Ardyanna era un regno che ormai non c’è più. Per descriverlo non ci vorrebbe molto, ma parlare della sua bellezza richiederebbe giorni interi e decine di bocche esperte in parole. Era una città rigogliosa distante dal mare per poco meno di un giorno di cammino, situata su un immenso altopiano. Le strutture erano solide, le case calde e accoglienti e le strade pulite. Non c’era malcontento in quella cittadina e qualsiasi viandante la descriveva come la proiezione in terra del paradiso. Le guerre duravano molto poco e le battaglie venivano combattute da uomini esperti. Il commercio era ricco e la produzione interna più che abbondante.

Un castello-fortezza si ergeva al centro della città su quella che, prima dell’arrivo dell’uomo, era solo una minuta collina. Di notte rimaneva bellissimo e maestoso, illuminato dalle molte fiaccole e da alcuni giochi di specchi pensati generazioni addietro per illuminarlo come se fosse giorno. Non illuminando la terra, tuttavia, il palazzo reale sembrava quasi fluttuare nelle ore notturne, sovrastando il paese e le campagne sottostanti.
Il re e la regina non avevano figli, ma questo di certo non gli impediva di essere amati e acclamati dal loro popolo. Il re aveva un fratello gemello, nato dopo di lui di appena qualche ora, suo fedele consigliere, anch’egli con una moglie ma con un figlio: Arthur Fallstaff. Quest’ultimo era un giovane coraggioso e gentile, anche se molto spesso non faceva altro che combinare marachelle con ragazzi che di sangue blu non ne avevano neanche l’ombra. A lui non interessava quanto nobile fosse la famiglia, bensì come fosse il cuore che batteva in petto, e i suoi compagni potevano apparire come topi nei confronti di un cavaliere, ma si comportavano come leoni, indipendentemente da chi fosse l’avversario. Ma la vita di un nobile non era cosa facile, e con il passare del tempo sgattaiolare via dal castello di notte divenne sempre più difficile, e i suoi amici non potevano che vederlo per poco tempo al giorno, intrufolandosi nelle cucine e fermandocisi per qualche minuto, potendo solo raccontargli quello che succedeva per le strade della città.
Questo fece crescere nel ragazzo una grande sete di avventura, sete che non aveva idea di come colmare: non aveva mai mostrato segni di magia, non era bravo a combattere con nessuna arma e la sua mira con l’arco sembrava peggiorare con l’allenamento. Quindi, negli anni successivi, le uniche avventure che poteva raccontare ai suoi amici erano quelle che leggeva nei libri della biblioteca; libri che, per sua fortuna, non sembravano finire mai.
E poi giunse il giorno, o per meglio dire la notte. Era domenica e Arthur aveva dodici anni. Non poteva sapere quanto sarebbe stato importante quel giorno, ma fin dalla prima mattina non si era presentato come uno qualunque: gli era stato ordinato di fare colazione in camera e, quando avrebbe dovuto allenarsi a duellare con suo padre, gli era stato invece imposto di starsene chiuso in biblioteca. Per tutto il giorno si domandò se avesse fatto qualcosa di male, eppure non riusciva a comprendere il come mai di tale comportamento da parte dei suoi genitori, del re e della regina. Chiese anche spiegazioni alla servitù, ma nessuno sembrava conoscere la risposta o la causa di tale anomalia.
Così, quando venne fatto chiamare dopo l’ora di cena, si diresse verso l’entrata del castello con il capo chino, mostrandosi dispiaciuto e speranzoso di scoprire cosa avesse fatto, ma quando giunse alle alte porte in legno ferro, tuttavia, non trovò nessuno dei suoi familiari, ma solo un giovane, non molto più grande di lui, avvolto in un lungo cappotto nero. Quando Arthur lo raggiunse, si tolse lo strano cappello pece mostrando gli arruffati capelli scuri come la più tetra delle notti senza stelle. — Buonasera Arthur. — salutò gioviale e sorridente.
— Buonasera. — salutò lui a sua volta con un tono molto più timido dell’altro.
