Malekith balzò indietro, l’askilaga si dimenava ancora. Shar la tenne piantata a terra con la sua lancia nera. Inspirò a fondo e le vomitò addosso un getto di fiamme, la carne gelatinosa dell’essere sfrigolò. Lo stridio di dolore del mostro echeggiò nella caverna. Shar diede una torsione secca alla lancia, infilata nel ventre dell’askilaga, e quella cessò di muoversi. Mal restò a guardare la maga a bocca aperta. Nonostante il fetore dolciastro della gelatina bruciata, era come se cento farfalle gli stessero volando nello stomaco. Shar estrasse la lancia e l’asta si rimpicciolì, fino a diventare delle dimensioni del manico di un pugnale.
«Wow. È magica, quella?»
Lei fece di sì con la testa.
«L’ho fatta io.»
Ha creato un’arma magica tutta da sola!
Mal guardò la sua sciabola, ancora sporca dell’icore delle askilaghe. Chissà se anche quella poteva essere incantata? Lize, accanto alla bocca della caverna appena sigillata, rinfoderò la sua spada sottile. Passò la mano lungo le rocce che Shar aveva fatto crollare, gli occhi chiusi come se dovesse sentire un rumore lontano. Fece una smorfia di fastidio e guardò la maga.
«La tua frana ha chiuso l’accesso al nido per diversi metri.»
Shar incrociò le braccia.
«È solida?»
L’elvstene roteò gli occhi e sbuffò.
«Sì. È solida, te lo concedo.» Fece un fischio agli altri e indicò la fine del cunicolo, dove si apriva una caverna. «Andiamo a controllare questi benedetti elevatori.»
Fern sogghignò. «Santo Kell, che dedizione.»
Il tunnel da cui erano entrati era grande, largo almeno otto metri, ma la caverna in cui sfociava era gigantesca. Le pareti erano solcate da venature di cristalli tra il rosso sangue e il magenta, che salivano nel buio. Cale immerse la torcia in un braciere, ma la luce non raggiungeva nemmeno l’altro capo della grotta. Al sesto, c’era abbastanza luce da vedere bene le prime decine di metri degli enormi piloni rettangolari, larghi quanto tre carri affiancati, che salivano verso l’alto. Parevano fatti della stessa roccia della montagna, ma le venature di cristallo rosso che li solcavano erano precise e geometriche, come se le avessero incise. Fern, Berry e Lize andarono alla base del pilone più vicino, dove spuntava un intrico di leve, corde e ruote dentate. Shar emanava calore. Scrutava le ombre che ammantavano il soffitto della caverna, gli occhi socchiusi. Malekith si schiarì la gola.
«Percepisci qualcosa?»
«Sangue di Drago. Tanto. Così tanto che quasi non sento quello che ha l’elvstene nella sua borsa.»
L’alfnar abbassò la voce.
«Tu… non è che puoi percepire, che ne so, se è dipendente dai cristalli? Cioè, intendo, se ne abusa o…»
«No. Funzionano su livelli diversi, i maghi e i Predisposti.»
«Capisco. Senti anche Venice, là sopra? Lo puoi sentire?»
La maga si sedette per terra, a gambe incrociate.
«Non lo so. Posso provare.»
Shar chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Un fischio sottile attraversò le orecchie di Malekith. L’aria attorno a lui pulsò, come se il cuore della montagna avesse avuto una contrazione. Una smorfia di dolore attraversò il viso della maga.
Oh, cazzo.
Scoprì i denti in un ringhio, i muscoli del collo le tremavano. Si portò le mani alla testa e la strinse, le dita affondarono nei ricci.
«Shar…»
Anche le braccia erano tese per lo sforzo, le vene sulle mani guizzavano. Riaprì subito gli occhi e gemette. Afferrò la fiaschetta di latta che portava al fianco, la stappò con i denti e bevve un lungo sorso. Rimase ad ansimare, un velo di sudore le imperlava la fronte. Mal le poggiò una mano sul braccio. Sotto la pelle, il muscolo era rigido.
«Stai bene?»
Lei lo guardò per un attimo, come se non capisse cosa stava facendo. Gli prese il polso, con una delicatezza che non si sarebbe mai aspettato, e glielo spostò.
