Berry gli esaminò la fronte.

«È solo una botta. Ti è andata bene, potevi spaccarti la testa.»

Le budella di Malekith si strinsero al solo pensiero.

«Dovrei fasciarla?»

«Per adesso no.» Il mezzo-morag fece un sorriso debole. «Ci penseremo quando saremo fuori di qui.»

«Se riusciamo a uscire» borbottò Mal.

Cale strinse i pugni. A parte qualche livido e un’ammaccatura sul pettorale della corazza, era quello che se l’era cavata meglio.

«Non dire così, noi dobbiamo uscire!»

Guardava l’alfnar come se si aspettasse che avesse stampata in faccia la soluzione.

«Sei tu il caposquadra, ci serve un piano.»

Sei tu il caposquadra. La colpa è tua, come al solito.

Malekith voltò la testa verso le ombre in fondo al corridoio, dove la luce delle lanterne non arrivava. Il viso di suo padre si distingueva appena, ma era lì.

Malekith!

L’urlo di Alarie echeggiò nell’aria. Mal scosse la testa per scacciarlo e Cale fece un passo indietro. Berry gli posò una mano sulla spalla.

«Stai bene?»

L’alfnar annuì.

«Mi spiace, Cale, ma non ce l’ho, un piano.» Strinse i denti. «Ven avrebbe fatto meglio a mettere Fern a capo della squadra…»

Si andò a sedere vicino al muro e appoggiò la testa sui mattoni. L’ultima cosa che aveva visto fare a Fern era stata lanciarsi fuori dalla stanza. Forse era ancora vivo. Del resto, il suo corpo non c’era tra le macerie in fondo al corridoio.

Sarebbero altre due morti sulla coscienza, Malekith.

Suo padre fece un passo avanti dalle tenebre. Il ragazzo serrò gli occhi.

Come Stan. Come Alarie. Come me.

Una mano gli accarezzò il volto.

«Malekith.» Gli occhi dorati di Berry brillavano come monete nuove di zecca, alla luce delle Gocce. «Non è colpa tua.»

Avrebbe voluto urlare, ma gli uscì solo un filo di voce.

«Sì che lo è. Sono morti per colpa mia. Avrei…»

Il mezzo-morag annuì. Teneva il braccio destro a penzoloni, la spalla doveva fargli ancora male.

«Avresti dovuto tenerla d’occhio, sì. Ma la morte di Lize è solo colpa sua.»

«No, il caposquadra ero io.»

«Lo sei ancora. Era stato Fern a progettare il colpo da Dreke, mi ha insegnato tutto quello che so. Se crede in te tanto da farsi da parte, ci credo anche io.»

Dalla mano di Berry veniva un calore che si spandeva attraverso la guancia di Malekith, come un fuoco. Gli prese le dita con le sue e le strinse.

«La tua spalla fa ancora male?»

«Era lussata, rimetterla dentro non è piacevole. Ma posso camminare.»

L’alfnar riuscì a sorridergli.

«Tu che mi dici, Cale?»

Gli occhi azzurri del giovane erano lucidi.

«Io devo arrivare in cima. Ven ha detto… c’è una cosa, serve per mio padre. Non lo posso lasciare così.»

Continuava a guardare Malekith in cerca di speranza.

È colpa tua.

Era vero. Ma non avrebbe avuto anche la colpa di averli fatti morire lì sotto. Si tirò su e riprese la sua bisaccia. Si mise in spalla lo zaino di Berry e assicurò il fodero con la sciabola alla cinta.

«Suppongo che vi toccherà seguirmi, allora.»

Berry sorrise, sul volto di Cale si accese qualcosa.

«Hai un piano?»

Mal fece spallucce.

«Andare dritti. La strada è una sola.»

Nelle ombre alla fine del corridoio, suo padre non c’era più.

 

***

 

Il corridoio terminava con quella porta di metallo. Era larga quanto due uomini e scura come il carbone, liscia. Nessuna maniglia, nessuna serratura. Solo due piccole spine che spuntavano al centro, una accanto all’altra. Sotto ciascuna, un lungo solco di ruggine. Mal la batté con le nocche, ma ne ricavò solo un dong sordo. Berry alzò gli occhi al cielo.

«Cazzo.»

Cale le tirò un pugno con guanto corazzato.

«Dannazione! Apriti, maledetta.»

L’alfnar si massaggiò il mento.

Kell benedetto, come facciamo adesso? La strada è una.

Dall’altra parte, qualcuno batté sul metallo. Balzarono indietro tutti e tre assieme. Cale mise mano all’ascia.

«Kell onnipotente!»

Una voce uscì, attutita, dall’altro lato della porta.

«Dagov?»

Mal aveva già sentito quella lingua. Era forse una variante antica del gardairiano, o magari di qualche altra lingua lasi? Berry si strinse il braccio destro all’altezza del bicipite.

