di futuro e profezie.
Le loro ginocchia non erano più fatte per alzarsi in piedi, e i due supplicanti strisciarono sulla ghiaia di vetro, prostrandosi a ogni passo e lasciando che i frammenti appuntiti scorticassero la loro carne.
Un impulso di dolore attraverso l’etere, vicino alla Macchina, l’avrebbe chiamato.
L’Angelo giunse.
La sua apparizione corrose i loro occhi, le loro gole essiccate emisero un rantolo di agonia e gioia.
Mani di bisturi organici e ossa d’acciaio affilato aprirono i loro crani, vi frugarono dentro come per leggere un oracolo.
«Ys-toriel.» Una lingua che pareva la loro trapassò i timpani dei supplicanti. Le orecchie presero a sanguinare.
L’Angelo straziò con le dita di metallo vivo le loro cervella, saggiandone le visioni. «L’ultimo protettore. L’ultimo Dio è caduto.»
La grottesca parodia di un sorriso si aprì su quella che forse si poteva considerare una bocca.
«Allora, adesso, non c’è più nessuno a fermarci.»
–
Racconto di Luca Vitali.
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