«Sì. Grazie.» Bevve un altro sorso, più piccolo. «Venice è su.»
«Io… pensavo che tutto questo Sangue di Drago avrebbe… non volevo che ti facessi del male.»
Lei fece un sorriso così placido che a Malekith parve stonare col suo volto. Durò solo un istante, ma lo lasciò spiazzato.
«Ho sfiorato la sua mente. Mi sono avvicinata abbastanza da non fargli del male.»
«Mi dispiace, non dovevo chiederlo.»
«Non lo potevi sapere.»
Un clack metallico risuonò nella caverna, un rombo cupo attraversò l’aria. In alto, tra le ombre, un secondo clack, distante, rispose al primo. Quattro puntini luminosi si accesero nel buio.
«Che avete fatto?»
Fern alzò le spalle.
«Abbiamo tirato qualche leva.»
Il fracasso di un’enorme catena che viene srotolata uscì dal pilone di roccia. Berry indicò verso l’alto col pollice della sinistra. All’avambraccio destro era assicurato un piccolo scudo rotondo.
«È l’elevatore che scende, Mal. Non preoccuparti.»
L’alfnar annuì e si accucciò di fianco a Shar.
«Noi adesso saliamo. Tu rimani qui e—»
«E se esce qualcosa lo uccido» borbottò secca lei.
Lui annuì.
«Stai attenta.»
Lei sollevò un sopracciglio, come se non avesse capito cosa intendeva. Mal evitò di peggiorare la situazione e andò verso gli altri, che stavano passando le Gocce di Aurenbeck davanti alle fiamme per caricarle. Cale controllò che la sua facesse abbastanza luce e la infilò nella lanterna agganciata al fianco.
Con dei poteri come quelli di Shar, sono le askilaghe a dover stare attente.
***
L’elevatore saliva rapido, con un frastuono di catene e metallo sferragliante. Era una semplice piattaforma di assi di legno e metallo, sui bordi aveva delle balaustre in ferro battuto e un tetto in acciaio dove si attaccava la catena che lo reggeva. Ogni anello era largo quanto il petto di Malekith.
«Dev’essere tutta opera di Calat!» urlò Mal, per superare il fracasso. «Avevo letto che era stato lui a costruire il Dar Criasynne, prima della Caduta!»
Lize aveva una smorfia contrariata in volto.
«Per me questo trabiccolo fa troppo rumore! Ci avrà sentito già tutta la fortezza!»
Fern sghignazzò.
«Ottimo, così Ven ci farà trovare apparecchiato!»
L’elvstene gli rispose con un’occhiataccia. Il meccanismo si fermò di colpo schioccando. Il rumore cessò, le assi sotto i loro piedi tremolarono.
«Porca puttana.» Lo spadaccino si affacciò e guardò in alto. «Ci siamo fatti un chilometro in verticale e questo affare si blocca quando mancano dieci metri!»
«Cazzo!» Berry sputò. «Hai un rampino? Una corda?»
Fern sfoggiò il suo sorriso sghembo.
«Ce l’ha Lize.»
Si arrampicarono sul tetto dell’elevatore, uno per volta. Malekith fece forza sulle braccia, la schiena della brigantina strusciò contro la pietra, ma riuscì a tirarsi su. A mano a mano che salivano, la caverna si stringeva sempre più. Gli ultimi cento metri del pozzo erano stati scavati in verticale nella roccia. Mal si mise dall’altro lato rispetto a Fern, per non sbilanciare l’elevatore, e si accucciò. Lize diede a Fern il rampino, lui lo fece roteare e lo gettò in alto. Diede due strattoni decisi per vedere se si era fissato e la corda rimase al suo posto.
«Cale, prima tu. Poi Lize, Berry e Malekith. Io chiudo la fila.»
La ragazza schioccò le dita.
«Com’è che tu stai sempre a coprirci le spalle, Fern?»
«Perché così, se siete nei guai, me la batto su questo vecchio trabiccolo pericolante. Capito, bimba?»
Cale aveva già iniziato la scalata. Raggiunse la cima e si issò dentro. «Via libera!»
«Per ora» borbottò Lize.
