La luce del monitor illumina i faldoni disordinati e la tazza di caffè.
Scrollo col mouse le tabelle delle rilevazioni Geiger.
Questi dati non hanno senso.
Apro la cartella “Aprile 1986”, cerco il file “50Km dal reattore”. Divido lo schermo tra le due cartelle, e analizzo riga per riga.
Non è possibile.
I valori sono più bassi, eppure la proporzione tra i Roentgen è evidente.
Copio i numeri a mano e li inserisco nel programma di calcolo, clicco su “creazione grafico”.
La progressione dei dati è la stessa di trentacinque anni fa quando è esploso il reattore.
Bussano alla porta.
«Avanti.»
Mi stacco dallo schermo e appoggio la schiena alla sedia.
Dabosky entra, sfilandosi il cappuccio di neoprene. Le occhiaie gli scavano il viso già scarno, ha in mano una risma di fogli pinzati in un angolo. «Professor Kunesov, c’è un altro problema.»
Uno solo? Ci metterei la firma. «Di che si tratta?»
«Abbiamo attivato i generatori di emergenza, ma non è servito. L’intero reparto è completamente al buio. Nessun apparecchio elettronico funziona nel raggio di cento metri. Abbiamo chiuso tutte le porte manualmente e isolato il laboratorio.»
Prendo la tazza e butto giù un sorso. È freddo. «Siete riusciti a fare qualche esame al soggetto?»
«Nessuno. Solo lo spettrometro gamma ha dato qualche risultato.» Mi porge gli appunti. «Ma, probabilmente, è andato in tilt anche quello.»
Accendo la lampada sul tavolo e leggo.
1,716 Roentgen. Radiazione assorbita dal soggetto…
Alzo gli occhi su Dabosky. «11,3 Sievert.» Butto i fogli nel cestino. «Lo spettrometro non funziona. Ripetete i test del cesio 137.»
«Già fatto, Professore. I dati corrispondono con quelli del contatore Geiger. So che sembra impossibile ma—»
«Non lo sembra, Dabosky, lo è. Nessun essere vivente sopravvive oltre i cinque Sievert assorbiti. Mandatemi il colonnello Gulkarich. Anzi, no.» Mi alzo dalla sedia, le gambe formicolano, mi ricordano di essere seduto da più di sei ore. «Procurami una tuta e accompagnami da lui.»
Ansimo, il fiatone appanna il vetro del casco protettivo. La pettorina di piombo pesa una tonnellata.
Mostro il tesserino alle guardie all’ingresso della tenda di comando. Una mi fa cenno di attendere e entra nell’unità anticontaminazione.
Stiracchio le spalle indolenzite.
A qualche centinaio di metri, la cupola di cemento del laboratorio 3E è una macchia nera contro il cielo notturno. Decine di fari montati sui mezzi militari ne illuminano il perimetro, gruppi di soldati in tuta antiradiazioni la circondano con camionette e blindati a intervalli di una ventina di metri.
Tutto per un solo uomo.
Il colonnello Gulkarich compare sulla soglia della tenda.
Cammina tranquillo sotto il peso della pettorina, i baffi folti e spioventi mi ricordano un famoso personaggio del nostro passato.
Il cappuccio è ripiegato sotto il braccio.
«Buonasera colonnello. Posso chiederle come mai non porta il casco?»
«Due minuti d’aria, Kunesov. Ma poi ditemi, è davvero necessario?»
«La radioattività misurata nel laboratorio è molto alta.»
Sbuffa. «Abbiamo fatto un errore, a portare roba fuori da Chernobyl. Dovremo abbatterlo, seppellirlo laggiù e richiudere tutto.» Si infila il casco. Le mostrine rosse e oro sono dipinte sulla fronte
«Colonnello, siamo andati là a cercare materiale da studiare, e ora che l’abbiamo trovato vuole fare finta di niente?»
«I rischi sono troppo alti.» La voce suona distorta sotto la maschera. «Le squadre rimaste a monitorare il reattore dicono che la radioattività aumenta di ora in ora. Abbiamo anche un contaminato.»