—Io mi chiamo Max, e sono venuto per aiutare i tuoi genitori con una questione che riguarda la magia. —
— Sei un mago? — domandò lui raggiante, dimenticandosi di dover sembrare accigliato e delle buone maniere nei confronti degli ospiti. Non indossava un mantello, non aveva una lunga barba, una bacchetta, uno scettro o qualsiasi altra cosa. Nonostante ciò annuì.
— Sì, qualcosa del genere. Devo chiederti scusa se non hai potuto passare la giornata insieme ai tuoi genitori, ma abbiamo dovuto parlare di questo problema e la cosa ha richiesto molto più tempo del previsto. Sarebbe stato molto più teatrale fartelo fare di giorno, ma credo che farà comunque il suo effetto a quest’ora. Sono un esperto, e ritengo sia più sicuro non farti vedere dal diretto interessato.
—Chi è il diretto interessato?— domandò Arthur.
Max non rispose e si limitò a scendere i pochi bassi gradini che separavano l’entrata del castello da una gigantesca piazza circolare, al cui centro si ergeva una pietra alta circa quattro metri. Sulla sommità spuntava una piccola porzione di un grosso spadone d’oro, con il pomolo intagliato in una testa di leone nell’istante precedente al ruggito. Non sembrava essere stata posizionata lì con cura, come se qualcuno l’avesse lanciata e si fosse casualmente conficcata nella roccia. — Conosci la storia di quella spada, Arthur?
Il ragazzo in quel momento intravide i suoi compagni nascosti dietro le colonne sul perimetro della piazza, ma preferì non darlo a vedere rispondendo subito alla domanda. Se fossero stati beccati, chissà in che guaio si sarebbero finiti! —Si dice che la spada sia caduta dal cielo e debba essere impugnata solo da chi la merita. L’arma sceglierà solo il più valoroso dei guerrieri.—
— Sì e no. — disse l’altro rimettendosi il cappello. — La spada è caduta dal cielo, senza dubbio, ma non da un punto qualsiasi. — Indicò verso l’alto, come se potesse mostrare il luogo esatto. — È stato il Sole ad affidarla a noi. Solo uno può tirarla fuori dalla pietra e non si parla di un guerriero impavido e colmo di valori. — Abbassò la mano. — Può essere maneggiata solo da chi crede di essere il più grande degli uomini, sarà poi la spada a renderlo tale.
— Mi state dicendo che la spada cerca un padrone superbo? — domandò lui, cercando di mettere tutte le informazioni appena ricevute. Non aveva mai conosciuto cavalieri del genere ma non pensava sarebbero stati molto bravi o affidabili.
— Esattamente, anche se il proprietario la chiamerebbe “consapevolezza di sé”. Dimmi, hai mai provato a estrarre la spada?
— Nessuno è mai riuscito a tirarla fuori da quando è stata costruita la città intorno a essa. — disse Arthur facendo spallucce.
— Non ti ho chiesto questo. — replicò Max quasi serio, anche se non perdeva mai dal volto quel sorriso divertito. — Ti ho chiesto se ci hai mai provato tu.
— Ehm… certo, ogni domenica lo faccio insieme a mio padre.
— Stai mentendo. — disse l’altro con semplicità. — Lo so, e sappi che non puoi mentire al Re dei bugiardi, che sarei io. — fece un teatrale inchino come quelli che usano fare i giullari dopo una bella esibizione, per poi riprendere il discorso. — So che non ci hai mai provato per paura di fallire, nonostante tutti, te compreso, la reputino un’impresa impossibile. So tuttavia che nel tuo cuore c’è una scintilla, un barlume di un’idea, che ti fa pensare di essere l’unico degno di tirare fuori quella spada. Se qualcosa del genere fosse nella testa non mi disturberei tanto, ma se è nel petto e batte, per quanto flebile, è qualcosa di raro, molto raro.
— Io non sono nessuno. Non sono neanche il principe ereditario.