«Cos’ha detto?»

Qualunque cosa ci fosse dietro la porta, bussò di nuovo. Fece un suono strano, come se si fosse schiarito la gola, ma con una sfumatura metallica.

«Oh, quale sollievo, parlate il mio stesso idioma. Siete forse voi gli intrusi?»

I tre si scambiarono un’occhiata, Mal restò con la bocca aperta. Cale tenne stretta l’ascia.

«Cosa cazzo è?»

«Che avete detto?»

L’alfnar fece segno ai compagni di non parlare.

«Nulla. Chi… cosa intendete? Parlavate di intrusi.»

«Sì, intrusi, è esattamente ciò che ho detto. Qualcuno ha fatto un gran chiasso nella fortezza superiore. Siete stati voi?»

Berry si avvicinò alla porta.

«Tu chi sei?»

«Attenzione, attenzione. È scortese che si faccia una domanda prima d’aver dato la risposta alla precedente, non trovate?»

«Chi… cosa vuol dire dagov?»

«Mi pare lampante che non vi hanno educati a dovere. Ditemi chi siete, e avrete le vostre risposte.»

«Io sono Malekith.» Anche l’alfnar si avvicinò. «Quello che ha appena parlato è Berry.»

«E il vostro terzo sodale?»

Il giovane umano non accennò a metter via l’ascia.

«Mi chiamo Cale.»

«Malekith, Cale e Berry. Ebbene, sappiate che dagov significa salute in alto gardairiano, la lingua della mia terra. Quanto a me, il mio nome è Ronac.» Batté di nuovo sul metallo. «Ora che la formalità sono state espletate, che ne direste di aprire questa porta?»

Il mezzo-morag fece di no con la testa.

«Se è chiusa, un buon motivo ci sarà» sibilò.

«Preferiremmo di no, Ronac.»

Cale prese Malekith per il braccio e si accostò al suo orecchio.

«Dobbiamo passare di qui per forza, Mal.»

Ronac rimase per un momento in silenzio.

«Oh, questo è davvero sconveniente. Dove contate di andare, se posso avere l’ardire di chiedere?»

L’alfnar rimase interdetto.

«Non credo sarebbe saggio dirtelo.»

«Oh. Immagino che questa informazione non mi renderà simpatico ai vostri occhi, ma temo che voi siate in trappola non meno di me, Cale, Malekith e Berry.»

Una goccia di sudore scese lungo la tempia del mezzo-morag.

«Che vuoi dire?»

«Intendo dire, signor Berry, che ho sentito un bel macello, poco fa. Se, come suppongo, siete crollati dal livello superiore, ho l’ingrato compito d’informarvi che quella che passa per questa porta è l’unica strada per l’uscita.»

Cale diede un calcio alla porta.

«E tu come lo sai?»

«Quest’affare maledetto non è sempre stato chiuso.»

Mal alzò gli occhi al soffitto.

«E allora come…»

«Ci sono finito? È una storia complessa, che sarei ben felice di narrarvi. Sono ben conscio che non sia rassicurante, ma per aprire questo impedimento occorre una piccola dose del vostro sangue.»

«Cosa?»

«Avrete certamente notato le due piccole spine sulla porta, signor Malekith, nonché la ruggine che vi corre sotto.»

Cale ringhiò.

«Basta fare giochetti! Se è così facile aprire questa porta, perché—»

«Non l’ho fatto io?» Ronac lo interruppe. «Per lo stesso motivo per cui sono sopravvissuto quasi cent’anni qui senza acqua, aria pulita e cibo, signor Cale.»

Il sangue di Malekith gelò nelle vene.

«Sei uno di loro?»

«Non proprio. Come ha congegnato loro, Calat ha congegnato anche me, certo, ma nel mio caso è stata applicata maggiore perizia.»

Berry sbuffò e guardò Mal.

«Io non ci capisco più niente.»

L’alfnar si massaggiò il naso con entrambe le mani, gli occhi fissi sulla porta.

«Tu… tu sei un costrutto, Ronac?»

«Il termine che usava Calat era golem. Sono un uomo in un corpo artificiale, anche se molto meno pazzo degli altri automi della fortezza.»

«Molto meno?» Cale pestò uno stivale per terra e si lasciò scappare una risata ironica. «E quanto meno, se si può sapere?»

«Parecchio meno. Sono costruito per durare, io. E non sono più matto di un qualunque altro uomo, cosa che ritengo considerevole. Ora, volete decidervi a liberarmi o dobbiamo continuare a blaterare? Non avete qualcosa di meglio da fare? Perché io sì.»