«Vero, ma dobbiamo capire perché. Ormai è tardi per tornare indietro, se davvero abbiamo smosso qualche equilibrio, va ripristinato.» Indico la cupola. «E poi, quell’uomo è l’unica persona sopravvissuta a un livello di radioattività così elevato. Dovremo capire chi è, e cosa ci faceva là dentro.»
Il colonnello si volta verso il laboratorio. «Voi lo avete visto?»
Scuoto la testa.
«Io sì.» Tira il fiato. «Quando lo hanno portato fuori, sembrava… un normale cadavere carbonizzato. Poi ha aperto gli occhi. E ha iniziato a muoversi. Ho fatto quattro guerre, professore. Ma uno spettacolo del genere me lo ricorderò finché campo.»
«I miei assistenti hanno provato a prelevare del sangue, ma non ci sono riusciti. Abbiamo dei campioni di pelle per il test del dna, ma sicuramente sarà distrutto dalle radiazioni. Sarà una miniera di informazioni, comunque.»
Il colonnello mi si piazza davanti. «Se può servire a qualcosa, bene. Vi do dodici ore, poi lo riportiamo là e richiudiamo tutto. Ho già chiesto al Cremlino l’autorizzazione per ulteriori gettate di cemento sul nocciolo.»
«Colonnello, ma non vi interessa sapere chi è quell’uomo? Come è arrivato lì, cosa faceva… non credo che un senzatetto qualsiasi vada a dormire sotto una centrale nucleare esplosa.»
Il colonnello fa dei versi strani. Sotto la maschera, non capisco se ride o tossisce. «Lo sappiamo già, Kunesov. E se riuscissimo a fare un esame dentale, avremo la conferma.»
«Non capisco…»
«Abbiamo trivellato metri di cemento per accedere al reattore. Non c’erano altre entrate. Non so come sia possibile, ma quell’uomo è sempre stato lì, da quando hanno sigillato il sarcofago.»
Mi accorgo che ho la bocca spalancata. «Mi sta dicendo che quell’uomo è…»
«Valerij Il’ic Chodemcuk. L’ingegnere il cui corpo non fu mai trovato.»
Il portellone dell’anticamera mi si chiude alle spalle. Qualcuno fa cigolare i blocchi d’acciaio e lo sigilla. Attraverso il laboratorio, la lampada a olio mi ondeggia in mano. È roba da medioevo, ma fa il suo dovere. Ce ne sono parecchie in giro, l’aria è piena di cesio 137 e tinge le fiamme di blu intenso.
I vari strumenti che riempiono la sala sono spenti, alcuni monitor sono venati, altri addirittura aperti e anneriti.
Rannicchiato in un angolo della stanza, c’è Valerij Chodemcuk.
Mi blocco a qualche metro da lui.
Mio dio, sembra una roccia fusa. La pelle è opaca e porosa, come calcare lavico sedimentato su più strati. Gli arti sembrano proporzionati, a prima vista. Dal cranio calvo spuntano escrescenze irregolari. Mi ricordano i funghi che crescono sui tronchi.
Prendo un grosso respiro attraverso i filtri della maschera. Dio, ti prego, fa che questa roba funzioni.
Guardo il contatore Geiger. 2,113 Roentgen. Tre minuti massimo, se non voglio una collezione di tumori.
Faccio un passo avanti. «Valerij…»
Si volta.
Il mio urlo rimbomba dentro la maschera.
indietreggio, sbatto contro qualcosa alle mie spalle. Un carrello si rovescia, diversi contenitori di vetro si infrangono sul pavimento.
I suoi occhi… blyat…
Sono grandi il doppio del normale, una sottile iride scura circonda le pupille enormi. Azzurre, iridescenti, brillano come piccoli reattori.
Provo ad avvicinarmi, ma le gambe non rispondono. Forse può capirmi. «Tu sei… Valerij Chodemcuk?»
Mi osserva. Ho un brivido. Quel volto, inespressivo e senza lineamenti, non ricorda nemmeno più un essere umano. Distolgo lo sguardo, non riesco a sostenere il suo.
Si guarda attorno. Sembra… pensieroso. Confuso.