Quelle parole non uscirono con facilità dalla bocca di Arthur, anche se a un orecchio inesperto così sarebbe sembrato. Come se fosse stata una risposta, Max indicò l’arma sulla sommità della roccia senza distogliere lo sguardo da Arthur, che forse per paura anche lui lo teneva fisso sugli occhi marroni scuro che lo guardavano. — Cosa succederebbe invece se ti sbagliassi? Se la spada ti scegliesse e divenissi il più potente dei soldati, nonché unico cavaliere al servizio del Sole? Diventeresti un comandante, un condottiero, un generale, con pieno controllo sull’esercito e con il potere di far arruolare i tuoi amici che adesso ci spiano da dietro quelle colonne. — E accennò nella direzione con un rapido colpo di testa. Arthur già se li immaginava tremare e con le mani sulla bocca e sul naso, per fare meno rumore. Anche a lui mancò il respiro per un attimo, ma per fortuna Max continuò. — Tranquillo, se l’amicizia fosse un reato non rimarrei in questo mondo un istante di più. Ma immagina: potrai vederli tutti i giorni, quante volte vuoi, e insieme a loro vivrai quell’avventura che hai sempre desiderato. — Per un istante sembrò quasi che le colonne di granito, in cerchio perfetto attorno a loro, gli stessero guardando, senza perdere d’occhio la roccia al centro. Max la indicò con l’indice. — Vai là sopra e tirala fuori.
Arthur non se lo fece ripetere due volte: si avvicinò con passo deciso alla roccia e, una volta raggiunta, cominciò la piccola scalata. Non era difficile, aveva accompagnato molti suoi amici alla spada, prendendoli in giro quando li vedeva usare tutte le loro forze senza riuscire neanche a smuoverla. Lui, però, non l’aveva mai toccata. Si era sempre giustificato dicendo che era per dare a tutti la possibilità di farlo, ma in quel momento, con gli occhi del leone che lo fissavano, si sentì pervaso da una strana sensazione. I dubbi sulla sua riuscita nell’estrazione erano scomparsi, e una voce continuava a ripetergli che solo lui poteva impugnarla. Le dita cinsero il manico con forza e la pietra sputò via la lama non appena Arthur tirò. I suoi amici (ormai non più nascosti per vedere al meglio la scena) non riuscirono a trattenere un verso unisono di stupore vedendo l’arma d’oro risplendere di luce propria. La stessa luce che aveva il sole.
— Ogni cavaliere dà alla propria lama un nome, ma io te ne consiglio uno: Luxetria. — propose Max allungando un sorriso soddisfatto e mettendosi le mani nelle tasche del lungo cappotto.
— È… leggera… — osservò Arthur. Un occhio gli cadde ai suoi amici, sotto di lui, troppo esterrefatti per muoversi o per parlare.
— Per te sarà sempre leggera finché il sole brillerà. Fai attenzione però: troppo vanto fa arrivare buone voci lontano, ma porta anche il male vicino. Tieni a bada la superbia. —
— Certo… lo farò… grazie signore. — Arthur balbettava, ancora ammaliato dalla bellezza della spada.
Il giorno successivo, dopo aver fatto colazione con la famiglia reale, Max se ne andò, salutando Arthur come un suo pari e lasciando Ardyanna, sapendo benissimo che non l’avrebbe mai più rivista.

Gli anni passarono, e Arthur era diventato in tutto e per tutto il padrone della spada. Dato che Ardyanna, in una vecchia e arrugginita lingua di cui ormai si sono perse le tracce, significa “landa del sole”, e si era autoproclamato come unico cavaliere al servizio del sole (dato che nessuno riusciva a eguagliarlo in battaglia) e usare una spada magica quando al tempo si pensava che i maghi facessero magia di notte, traendo il potere delle stelle, attirava l’attenzione con facilità. “Magia, e proveniente dalla più importante delle stelle!”, erano state queste parole ad aver fatto guadagnare ad Arthur tanta fama.
I suoi amici d’infanzia, una volta compagni di bravate, adesso erano coloro che brandivano le armi in suo nome e che gli guardavano le spalle in battaglia. Ma Arthur non aveva mai bisogno di alcun tipo di aiuto quando si parlava di combattere con quella incredibile spada d’oro. Aveva seguito il consiglio di Max e continuava a chiamarla Luxetria, che sempre in quella lingua dimenticata significa “portatrice di luce”, e non conosceva eguali in nessuna fucina. Quindi, Ardyanna aveva il guerriero più forte in grado di combattere da solo interi eserciti che impugnava la migliore spada legata alla stella più nota, il resto si può facilmente immaginare.