 

***

 

La porta sprofondò nel pavimento con il fragore di un terremoto. Mal si succhiò il pollice ferito dalla puntura. Dall’altra parte c’era una stanza ampia, illuminata dalla luce fioca di un paio di Gocce di Aurenbeck mezze esaurite. Al centro, seduto a gambe incrociate, c’era un uomo tutto nero. Non aveva carne, pareva un pupazzo di stoffa imbottita. Al posto del volto aveva una maschera di metallo lucido dalla forma affilata. Non aveva tratti facciali, se non un’incisione che ricordava la punta di un naso e due grandi fori neri come occhi.

«Ben arrivati, sodali.» Fece loro cenno di avvicinarsi con le sue sottili dita di metallo. «Venite, non mordo di certo.»

Si sfiorò il punto della maschera dove avrebbe dovuto esserci la bocca e fece un risolino. Cale entrò con passo pesante.

«Chi sei? Sai come uscire da qui? Perché eri intrappolato? Che cosa…»

Ronac alzò le braccia in segno di resa e il cassadoriano s’interruppe. «Mi sembra corretto, giovanotto.»

Mal fece segno a Berry di aspettare e il mezzo-morag si mise sulla soglia, la mano sull’impugnatura della spada. Cale lo guardò, sospettoso, ma abbassò un poco l’ascia.

«Parla.»

«Senza sprecar parole, io ero uno studioso. Sono stato tra i primi di quelli rapiti da Calat, quando cominciò a lavorare sui golem, e modestamente sono quello venuto meglio.»

«Non mi sembri molto triste,» Berry si mordicchiò un’unghia, «per uno che è stato strappato al suo corpo, intendo.»

«Sono certo che ne avrai conosciuti a iosa, signor Berry.» Ridacchiò di nuovo. «E poi, ho avuto anni per gioire della fine di quel beota.»

Indicò un punto nella stanza e Mal si sporse sulla soglia. Sotto uno sperone di roccia, che sfondava il soffitto e tagliava come una lama parte della stanza, spuntavano delle ossa sbiancate.

«Quello è tutto ciò che rimane del potente Calat. Deceduto come un cretino mentre cercavano di trasferire il suo spirito in un cristallo di sangue. Quello che ho nel petto io, per la precisione.»

L’alfnar scosse la testa.

«Calat è stato ucciso in battaglia, qui fuori, alle pendici del monte.»

Cale annuì, deciso.

«Nella battaglia della Val D’Eglaine. È scritto sui libri di storia.»

Ronac rimase in silenzio per alcuni momenti.

«Quanto tempo è passato?»

Mal fece un calcolo rapido.

«Più di ottant’anni. Siamo nell’anno del drago mille e duecentotrentasette.»

«Più di ottant’anni…»

Ronac scosse la testa piano. Si alzò in piedi e camminò fino a dove spuntavano le ossa. Si chinò, come per esaminarle, e tornò indietro.

«Lo portarono qui col petto squarciato.» La sua voce si era ridotta a un sussurro. «Respirava a malapena, si… si vedeva che ogni momento era un’agonia. Eppure, i suoi occhietti arancioni erano fissi su di me, fissi su di me. Sperava che sarei stato il suo nuovo corpo. Mi voleva.»

Sollevò un braccio e lo tastò, rivelando quanto fosse molle la sostanza sotto la stoffa.

«Pur di non morire sarebbe diventato un pupazzo.»

Berry si schiarì la voce.

«Come sei rimasto rinchiuso qui?»

Ronac accennò col pollice alla porta che aveva alle spalle, identica a quella che avevano abbassato loro per entrare.

«Qui venivano creati i golem. Fu proprio Calat a ideare le porte di sicurezza apribili solo dagli organici.»

Malekith entrò nella stanza e gli si mise davanti. Il golem di pezza non era tanto alto, gli arrivava appena al mento.

«Ronac, noi dobbiamo uscire di qui. Ti porteremo con noi se ci aiuti.»

L’altro inclinò un poco il capo, come per studiare l’alfnar da un’angolazione diversa.

«Conosco un modo per uscire, se vi interessa.»

Cale lo afferrò per il braccio, la stoffa si raggrinzì sotto la sua stretta.

«Hai mai sentito parlare di un oggetto, una sonda per la mente, creata da Calat?»

«Sì.»

Il giovane teneva gli occhi azzurri sbarrati su di lui.

«È qui?»

Ronac annuì.

«Mi ci puoi portare?»

«Lo Scavamente è ubicato nei laboratori della fortezza superiore, molto sopra di noi. Ma sì, posso.»

Il cassadoriano lo lasciò andare. Sul suo volto si dipinse un sorriso febbrile.

«Andiamo, allora, che aspettiamo?»

Corse all’altra porta e premette il dito su una delle spine.

Il golem si voltò verso Malekith.

«Vi ringrazio per avermi liberato.» Mimò un inchino con le spalle e col capo. «D’ora in poi, vi guiderò io.»