Chissà se può sentirmi, le orecchie sono fuse al cranio. La bocca è solo un taglio sottile nella parte inferiore del volto.
Si alza in piedi. Il suo corpo riflette la luce blu delle lampade, lampi azzurri rimbalzano sulle pareti e sui computer inerti. Muove un paio di passi, ruota la testa in angolazioni impossibili.
Indietreggio, i cocci di vetro scricchiolano sotto gli scarponi di boro fibrato. Punto il Geiger nella sua direzione. Crepita e segna 3,148 Roentgen.
Valerij si ferma a guardarlo.
Mi mostra i palmi delle mani e torna a rannicchiarsi nell’angolo.
Ma cosa significa? «Tu… ti stai scusando?»
Annuisce.
«Ti stai scusando per aver fatto scattare il contatore? Capisci quello che dico?» Allargo le braccia, Geiger in una mano, lanterna nell’altra. «Dov’è il Geiger, Valerij?»
Solleva un dito, ha quattro o cinque articolazioni.
Indica il contatore Geiger nella mia mano sinistra.
Ho una vertigine. Capisce quello che dico. Comunica, forse può anche parlare.
L’auricolare mi frizza nell’orecchio. «Professore, che sta succedendo?»
Attivo il microfono. «Riesco a comunicare con lui.»
«Professore, la radioattività nella zona del reattore sta aumentando troppo rapidamente. Altri tre tecnici sono stati portati via per avvelenamento. Il colonnello Gulkarich ha dato l’ordine di richiudere immediatamente l’apertura.»
«Bene, che proceda.»
«Ha anche dato ordine di riportare là tutto quello che abbiamo prelevato.»
Cammino verso il centro della stanza. «Dabosky, qui c’è un uomo che è sopravvissuto trentacinque anni sotto le macerie di Chernobyl. Adotteremo tutte le misure possibili. Evacueremo tutta la regione se è il caso, ma non lo riporteremo là sotto.»
Chiudo la comunicazione e mi avvicino a Valerij «Sei al sicuro. Sei in un laboratorio a Romanivka.»
Salta in piedi. Si guarda attorno, piega la testa di novanta gradi in verticale. Cammina lungo la parete tastando tutto quello che trova.
«Tranquillo. Siamo riusciti a tirarti fuori da Chernobyl.»
Si immobilizza. Mi fissa per un istante e schizza via come un animale impazzito. Sparisce, vedo solo i lampi blu riflessi dalla pelle carbonizzata. Corre ovunque, rovescia tavoli e strumenti, costeggia le pareti, si volta in ogni direzione.
«Valerij, stai calmo!»
Trova la porta. La tempesta di pugni.
Grida. Grida con una rabbia sepolta da trentacinque anni. Il sangue mi si ghiaccia nelle vene, le gambe mi cedono. Crollo in ginocchio.
Valerij pianta le mani sulla porta. Tutto quanto intorno a me inizia a vibrare. Gli schermi si spaccano in schiocchi secchi, il Geiger frizza impazzito. Non voglio guardarlo. Il terrore mi stritola i polmoni.
La porta blindata del laboratorio si contorce su se stessa. Valerij la strappa dai cardini sciolti e la butta a terra. Il clangore mi assorda. Rimango immobile, lui sparisce nel buio.
Un altro boato di porta sradicata arriva dal fondo dell’anticamera.
Sfreccio col fuoristrada lungo l’asfalto. Il contachilometri segna i settanta. Quanto cazzo corre, quella cosa? I fari illuminano la striscia di erba bruciata. La seguo per qualche centinaio di metri, finché s’infila dentro una macchia di alberi.
Mollo appena l’acceleratore, faccio la curva e riparto a tavoletta.
Ho la nausea. È solo ansia. È solo ansia.
La radio gracchia la voce del colonnello. «Kunesov, che cazzo sta facendo?»
Prendo il microfono del baracchino. «Provo a fermarlo.»
«Kunesov, le radiazioni sono arrivate a sette Roentgen. Tutto il personale è stato evacuato, abbiamo già una decina di contaminati gravi. Torni indietro, subito.»