E questo ci porta a una campagna militare in un regno più a sud di cui oggi si è perso tutto, nome compreso. Arthur, insieme ai suoi compari e una piccola parte del suo esercito aveva presenziato, e ora sedeva al banchetto non molto distante dal generale che non smetteva di fargli domande sulle sue battaglie da quando lo aveva incontrato, poche ore prima. Si presentava come un giovane possente, colmo di muscoli in ogni angolo del suo corpo. Lunghi e fieri capelli che, per magia o per burla, si erano tinti del colore del sole. Alto oltre i due metri e col viso adornato da una barba che solo i più abili guerrieri possono tenere con tanta cura nonostante i combattimenti. Anche da seduto sullo sgabello, era più alto di molti soldati in piedi alle sue spalle, e sorrideva al generale con cui dialogava con leggerezza.
— E dimmi, non hai mai perso una battaglia? — domandò il generale, affascinato da tutte le storie che Arthur aveva raccontato.
— So che a un normale uomo può sembrare impossibile, eppure è così. — rispose l’altro a tono. Sebbene avesse una ventina d’anni, il timbro vocale, l’altezza e la stazza lo facevano sembrare parecchi anni più vecchio. — Nessuna sconfitta per il cavaliere del sole! — esclamò verso i suoi compagni con il boccale levato. Anche loro alzarono i loro calici, gridando brindisi confusionari. Erano bravi a combattere, ma le buone maniere non le avevano mai imparate.
— E date un merito solo alla vostra bravura? — gli chiese ancora. — I nostri regni ora sono alleati, e consigli su strategie o allenamenti potrebbero rendere il nostro esercito inarrestabile.
— Nessun trucco e nessun inganno. Nulla di impossibile, niente tattica e niente lezioni di spada. Talento naturale per il cavaliere scelto dall’unica stella nel cielo blu, e una spada magica. — si picchiettò l’elsa con la mano sinistra. Nonostante le dimensioni, sembrava in grado di brandirla con una mano sola. — Questa spada racchiude il potere del sole e lo affida solo al più grande dei guerrieri. Nessun altro oltre a me può toccarla, e sono solo io l’unico cavaliere destinato a brandirla.
— Quindi è davvero grazie a quella spada la tua potenza?
— Sì, all’unica spada degna della mia mano, chiaro. — ridacchiò lui a pieni polmoni.
Se solo non avesse confermato quelle parole, non sarebbe successo niente. Arthur sarebbe diventato generale dell’esercito di Ardyanna, il Re e la Regina avrebbero avuto un figlio e lui lo avrebbe servito (continuando a sottolineare quanto gli fosse superiore) fino alla sua morte, fedele come si confà a un cavaliere.
Ma il destino non è mai stato un amante del lieto fine, così, una notte serena di una primavera che sarebbe meglio dimenticare, Ardyanna venne attaccata. Non una lotta ad armi pari, ma un’invasione sanguinaria e silenziosa, quando neanche il più talentuoso degli uomini sarebbe stato in grado di difendersi.
Arthur, per la prima volta nella sua vita, scappava. Era suonato l’allarme, ma solo per pochi secondi, poi era stata tagliata la corda che sorreggeva la campana. Tutti, a palazzo, erano morti, e lui fuggiva con il suo lento passo zoppo, sorreggendosi solo alla bacchetta d’oro che adesso poteva fargli da bastone. Non era pesante, al contrario delle sue aspettative. La notte era stata lunga, e la sua unica possibilità era quella di rimanere in vita fino all’alba, quando gli occhi di tutti i mattinieri sono puntati sul sole.
All’improvviso inciampò. Non ci mise molto per capire cosa fosse successo, e il terrore si instaurò fin dentro le sue ossa. Vestito di un oscuro grigio, con due lunghi pugnali nelle mani, il generale con cui aveva banchettato poche settimane prima si avvicinava con piccoli passi spensierati. — E pensare che siamo venuti armati fino ai denti per fronteggiarti. Centinaia di maghi, migliaia di soldati.
