Inverno, 1237 A.D.

 

Malekith inspirò l’aroma delicato del vino. Un insieme di amarena secca e petali di rosa gli accarezzò le narici. Venice si portò un pezzo di carne alla bocca con la punta del coltello.

«È di tuo gradimento?»

«Non bevevo vin di ciliegia del Dalass da anni.»

L’alfnar lasciò scivolare un sorso del liquido giù per la gola. Un sapore tra il dolce e l’aspro si spanse nel suo palato.

«Delizioso.»

Le labbra di Ven si incurvarono in un sorriso.

«Ne sono lieto. Questa è un’annata particolare, mi riporta alla mente molti ricordi.»

Il mago si voltò a guardare il tramonto, verso la finestra che dava sulla terrazza della villa. Il sole oramai era sparito oltre le colline, i suoi ultimi raggi rendevano l’aria vibrante, rosata.

«Spero siano ricordi piacevoli.»

Venice scosse piano il capo.

«Mi ricorda la prima volta che l’ho bevuto da padrone di questa casa. Il giorno che mio padre è morto.»

Mal abbassò lo sguardo.

«Mi dispiace.»

«Non c’è da dispiacersi.»

Il tono del mago si era adombrato. Cercava di nasconderlo, ma le parole uscirono dure, come quando era in città. Si accarezzò la barba con le dita, il gomito appoggiato al tavolo.

«Tu quando l’hai bevuto la prima volta, Mal?»

C’era qualcosa in quella domanda che fece pizzicare la nuca all’alfnar. Malekith assaporò a lungo il vino prima di mentire.

«Me lo fece bere mio padre, dovevo avere una quindicina d’anni.»

«Tuo padre era un conoscitore di vini?»

«Lui…beh, abbastanza.» Mal masticò un boccone di morbida carne di manzo. Era deliziosa, ma gli scese in gola come un sasso. «I suoi clienti lo ricompensavano spesso con quel tipo di doni.»

Il mago gli versò altro vin di ciliegia.

«Che tipo di clienti? Non sono in molti a potersi permettere di regalare vin di ciliegia del Dalass.»

Mal deglutì.

«Era un maestro di scherma. I nobili richiedevano i suoi servigi e lui insegnava. Ai loro figli, intendo. Anche a loro, quando—»

«Come si chiamava?»

«Chi?»

Ven sorrise, conciliante. «Tuo padre, Mal.»

«Oh, sì, certo.» Fece una risatina per prendere tempo. «Olaf. Olaf di Cassador.»

Il mago appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo e congiunse le punte delle dita.

«Non credo che tu venga da Cassador, Malekith. Specialmente contando che Olaf di Cassador era un cronista di due secoli fa. È scritto nel libro che stavi leggendo nella mia biblioteca.»

Stupido! Sei un idiota!

Malekith si morse la lingua, le mani così strette sulle posate che avrebbe potuto piegarle.

Ven alzò un sopracciglio e scoppiò a ridere. «Dovresti vedere la tua faccia!»

Batté una mano sul tavolo e si prese il volto con l’altra. Mal riprese a respirare, lasciò andare forchetta e coltello nel piatto, accanto al manzo. Gli era passato l’appetito.

Venice annuì e si asciugò un occhio col dito. «Scusami, è un gioco che mi piace fare. Immagino di doverti delle scuse, milord.»

«Lo sapevi già» borbottò l’alfnar.

«Lo sospettavo da quando Fern ci ha presentati, questo sì. Posso renderti edotto delle mie supposizioni?»

Mal bofonchiò. «Se ti diverte.»

«Anzitutto, direi che vieni da uno dei quattro vecchi regni.» Venice stese le braccia, le mani ancora intrecciate, e scrocchiò le nocche. «Per come tieni il calice, per il fatto che non ti sia stupito che è di cristallo e per la faccia che hai fatto a vedere come è ridotta questa casa, sospetto che la tua stirpe sia molto più altolocata della misera casa Chastaine, o sbaglio?»

C’era un velo di rammarico nelle parole del mago. Era come se, dietro alla facciata scherzosa, avesse sperato che Malekith non notasse l’intonaco screpolato e l’assenza quasi totale di mobilio.

«Venice, non era mia intenzione…»

Il mago alzò la mano per fermarlo e scosse la testa. «Non importa, Mal. Te l’ho detto, è un gioco stupido. Non ti ho voluto a cena qui per parlare di questo.»

«Non volevo mancarti di rispetto.»