«Dica ai suoi di non spararmi, colonnello.» Spengo la radio.
Corro sul rettilineo, qualche buca mi fa sobbalzare sul sedile. Mi viene il vomito.
È solo ansia. È solo ansia.
Degli spari coprono il rombo del motore. Merda, di nuovo.
Rallento. Il contatore Geiger crepita sul sedile.
La striscia di asfalto annerito esce dai cespugli e taglia un posto di blocco. Prosegue dritta.
In fondo alla strada, dei soldati in tuta bianca mi puntano i kalashnikov. Uno è al baracchino del blindato che parla nella trasmittente.
Mi fermo, mostro il tesserino. «Professor Fymor Kunesov.»
«Puoi essere anche Putin in persona, non puoi passare. Il reattore si è acceso e—»
«Soldato, io ho già una rastrelliera di tumori. Siete voi che dovreste andarvene.» Ingrano la prima. «Almeno, siete riusciti a colpirlo?»
I militari si guardano tra loro.
Riparto sgommando.
Qualche chilometro di fronte a me, la centrale nucleare di Chernobyl si intravede nel buio. Le torri di raffreddamento si stagliano contro la luna piena, i bordi lisci sono illuminati dalle luci dei laboratori da campo.
Che teste di cazzo, che siamo stati. Non svegliare il can che dorme. E invece, abbiamo svegliato un cane radioattivo che sta per provocare una catastrofe nucleare.
Una colonna di camion mi viene incontro, esco di strada e avanzo sullo sterrato. Suonano e gesticolano mentre gli passo di fianco.
I fari illuminano un’ombra in movimento, giro il volante, lo punto. È lui! Ha corso dritto da Romanivka a Chernobyl, cinquanta chilometri in un’ora.
Cerco di stargli addosso ma ha troppo vantaggio. Arriva alla recinzione, la salta e prosegue.
Inchiodo.
Muretto di cemento e pali di ferro, non la sfonderò mai. Accosto il fuoristrada più che posso e scendo. Il Geiger segna 13,039 Roentgen.
Salgo sul tetto del fuoristrada. Un ronzio sommesso si sente tutto attorno.
La cupola di contenimento che ricopre il reattore 4 è crepata in più punti, piccole soffiate di vapore tossico e fiammelle guizzano fuori.
È finita. Cosa posso fare, ormai? Aveva ragione Gulkarich, dovevamo fermarci subito. Il Geiger continua a frizzare, supera i sedici Roentgen. Un conato acido mi sale in gola. Mi siedo sul tetto, mi levo il casco e vomito sul cofano.
Ho avuto una bella vita. Anche il privilegio di godermi un’esplosione atomica in diretta. Prendo il cellulare dalla tasca, ma non c’è campo. Non importa. Irina sa che la amo. Dimitri e Petjr sono grandi ormai, se la caveranno. Un groppo mi strozza la gola.
Alzo gli occhi sul il piazzale. Valerij corre verso l’apertura scavata sul fianco del reattore 4. Ci si lancia dentro, il ronzio nell’aria si fa più forte.
Chissà cosa passa per la testa a una creatura del genere. Dio, ci vorrebbe un goccio di vodka, adesso.
Prendo il Geiger e lo punto. 27,545.
Un rombo cresce da ciò che resta della centrale. La terra inizia a tremare, dall’apertura sul fianco un bagliore bianco illumina a giorno gli ettari di macerie mangiate dalla vegetazione mutata.
Poi, con la calma di una brace che va spegnendosi, si affievolisce.
Il chiarore di luna torna a rischiarare il complesso. La terra si ferma, c’è silenzio.
Una falena danza intorno ai fari della macchina.
Do un’occhiata al Geiger. Non arriva a dieci.
Guardo verso il nocciolo e sorrido.
Valerij Il’ic Chodemcuk… dopo trentacinque anni sei ancora lì, a svolgere il tuo lavoro. Solo tu sai come, ma sei riuscito a evitare la fusione completa del nocciolo. Di nuovo.
Ci vorrebbe un goccio di vodka, adesso.
Grazie.
–
Racconto di Michael Dag Scattina
Scrivi un commento