Malekith stava seduto sul suo trono in legno dorato, con le imbottiture in raso e drappi di broccato. Stringeva le mani sui braccioli, così forte da far virare le nocche al rosa. Qualcosa gli serrava la gola, stringendogli un pugno di saliva nella trachea. La Corte degli Stracci, con la sua grande sala sotterranea che ospitava il Principe dei ladri di Lorengard, fremeva. Il massiccio lampadario e i lumi alle pareti gettavano la loro luce su una massa di criminali di tutte le razze, assiepata davanti a lui. Belkor la Lumaca, l’alfnar dal labbro pendulo, abbassò le spalle in un goffo inchino.

«Capo… cioè, signore, q-questi… loro hanno…» biascicò, un filo di bava che colava dall’angolo della bocca.

Doyle Mazzapicchio, con le sue corna ritorte ai lati del cranio, si batté una mano sul prominente ventre stretto nel farsetto scuro.

«Sono arrivati e hanno preso ad ammazzarci i ragazzi.» Sputò. «Quei cazzinculo degli armigeri se la sono battuta, pezzi di merda!»

La congregazione di capoccia criminali riunita davanti a Malekith sbraitava, minacciava, bestemmiava, le mani che si agitavano o andavano ad accarezzare le else di pugnali e spade. Qualcuno piagnucolava pure. E lui se ne stava fermo sul suo trono, assiso come un coglione, senza che il suo cervello riuscisse a fare un pensiero compiuto. Si sforzò di farne almeno uno, e il primo che uscì fu una cazzo di ovvietà.

Chi è stato?

Tentò invano di aprire la bocca. Poteva solo starsene ad ascoltare la pulsazione sulla sua tempia e il brivido che correva dentro le sue ossa. Quel fottuto trono era scomodo, perché cazzo aveva pensato fosse una buona idea averlo? Il portone si spalancò di colpo, così forte che i battenti si schiantarono sui muri e rimbalzarono indietro, staccando pezzi di intonaco color crema. Un pugno di uomini chiusi in armature complete nuove di zecca, balestre alla mano, fece irruzione. Un altro schianto, e la porta sul ballatoio sopraelevato che percorreva la sala si aprì. Sciamarono fuori altri uomini, meno corazzati, ma tutti con le balestre, e si disposero lungo il ballatoio per tenere sotto tiro i suoi sottoposti. Questi misero mano alle armi, l’acciaio scivolò dai foderi. Mossa utile quanto avere il buco del culo sul gomito.

Cosa vuoi fare con una spada contro una balestra?

Un individuo entrò a passo sciolto, ma non era un uomo. Era un insieme di abiti costosi riempiti di niente che camminava senza testa né collo. Mal si drizzò sul trono. Fu come se gli avessero gettato un secchio di ghiaccio nelle budella.

Calat batté le mani.

«Buongiorno a tutti. Perdonate il mio eccesso di zelo nell’ingresso, ci tenevo a fare un’entrata in scena d’effetto.»

Mazzapicchio gli agitò contro la spada, aggiustandosi i calzoni con l’altra mano.

«E tu chi cazzo sei?»

L’uomo invisibile rise.

«Oh, che sbadato, dove sono le buone maniere? Prima la dimostrazione di forza.»

Schioccò le dita. Il balestriere accanto a lui premette il grilletto, e il quadrello volò dritto nella gola del morag. Una spruzzata di sangue arrossò la faccia butterata dell’uomo accanto a lui, e Mazzapicchio crollò all’indietro, stringendo l’asta del dardo. Si contorse per terra e riuscì a sfilarlo per metà, sfilacciando la carne. Ebbe un ultimo fremito e rimase fermo, la pozza di sangue che si allargava sul pavimento e la masnada di capoccia che zampettava indietro per non bagnarsi gli stivali. Mal deglutì.

«Cosa sei venuto a fare, qui?»

Nonostante si stesse cagando in mano, riuscì a tenere un tono decente.

«A chiedere una cosa. O meglio, a prenderla.»

Calat scese i tre scalini di dislivello tra il portone e il pavimento della sala e fece qualche passo avanti.

«Vuoi che parliamo qui, di fronte a tutte queste belle orecchie, Mal? Ho molte storie da raccontare, lo sai.»

Malekith deglutì ancora, fu come ingoiare un pugno di vermi viscidi.

«No, certo. Vieni, parliamone nei miei alloggi.»

Accennò con la mano al grande soppalco dietro al trono, col suo paravento in legno che copriva le camere dell’alfnar alla vista dalla sala. Il suono delle dita di Calat che scrocchiavano attraversò l’aria.

«Bene. Ero sicuro che avremmo potuto risolvere tutto da amici.»

 

***

 

Il bicchiere di brandy pareva volare tra le dita di Calat.

«Il Principe dei ladri di Lorengard. Appena un paio d’anni e guarda qua che bel regno ti sei costruito. Un titolo ironico, il tuo, non trovi?»

