Estate, 1237 A.D.

 

«Ah!»

Mal si drizzò di scatto.

Lo stadnalv nella cuccetta davanti alla sua si svegliò.

«Che cazzo hai da urlare?» biascicò.

L’espressione sulla sua faccia grigia virò dal confuso all’infastidito. Mal alzò le mani tremanti in segno di scusa.

«N-nulla.»

Quello si grattò dietro le orecchie a punta e sputò sulle assi della camerata.

«E allora vaffanculo.»

Si rigirò nella cuccetta e tirò la coperta sopra la testa. Mal si sedette e infilò gli stivali.

Grazie a Kell non mi hanno rubato nulla.

Per sicurezza, aveva dormito abbracciato alla sciabola. La allacciò al cinturone e mise la bisaccia, usata come cuscino, a tracolla. Andò alla finestra, a passo leggero per non svegliare nessuno, e sbirciò nella fessura degli scuri. La stradina davanti alla locanda era deserta. Il sole del primo mattino illuminava la terra battuta chiazzata di urina ed escrementi di animale. Per grazia di Kell e di tutti i Draghi, Stan forse non aveva ancora raggiunto Alavir. C’era mancato un pelo la settimana prima, all’imbarco del traghetto per passare il Felanse. A ripensarci, il cuore di Mal aumentò i battiti. Prese la sua brigantina e scese le scale che portavano alla sala comune della locanda. Le statuette d’oro nella bisaccia tintinnarono.

Per salvare Stan ci vuole un mago. Per un mago ci vogliono soldi. Per i soldi ci vuole questo Jeno Dreke. 

Andò dritto al bancone. Una stadnalve di mezza età, tanto bassa da sembrare una klyn, stava sistemando una fila di boccali. Diede una scodella di pappa d’avena a un mezzo-morag dalla pelle verde chiaro e si spostò verso Mal.

«Colazione, giovane alfnar?»

Lui annuì.

«Cosa avete?»

«Pane nero e frittata, quattro talleri. Per due, pappa d’avena.»

Malekith rovistò nella bisaccia e mise cinque talleri sul banco.

«Uova e pane vanno bene.»

La faccia grigia della stadnalve si illuminò.

«Te sei quello che è arrivato ieri sera. Mai visto qualcuno filare a letto tanto in fretta.»

Fece un fischio secco. Un ragazzetto di non più di dieci anni sbucò dalla porta che dava sulla cucina.

«Frittata e pane per il signore.»

Il ragazzo annuì e tornò dentro.

«Allora, bello,» la stadnalve appoggiò i gomiti sul bancone, «quel tallero di mancia per cos’è?»

«Cerco un tale.»

«E ce l’ha un nome, questo tale? È uno dei tuoi simili?»

«Si chiama Dreke. Jeno Dreke.»

«Jeno Dreke.» La stadnalve tamburellò le dita sul legno. «Gli sei quasi arrivato in bocca, giovane.»

«In che senso? Lo conoscete?»

«Di persona no, ma avevo un amico che ci andava spesso. Dreke sta nei quartieri degli alfnar, appena girato l’angolo. Casa sua sta nel borgo dei vetrai. Non puoi sbagliare, è grossa tre volte le altre.»

«Il vostro amico è qui? Posso parlarci?»

La stadnalve si strinse nelle spalle e fece un cenno al mezzo-morag che mangiava la pappa d’avena.

«Hey, Boyd. Da quant’è che Georgie non fa un salto qui?»

A Malekith formicolò la nuca. Il morag borbottò qualcosa, ma fu coperto dallo sbattere della porta della locanda.

Si girò, la mano corse alla sciabola. Non era Stan. Era solo un morag, uno di quelli puri, non un mezzosangue. Si abbassò per far passare le spesse corna ricurve sotto lo stipite.

«Elise!» Ringhiò. «Due pinte di birra e un cosciotto di qualcosa. Ho fame.»

Il colosso dalla pelle color mattone lanciò un’occhiataccia a Malekith e si stravaccò su una seggiola. La locandiera ridacchiò.

«Arrivano.»

Piazzò davanti a Mal il piatto col pane e la frittata e gli fece l’occhiolino.

«Auguri per il tuo incontro, bello.»

 

***

 

Malekith deglutì e si passò le dita nel colletto del gambesone. Lo stanzino in cui lo avevano lasciato ad aspettare era buio, afoso. Lo sgherro di Dreke che era rimasto a sorvegliarlo era un alfnar muscoloso, i capelli bianco sporco tagliati corti. Stava appoggiato al muro e osservava la sciabola di Mal, ancora infilata nel fodero. Più il tempo passava, più Mal sentiva la sgradevole sensazione di avere una lama puntata all’inguine.

E se la taglia del Cremisi facesse gola pure a loro?

Una goccia di sudore freddo gli scese lungo la tempia. Di sicuro questo Jeno Dreke appariva più losco di quanto non l’avesse fatto sembrare Raviolo, ma era bastato fare il nome dell’uomo per essere portato dentro, anche se disarmato. Sospirò, lasciò uscire piano l’aria dai polmoni per calmarsi. C’era solo una finestra, chiusa, che faceva entrare un po’ di luce. L’aria era immobile, gli pareva che la polvere stessa gli si appiccicasse addosso. La porticina laccata di rosso si aprì e l’alfnar che l’aveva controllato all’ingresso si fermò sulla soglia.

«Entra.»