Venice si alzò e bevve l’ultimo sorso di vino. «Non lo hai fatto. E poi, per mancare di rispetto ai Chastaine ci vorrebbe che il mio casato ne avesse conservato almeno un briciolo.»

Si voltò verso un quadro, unica decorazione della stanza assieme alla tavola e alle sedie. Rappresentava un uomo che aveva lo stesso naso dritto e la fronte alta di Ven, ma con almeno trenta chili di più.

«E mio padre ha sperperato pure il rispetto, oltre ai nostri soldi.»

Anche l’alfnar si alzò, ma senza toccare il vino.

«È lui?»

«Sì. Remias Chastaine, baronetto di Pont Sec. Il più generoso giocatore d’azzardo del Gardaire.» Ven aveva una smorfia amara in volto. «E, naturalmente, il più sfortunato. Le cose vanno a braccetto, quando sei un idiota.»

Il padre di Venice era stato dipinto con uno sguardo che era l’opposto di quello del figlio. Se il mago faceva rizzare i peli ogni volta che fissava qualcuno, Remias aveva l’aria di uno che non avrebbe dato uno schiaffo a una mosca per scacciarla.

«Ven, io non sapevo…»

L’uomo scosse la testa.

«Te lo ripeto, se mio padre era un coglione non è colpa tua. Ma ora rimedierò a tutto io.»

Andò davanti al quadro e tirò un buffetto sulla guancia dipinta del padre.

«Tocca a me pensarci, eh?»

Si voltò verso Malekith.

«E qui passiamo al motivo per cui sei qui.»

«L’assalto alla fortezza di Calat?»

«Bravo, vedo che capisci al volo.»

Mal ne aveva sentito parlare da Fern. Lui era stato davvero chiaro: se qualcuno oltre a loro lo avesse saputo, le conseguenze sarebbero state gravi. La strizzata d’occhio con cui lo spadaccino aveva accompagnato la frase era bastata a far diventare l’alfnar il più muto dell’intero Gardaire.

«Il fatto è, Mal, che sei stato davvero prezioso in questi ultimi mesi.»

Venice gli mise una mano sulla spalla, anche se era più basso di lui di quasi una spanna.

«Ho solo cercato di ripagarti… tu mi hai dato un posto dove stare, dei compagni.»

«E io sono in debito con te, invece. Ma devo chiedere il tuo aiuto, è una cosa della massima importanza.»

«Puoi contare su di me.»

Il mago passeggiò per la stanza.

«La montagna dentro cui è costruita la fortezza è alta più di duemila metri. In cima, l’ingresso del castello è sigillato. Nelle miniere di Sangue di Drago, sotto, c’è un intero nido di askilaghe.»

«In altre parole,» interruppe Mal «una bella gatta da pelare.»

«O, come direbbe Fern, un gran palo in culo. Fino a ora, quelli che hanno provato a entrare, sono stati inseguiti sugli elevatori dalle askilaghe e divorati.»

L’alfnar deglutì.

«Non sembra una bella prospettiva.»

«Perché non ti ho detto la parte bella.» Ven sogghignò. «Sai cosa si può fare con una piuma di drago, se si impara a manipolarne il potere? E soprattutto: sai cosa possono fare due maghi che lavorano insieme?»

Mal ebbe un brivido.

«Due maghi assieme? Ma è impossibile.»

«Non se ci sono due chilometri di montagna a separarli.»

L’alfnar spalancò la bocca.

«Tu vuoi attaccare sia da sotto che da sopra?»

Ven intrecciò le dita.

«Contemporaneamente.»

«Scusa se sono franco, ma è un piano da pazzi.»

Il mago fece un sorriso furbo.

«Non diresti così se sapessi chi è la seconda maga.»

Il cuore di Mal perse un battito. Il suo volto avvampò.

«V-vuoi chiamare Shar?»

L’altro annuì.

«È la maga più potente che conosca, e l’unica con cui ho un legame personale.»

L’alfnar rimase zitto.

Sono io in debito con te, così ha detto Ven.

Un mago poteva non bastare per abbattere il Cremisi, ma due erano tutta un’altra storia, specie se la seconda era Shar. Al solo ripensare all’enorme donna dagli occhi dorati, Mal si sentì invadere dal calore che provava ogni volta che le stava vicino.

Lei è potere puro.

E poi, chiunque avesse espugnato quella fortezza sarebbe stato di sicuro un eroe. Suo malgrado, si ritrovò a sorridere, e scosse piano il capo.

«E va bene, Ven. Dimmi di più.»