— Di assassini. — corresse Arthur. Il tono di voce non era più quello tronfio e profondo che il generale ricordava, ma si era fatto più acuto, simile per certi versi allo squittio di un topolino. Arthur, in quel momento, era molto più basso di un uomo medio, i capelli erano diventati crespi e la barba scendeva giù con pesantezza e poca eleganza. La pelle si era fatta pallida, sembrava quasi una federa senza cuscino in assenza di tutti i muscoli che lo caratterizzavano.
— Il Re è morto. La Regina è morta. Non c’è più una sola anima in vita all’interno di questo palazzo al di fuori di noi due. Ma solo uno uscirà da qui sulle proprie gambe. — ridacchiò il generale facendo volteggiare il coltello nella mano sinistra. — E senza il potere della spada, tu non sei nessuno.
— Luxetria. — corresse Arthur. — Non accomunarla alle altre lame dei comuni fabbri. Nessuno è degno di impugnarla.
— Tranne te? — gli domandò ridacchiando. Non era preoccupato, al momento non ci avrebbe messo molto a staccargli la testa dal collo, e parlare con le sue prede rendeva solo la caccia più divertente, anche se si concedeva questo sfizio solo quando non potevano scappare. — Cosa ti renderebbe tanto degno di questo onore?
— Io sono Arthur Fallstaff, discendente della luce più pura di tutte le terre e unico cavaliere al servizio del Sole. Tu, a mio confronto, non sei che un insetto che non merita neanche il mio fastidio. — Anche se con parecchia fatica, Arthur si stava rialzando facendo pieno affidamento al bastone dorato, puntando la testa di leone contro l’uomo di fronte a lui.
— Be’, vedremo se questo sarà vero anche quando il tuo sangue avrà dipinto il pavimento del castello. — Impugnò i coltelli con entrambe le mani con l’intenzione di usarli, pronto a sferrare il colpo di grazia. A essere sinceri, Arthur gli faceva un po’ pena: non era abituato a togliere la vita a chi non è neanche in grado di tenersi sulle proprie gambe.
— Ormai è tardi, sciocco. — interruppe Arthur, ottenendo di nuovo la sua attenzione. — Se ti fossi dimostrato all’altezza del compito, magari avresti potuto ottenere un esito positivo.
— Di cosa parli? — gli domandò il generale, insospettito.
— Come un vero cavaliere che ottiene la forza dalla sua donna angelicata, la mia spada mi rende Supremo quando vede il nostro signore. — spiegò piegandosi in avanti. I lunghi capelli rossi ripresero volume e lucentezza e Arthur sembrò ingobbirsi e chinarsi in avanti per poter rimanere all’altezza dell’assassino. — Ci sono tre momenti del giorno in cui il mio signore è all’apice della sua grandezza. E il più grande dei tre… è l’alba.
Il generale non era un mago, ma non gli fu difficile spaventarsi quando le prime luci del mattino inondarono il castello che, per il trucco con gli specchi usato la notte, in quel momento era illuminato come il più limpido dei giorni. Senza pensarci, scattò verso Arthur con la lama, ma ormai, come una vocina nella sua testa continuava a ripetere, era troppo tardi. La lama gli cadde di mano come se avesse scagliato il più potente dei suoi attacchi contro una colonna di marmo e cadde sulla schiena. Arthur, ormai alto diversi metri, si erse in tutta la sua grandezza. Adesso tra le sue mani non stava più un bastone da passeggio in oro, ma una bacchetta dello stesso materiale. Il soffitto crollò e le macerie si allontanarono senza sfiorarlo neppure, non volendo disturbare qualcuno di così grande. I vestiti si lacerarono, il volto venne deformato da un sorriso magnanimo e i muscoli che lo caratterizzavano fecero altrettanto con il resto del corpo. Arthur Fallstaff, in quell’istante, era il cavaliere più forte mai esistito, e di certo lo sapeva.