Mal entrò, seguito da quello con la sua sciabola. Dietro un’imponente scrivania di mogano stava un alfnar sulla quarantina con un accenno di doppio mento e i baffetti. Gli sorrise, scoprendo i denti. Due canini e un incisivo erano d’oro.

«Buongiorno, ragazzo.» Parlò in gardairiano, ma l’inflessione sapeva di myrhyan lontano un chilometro, con quella pronuncia dura delle erre e delle zeta. «Mi si dice che hai fatto il nome del mio amico Georgie.»

Malekith aveva la lingua appiccicata al palato.

«Voi siete Jeno Dreke?»

«In persona.» Dreke si lisciò i baffi con le dita piene di anelli. «Pensavo che lo sapessi, visto che Georgie ti ha mandato da me.»

Prese la statuina che Malekith aveva dato all’alfnar all’ingresso e la tenne davanti agli occhi. La ruotò piano, l’oro scintillò alla luce del sole che filtrava dalle finestre.

«Sentiamo, come mai il mio amico ti avrebbe mandato da me?»

Mal si umettò le labbra.

«No, io non… cioè… ho un… una cosa per voi. Altre di quelle.»

Gli occhi di Dreke si socchiusero appena.

«Ah, sì? Bene bene. Un esemplare molto interessante.» Ridacchiò. «Dov’è che l’hai preso?»

«È stato grazie a Raviolo, cioè, a Georgie.»

I due scagnozzi di Dreke soffocarono una risata. Mal lanciò loro un’occhiataccia.

«Eravamo in una spedizione insieme. Le abbiamo trovate e lui… lui mi ha detto che voi potevate rivenderle.»

Dreke fece un fischio basso, come per mostrarsi impressionato. Si appoggiò allo schienale della poltrona.

«È da un bel po’ che non si fa vedere, il vecchio Georgie. Come se la passa, eh? È qui in città?»

Malekith si morse le labbra. L’immagine di Stan che piantava la spada nel petto di Raviolo gli passò davanti agli occhi.

Malekith!

Scosse il capo.

«C’è stato un incidente nel… nel… Georgie non ce l’ha fatta.»

Lo sguardo di Dreke si fece assorto.

«Non ce l’ha fatta.» Si accarezzò di nuovo il pizzetto, guardando in aria. «Povero Georgie.»

Mal si sbirciò alle spalle. I due alfnar se ne stavano fermi a guardarlo, a braccia conserte davanti alla porta.

A tagliarmi la via di fuga.

Dreke si riscosse, il suo sguardo tornò su Malekith.

«Posso vedere il resto della merce?»

Il giovane aprì la bisaccia e si avvicinò, gli mostrò la ventina di statuine all’interno.

«Ah, un bel tesoretto, ragazzo. E cosa intendi farci?»

«Beh, Georgie diceva che voi siete un esperto in queste cose, e che siete l’uomo giusto se uno vuole… trovare un lavoro in questo campo, ecco.»

«Quindi, se ho ben capito,» Dreke intrecciò le dita. «Tu mi lasci questi gingilli e io li piazzo, ti pago e vedo se ho un lavoro per te?»

Mal rimase in silenzio. La testa gli vibrava, il cuore martellava così forte che rimbombava fin dentro ai timpani.

«Georgie pensa forse di ripagare così il suo debito? Non è mai stato una cima, ma ora deve essere proprio rincoglionito.»

«Debito? Io non—»

«Ti ha raccontato cosa ha fatto? Come mai non mette piede qui da quasi due anni?»

L’alfnar inclinò il capo e sorrise, come a esortare Malekith a indovinare.

«N-non mi ha detto nulla, io non sapevo—»

«Certo. Ti credo, ragazzo, ti credo. Faremo così.» Jeno Dreke schioccò le dita. «Tu adesso mi dai quelle statuette, giri i tacchi e porti il tuo culo fuori dal mio quartiere. E quando vedi Georgie, gli dici che se lo vedo, gli chiedo gli interessi. Sia per il tradimento, sia per aver contato sul fatto che non avrei ucciso uno della mia stessa razza.»

Uno dei due sgherri afferrò la bisaccia e gliela strappò. Mal la agguantò all’ultimo.

«Ehi!»

Qualcuno gli strattonò i capelli e gli tirò indietro la testa. Il suono dell’acciaio che striscia sul cuoio gli sibilò nei timpani, una lama affilata gli premette contro la gola. Alzò le mani in segno di resa.

«C’è un equivoco…»

Dreke si alzò, le gambe della poltrona stridettero contro il pavimento.

«Taci, e ringrazia che non ti faccio rompere le ossa.»

Girò attorno alla scrivania e gli prese il viso con una mano, lo abbassò per portarlo alla sua altezza.

«Mi fai quasi pena, bamboccio. Il tuo amico Georgie ti ha proprio inculato, eh?»

Lo lasciò e gli diede uno schiaffetto con un movimento molle della mano. Malekith avvampò. Diede uno strattone per divincolarsi, ma quello che lo teneva gli ricordò la lama sul collo con una semplice pressione.

«Questa rabbia tienitela per Georgie, quando lo vedi. E digli di inventarsi una scusa migliore, se vuole pararsi il culo con un ragazzino.» Dreke fece un cenno all’alfnar col coltello. «Levamelo dalle palle, ma lascialo vivo.»

Il primo strattonò Mal per i capelli e lo tirò verso la porta. Dreke, invece si accostò all’orecchio dell’altro e gli sussurrò qualcosa. Quello sghignazzò e si assicurò la sciabola di Malekith al cinturone.