Mal salì la corda dopo Berry, Cale gli diede una mano a tirarsi su. Erano in un largo corridoio scavato nella roccia, delle dimensioni precise della camera dell’elevatore. Incassate tra le nicchie nelle pareti, a distanza regolare, c’erano tante Gocce di Aurenbeck che illuminavano il corridoio. Lize ne picchiettò una con l’unghia.
«Queste si spengono se le lasci troppo al buio. Qualcuno deve essere passato di qui non oltre un anno fa.»
«Direi anche prima.» Fern, in ginocchio, tirò su la corda col rampino e la infilò nello zaino. «Guardate qui.»
Passò le dita sulle assi di legno del pavimento. Una serie di impronte regolari, profonde, attraversava il corridoio. Berry estrasse la spada.
«Di che cosa sono?»
Lo spadaccino si rimise lo zaino in spalla.
«Non ne ho idea.»
Cale prese l’ascia e Mal lo imitò, estraendo la sciabola.
«Direi che allora è il caso di stare attenti.»
Seguirono l’elvsten nel dedalo di corridoi.
L’aria era umida, ma non sapeva di chiuso. C’era un odore penetrante, metallico. Mal lo aveva perfino sulla lingua. Lize tastava i muri e si muoveva sicura, come se quel posto fosse casa sua. Sopra di loro la volta a crociera si ripeteva all’infinito, scandendo lo spazio in modo regolare. Un rumore flebile, come un cigolio, riverberava tra le pareti. Man mano che avanzavano si faceva più intenso. Lize, in testa, alzò un pugno prima di voltare un angolo. Il gruppo si fermò. Una luce illuminava il corridoio oltre la svolta. L’elvstene si affacciò.
«Non c’è nessuno. Veloci.»
Corse dentro. La stanza era ampia, proseguiva in un altro corridoio dritto davanti a loro. Il rumore veniva da una nicchia nella parete di sinistra. Una specie di manichino di legno tirava una catena a cui erano appesi dei secchi di ferro. Il cuore di Mal saltò un battito. Aveva la forma di un uomo stilizzato, fatto di assi tenute insieme da chiodi, giunture, cerniere e placche metalliche. Gli puntò la spada contro.
«Cosa cazzo è?»
Cale sollevò l’ascia, come per tirargliela. Lize, gli occhi fissi sul suo petto, gli era andata accanto.
«Credo… credo sia un costrutto. Un automa.»
Si avvicinò a passo leggero. Il manichino non la degnò di uno sguardo. Ben piantato sulle tozze gambe, infilava gli uncini che aveva al posto delle mani negli anelli della catena e la tirava, senza sosta. I secchi salivano a destra, scomparendo in un foro nel soffitto, e scendevano a sinistra da un altro foro. Lize spostò lo sguardo sul loro contenuto ed ebbe un fremito. Ci sgattaiolò accanto e ne trasse una manciata di qualcosa. Qualcosa di rosso.
Cristalli.
Malekith deglutì. Gli tornarono in mente le parole di Fern.
“Con tutto quel Sangue di Drago attorno, chissà che belle idee frulleranno in quella testolina.”
«Lize. Lascia stare quella roba» sibilò.
L’elvstene lo ignorò. Si cacciò una manata di cristalli nella bisaccia e pescò di nuovo in uno dei secchi.
«Lize!» Anche Berry, a voce un po’ più alta, la chiamò.
L’automa continuò a tirare la catena, come se non ci fosse nessuno. Dal corridoio alle loro spalle venne un rumore cadenzato di passi. Parecchi passi. Mal si nascose di fianco all’ingresso. Fern e Cale lo imitarono e si misero dall’altra parte. Il giovane tirò fuori la spada, Fern estrasse la sua daga. Berry si precipitò da Lize e la prese per le spalle. Ai passi, sempre più vicini, si unì una specie di rantolo. La cadenza era ritmica, come una marcia.
Kell onnipotente, cos’è?
Berry smosse Lize, ma lei non mollò i cristalli che aveva preso. Scosse la testa, senza dire una parola. Era tardi, i passi erano arrivati all’ingresso. Il mezzo-morag le si parò davanti e si mise in guardia.