Mal tacque, le labbra strette tra loro.

Cosa cazzo vuole adesso?

Ammazzarlo no, o l’avrebbe già fatto. Che lavorasse per lui? Ma quale lavoro poteva valere la pena di venirlo a prendere di persona, con un esercito al seguito?

«Te la sei cavata bene, Mal.» Accennò col bicchiere al suo letto, con le coperte di broccato ancora sfatte. «Bel posto davvero, questo. Sono sicuro che ci starò comodo.»

«Cosa?»

Mal rimase con degli spilli ghiacciati che gli strisciavano nella carne, i peli rizzati.

«Oh, sì, il tuo letto sembra davvero comodo.»

«Cosa vuoi?»

«La faccio molto semplice: questa città. O sparisci più in fretta che puoi, o ti ammazzo. Chiaro il concetto?»

Sorseggiò il liquido ambrato con le labbra invisibili.

«M-ma…»

A Mal si strozzavano le parole in gola.

Due anni a uccidere, a tessere reti di contatti, a dare mazzette…

Tutto per cosa? Quanto era durato il suo piccolo regno criminale? No, non se lo sarebbe fatto portare via. Calat appoggiò il bicchiere sul tavolino e si chinò un poco verso di lui.

«La città mi serve e me la prendo. Ma ti lascio una scelta, in nome della nostra vecchia amicizia.»

«N-non hai i contatti che ho io. Se ti serve Lorengard, posso esserti utile, e lo sai.»

«No. Penso che farò tutto da solo.»

C’era una sfumatura di sadico compiacimento nella sua voce, ne era certo. Mal diede una manata al tavolo.

«Ma perché qui, dopo tutto questo tempo? Perché io?»

Uno schiaffo ghiacciato gli centrò la guancia, così forte da fargli voltare la faccia.

«Perché ti conosco. So che sei abbastanza ratto da sgattaiolare via. E lo sai anche tu.»

Il volto gli andava a fuoco, i muscoli pure, le mani gli prudevano e tremavano da tanto stringeva forte i pugni. Inspirò, pronto a sferrargli un diretto al naso. Ma dove cazzo era il suo naso? Con l’aria entrò anche il gelo, il freddo dello schiaffo spense il calore dietro alla sua faccia. Cosa voleva fare? Scappare come un ratto o farsi ammazzare, come un ratto?

«V-va bene.»

Gli uscì una specie di squittio. Altro che Principe dei ladri, non era buono nemmeno per essere principe dei ratti. Nella sua testa, una voce vecchia tornò a colpire con la solita parola.

Codardo.

 

***

 

Il plic plic dell’acqua che cadeva nel canale di scolo gli dava ai nervi. La puzza di fogna pure. Mal appoggiò le labbra alla fiaschetta di coccio e buttò giù un sorso di liquore che sembrava piombo fuso. Seduto sul gradino di rialzo della parete della galleria, rimase a guardare l’acqua torbida che scivolava nelle fognature, diretta al fiume. Se ne stava lì, proprio come un ratto.

Come un codardo.

Gli occhi dell’alfnar divennero due fessure. Li alzò su suo padre, che aveva la bocca storta nella sua immancabile smorfia di sdegno. Non si ricordava nemmeno più com’era la sua faccia, senza quell’espressione.

«Vattene.»

«Non sono stato io ad abbandonare il trono.»

Malekith scattò in piedi. Il ginocchio e l’anca mandarono un lampo di fastidio che accrebbe solo la collera.

«Sta’ zitto! Non c’entra niente con il trono. Questo è il mio trono, la mia vita!»

Re Dimas inarcò un sopracciglio, come se schifasse persino le sue parole.

«Queste sono le giustificazioni di un verme. O di un ratto, visto che sei stato definito così. Un cane randagio senza padrone né casa, che—»

Mal gli tirò la fiaschetta in faccia. Quella l’attraversò e andò in frantumi contro la parete della galleria.

«Vattene! Sparisci, cazzo, sparisci! Vecchio pezzo di merda, non ti voglio più vedere.»

«E allora perché continui a portarmi con te? Perché urli contro le mie parole, se fai il contrario di ciò che voglio?»

L’alfnar rimase con la bocca aperta, una lama di ghiaccio che gli affondava dentro il cuore. Suo padre indicò con la mano l’arco di pietra che conduceva al passaggio di collegamento tra i canali di scolo e le sue camere. Una via per uscire in fretta. O per entrare non visti.

«Tu sai cosa voglio io. Ci sei venuto tu qui sotto. Fai quello che va fatto.» Re Dimas concesse l’accenno di uno sprezzante sorriso. «Se ne hai il coraggio.»

Mal strinse il pugnale nero tra le dita.

Sai cosa va fatto.

Passò sotto l’arco e prese a salire i gradini immersi nell’ombra.