Malekith sbatté le palpebre. I raggi del sole gli ferivano le pupille. Sputò una boccata di vomito misto ad acqua sulla spiaggia melmosa. Sulla lingua aveva il sapore del fango, in gola gli pareva di avere dei cocci.
Kell onnipotente…
Sputò ancora. Fili di bava appiccicosa gli penzolarono dalle labbra. Si pulì col dorso del braccio e si mise in ginocchio. La ferita alla coscia gli diede una stilettata che gli strappò un grido. Gattonò fino all’albero che aveva accanto e vi si appoggiò. Fece forza con la gamba sana e si tirò su. Attorno a lui c’era un mare di tife palustri e cannucce giallognole. A una quindicina di metri in quel mare di piante sorgeva un’alta torre circolare di pietra. Il tetto era crollato assieme a parte del muro dell’ultimo piano. Alcune travi annerite spuntavano dalle pietre mezze sgretolate. Un paio di uccelli si alzarono in volo con un frullare d’ali.
Di bene in meglio, maledizione.
Tossì per liberarsi la gola.
«Ehi! C’è nessuno? Aiuto!»
Non ci fu risposta.
Mal controllò la bisaccia. L’ampolla con la piuma, grazie a Kell e a tutti i Draghi, era ancora lì. La sfiorò e il suo calore gli infuse energia nelle dita e nel braccio. Prese la sciabola, ancora infilata nel fodero, e la usò come appoggio, zoppicò verso la torre. Superate le tife palustri, vide che la torre era collegata a un altro edificio con un piano solo. L’unica porta che c’era faceva entrare lì, e non nella torre. Mal si appoggiò allo stipite coperto di muschio e batté con il pomo della sciabola sul legno mezzo marcito.
«Ehi! C’è nessuno?»
Solo l’eco dei suoi colpi sul battente. Le cerniere della porta erano tutte arrugginite. Caricò una spallata con quanta forza aveva. La porta cedette, opponendo meno resistenza di quanto pensasse. Malekith barcollò dentro. Una nuova scossa di dolore gli attraversò la gamba.
«Kell benedetto» ringhiò a denti stretti.
Dall’altro lato della lunga stanza in cui era entrato, una porta aperta lasciava intravedere un giardino interno. Le erbacce si erano insinuate tra le assi della pavimentazione. A sinistra c’era un passaggio ingombro di macerie, a destra invece il muro era curvo. Oltre un basso arco, una scala a chiocciola saliva verso quello che doveva essere il primo piano della torre. Una folata di vento freddo investì la schiena bagnata di Malekith. Il sole sparì dietro una nuvola. Ce n’erano altre all’orizzonte, scure come il carbone. Zoppicò dentro, si appoggiò al muro e iniziò a salire la scala. Aveva già visto torri del genere. Una notte, lui e suo padre si erano fermati a dormire in un posto simile, una torre di guardia alla frontiera tra Espya e Myrhya.
Il camino doveva trovarsi in cima. Mal si trovò davanti a una porta chiusa. La scala continuava a salire alla sua destra, ma il giovane allungò la mano e tirò il chiavistello. I cardini cigolarono. La luce passava attraverso una finestra lurida. Al centro della piccola stanza, addossato alla parete, c’era un letto. Le lenzuola erano macchiate di marrone scuro, una macchia larga quanto il petto di un uomo, appena al di sotto del cuscino. Accanto al letto c’era un inginocchiatoio piccolo, Mal ne aveva visto uno uguale nella camera di Padre Edgard, a palazzo. Questo, a differenza di quello del cappellano di corte, aveva un gatto a nove code appeso accanto. Malekith trattenne il fiato.
Santo Kell, dove sono finito?
Il resto della camera era un disastro di fogli buttati in giro e cassetti rovesciati. L’unico mobile, un armadio di legno, era stato sventrato, un’anta era gettata a terra. Mal urtò qualcosa col piede. Era un libro con la copertina di pelle scura. A giudicare dalla rilegatura grezza, il proprietario doveva esserselo confezionato da solo. Si chinò a raccoglierlo e lo aprì. Le parole stampate sulla carta gli fecero mancare un battito. L’intestazione recitava: “Lo specchio del principe o i precetti morali, di sire Arnevor IV Kitessar, sovrano di Espya.” Li ricordava ancora a memoria, come il giorno in cui suo padre gli aveva dato il libro. Era il suo decimo compleanno. Voltò un paio di pagine.
«Massima prima: il villano riempie il suo cuore con la paura. Per questo motivo un principe non può dirsi tale fintanto che non la elimina dal suo cuore.»
Nelle orecchie la sua voce suonò uguale a quella di suo padre. Quanti anni erano passati dall’ultima volta che gli aveva ripetuto quelle parole?
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