— Contro uno come te non userei che la forza della mia unghia più minuta. — affermò. — Ma dato che avete fatto tutta questa strada, vi darò un assaggio di quello che è il mio vero potere. — E alzò la mano destra, stringendo con vigore il bastone ormai tramutato in una spada d’oro troppo grossa per chiunque. Al generale sembrò che Arthur stesse fluttuando, e che l’arma che stringeva fosse il sole stesso. Ma com’era possibile? Erano passati solo pochi secondi dall’alba. Non aveva però il coraggio per distogliere lo sguardo, né tanto meno per muoversi o per parlare. Piccole fiammelle contornavano il braccio di Arthur e tutto il corpo di Luxetria, poi, in un gesto di misericordia e gentilezza, l’uomo esaudì il desiderio del generale dicendo le due parole incise sul piatto della lama.
— Io te l’avevo detto. — Il corpo di Arthur sentiva l’energia attraversarlo nonostante il potentissimo incantesimo di Max, che aveva detto quelle parole alle sue spalle. Il generale era pietrificato, come il castello, le macerie sospese a mezz’aria e la luce che penetrava tra le rovine. Il tempo si era fermato, ma non per loro due. — Non posso fermare quelle due parole. — avvertì rammaricato, camminando fino a di fronte Arthur che fu costretto ad abbassare lo sguardo ancora di più. Il ragazzo sembrava provenire dalla notte in cui l’aveva conosciuto, nulla in lui era cambiato. — Pronuncerai comunque quelle parole.
— E allora? Lui non merita di vivere dopo quello che ha fatto. — sentenziò lui ancora con il braccio alzato, pronto a far scendere il fendente.
— Hai troppo potere all’alba anche senza quelle parole, e tu le stai per pronunciare. È qualcosa di troppo potente. La città svanirà nel nulla e lascerà solo un cratere. È questo il prezzo del più grande dei poteri, è questo il prezzo per essere supremi.
— Aiutami! — esclamò Arthur. Una fierezza e un orgoglio che non erano i suoi lo attraversavano e riempivano le sue parole, impedendo alla sua voce di tremare, ai suoi occhi di versare lacrime, a lui di avere paura. Non voleva che la città venisse distrutta. Non a causa sua. — Puoi avere la spada, puoi avere il castello! Anche la mia vita se serve!
— Perché morire per chi è già morto? Gli unici vivi in questa fortezza sei tu e i tuoi nemici. — disse Max con estremo distacco da quella situazione. Riprese a parlare prima che Arthur potesse rispondere. — Posso creare un’altra realtà, vuota e senza alcunché, e tu ci farai finire sopra Ardyanna, almeno invece di essere distrutta verrà solo spostata. Ma bada bene: — e alzò un indice contro il gigante di fronte a sé. — a quel punto starà a te cercarla, con la tua magia e completamente da solo. Potresti non ritrovarla mai.
— Lo farò. — disse lui. Tenne lo sguardo alto, fiero, orgoglioso, privo di rimorso. Era colpa sua, lo sapeva, ma sapeva che se i suoi genitori fossero stati al suo fianco, lo avrebbero tranquillizzato con la stessa naturalezza usata anni prima quando, ancora in fasce, ruppe una ciotola in ceramica e si mise a piangere. Forse era per questo che teneva la testa alta: perché si rialzava, ed era questo a renderlo forte. — Cosa devo fare?
— Dì quelle parole. Lancia l’incantesimo con tutta la tua potenza. La spada, il sole e la magia faranno il resto. — spiegò Max togliendosi il cappello. — E buona fortuna.
Una lacrima passò inosservata sulla guancia di Arthur, la cui pelle sembrava star andando a fuoco. Neanche lui se ne accorse, ma fu la magia a concedergli di piangere per tutto quello che aveva perso quella notte. — Grazie, ma non mi serve. — disse. In un battito di ciglia Max scomparve, le pietre ripresero a cadere verso il basso e le urla del generale, come squittii di ratti, si fecero sentire. Arthur sorrise; ce l’avrebbe fatta. — LUX SUPREMA! — gridò colpendo il basso con tutte le sue forze.

Di quel mondo oggi non si sa più nulla.

Racconto di Max Casagrande.