Entrarono quattro automi, identici a quello che tirava la catena. Al centro del loro petto era incastonato un cristallo rosso, grosso quanto un pugno. Sul legno erano incise le stesse linee geometriche che c’erano sul pilastro dell’elevatore, ma più piccole. Mal rimase col fiato sospeso e la sciabola alzata, schiacciato contro il muro.
Un’altra figura spuntò dal corridoio. Un’armatura completa d’acciaio. Dalle giunture delle piastre metalliche colava un liquido violaceo, appiccicoso. Da dentro il suo elmo proveniva uno strano rantolo. Gli automi passarono dritti per la loro strada, ignorando Berry e Lize, ma la cosa in armatura no. Voltò il capo verso di loro con un suono umido, come se il suo collo fosse fatto di gelatina.
Uno stridio trafisse i timpani di Malekith, lo stomaco gli si torse. Gli automi, svegliati dal fischio, si voltarono verso i due.
Cazzo!
Mal si lanciò addosso all’essere corazzato e piantò la punta della sciabola nell’articolazione dell’ascella. L’acciaio squarciò la stoffa e cozzò contro qualcosa di duro. La ferita vomitò una spruzzata di viscidi vermetti rossi.
Kell santissimo!
L’alfnar balzò indietro, l’essere si voltò e fendette l’aria con la tozza lama che teneva in mano. Una voce femminile provenne dall’interno dell’elmo.
«Evan!»
Cosa?
La creatura gli tirò un fendente alla testa, Mal si riscosse e lo parò per un pelo. Fern infilzò alle spalle l’armatura, un altro fiotto di vermi colò fuori a dimenarsi sul pavimento.
«Evan!»
Uno degli automi di legno lo caricò. Urlava con una voce da bambino, ma lontana, come se venisse dal fondo di un pozzo.
«Papà! Papà!»
Lo prese di sorpresa e lo colpì al petto. Mal staccò la testa con una sciabolata. Il costrutto barcollò indietro, ma non cadde.
«Papà!»
L’alfnar balzò indietro e si trovò spalle al muro. L’essere corazzato gli dava le spalle. Aveva preso di mira Fern, che si era lanciato verso l’uscita. Nonostante le due ferite che perdevano liquido e vermi, il mostro si muoveva come prima.
«Papà!»
Mal colpì le braccia del manichino decapitato per tranciargli via gli uncini, ma erano troppo spesse. L’automa si muoveva in maniera sgraziata, ma non pareva accusare nessun dolore. Mal schivò un colpo diretto alla faccia e lo allontanò con un calcio. Quell’affare pesava. Ignorò la sua pedata e lo schiacciò contro al muro, riuscì a piantargli uno degli uncini nella spalla. La punta forò il gambesone e una scarica di dolore attraversò la carne dell’alfnar.
Gemette e lo afferrò con la mano libera, lo buttò a terra, ventre in su. Prese la sciabola con ambo le mani e la calò di punta sul cristallo. La pietra si incrinò. Una scossa attraversò le braccia di Malekith. Venne scagliato all’indietro e finì di nuovo contro la parete, l’impatto gli spremette il fiato fuori dai polmoni. Tossì e cercò di alzarsi.
Berry, dalla parte opposta della stanza, parava e rispondeva di scudo contro due automi. Lize, dietro di lui, batteva il pomo della spada sul ripiano di legno accanto alla catena. L’elvstene passò il volto sul ripiano, tenendo una narice tappata e sniffando con l’altra il cristallo ridotto in polvere. Si mise in ginocchio, una fitta gli attraversò il petto.
«Berry! Attento!»
Cale tranciò una gamba a uno dei manichini impegnati col mezzo-morag. Lize sbuffò fumo rosso dalle narici e dalla bocca, tossì forte. Gli occhi le si rovesciarono. Serrò i pugni e scoprì i denti, il fumo virò su un rosso più scuro. Del sangue le uscì dalle narici. Berry e Cale saltarono verso Malekith, gli automi si rizzarono tutti all’unisono. L’elvstene urlò e batté il pugno a terra. Il suo volto, la sua spalla e il suo braccio destro divennero pura luce. Lize esplose in un bagliore così forte che Mal si coprì gli occhi col braccio, un fischio gli tagliò i timpani. Il pavimento cedette, e lui cadde nel vuoto.
Scrivi un commento