L’alfnar lo gettò in strada con una pedata nel fondoschiena. Mal barcollò in avanti e finì contro un uomo con la camicia rossa e una benda sull’occhio. Si voltò. Lo sgherro di Dreke, col pugnale in mano, lo guardava con aria di sfida.

«Levati dalle palle, bamboccio.»

Mal aveva la faccia in fiamme, gli occhi gli bruciavano. Serrò i denti. La porta della casa si aprì e l’altro, quello con la sua sciabola, si piazzò di fianco al compagno. Uno contro uno era fattibile, due contro uno era un suicidio. Girò i tacchi e se ne andò, mordendosi la lingua. Gli veniva da piangere. Il giorno in cui suo padre gli aveva donato quella sciabola era stato quattro anni prima, quando aveva vinto la sua prima giostra.

È passata una vita.

Continuò a camminare nella folla, senza una vera direzione. Si strofinò un occhio con la mano, dall’altro uscì una lacrima rovente che gli scivolò lungo la guancia.

Tutto in fumo. Niente soldi, niente lavoro. Niente spada. Non c’è nemmeno Stan.

Gli venne un tuffo al cuore. Si fermò al centro della strada. Girò la testa a destra e a sinistra, ruotò su sé stesso. Non c’era, grazie a Kell. Si cacciò le mani nei capelli.

Che differenza fa? Presto o tardi mi troverà. Riesce sempre a—

Un uomo gli diede una spallata che per poco non lo buttò a terra. Mal alzò il pugno.

«Ehi, attento, dannazione!»

L’altro era alto quasi quanto lui. Sogghignò, scoprendo i canini.

«Guarda dove vai, idiota.»

Camicia rossa, benda sull’occhio sinistro e pizzetto spruzzato di grigio.

È lo stesso di prima.

L’uomo teneva in mano un sacchetto di pelle scura. Glielo dondolò davanti, le monete dentro tintinnarono.

«Cosa…?»

Si tastò il fianco. Vuoto. L’uomo corse via tra la gente che affollava la strada. Mal gli si gettò dietro.

«Al ladro! Al ladro!»

Una decina di persone si girarono a guardare lui, e non il borseggiatore. Quel bastardo era un fulmine. Scartò in mezzo alla folla e si tuffò in una stradina laterale. Mal si fece largo a gomitate tra le persone e lo seguì. La stradina era lunga, gli stivali dell’uomo battevano sull’acciottolato. Svoltarono a destra, in un vicolo ancora più stretto. Il ladro si gettò un’occhiata indietro, come per controllare che il suo inseguitore fosse ancora lì. Gli sorrise e girò in un androne. Mal spinse con quanta energia aveva in corpo.

Anche questa no, cazzo!

Passò attraverso un corto corridoio coperto a volta e si trovò in un cortile, ampio abbastanza da farci stare tre carri affiancati. Era deserto. Ci si lanciò dentro a passo di carica e strizzò gli occhi alla ricerca dell’uscita, ma non c’era. Si fermò. Il borseggiatore si era volatilizzato. Qualcosa di morbido lo colpì alla schiena, con un suono metallico ovattato. Il sacchetto coi suoi soldi piombò a terra.

«Ti sei perso questi.»

L’uomo emerse da una nicchia alle sue spalle, con una spada in una mano e una daga nell’altra. Scosse via una ciocca di capelli ingrigiti dal viso e sorrise.

Kell onnipotente, no!

Il mondo rallentò. La mano di Malekith si chiuse sul vuoto dove prima c’era stata l’impugnatura della sciabola.

Un sicario del Cremisi!

Dal vicolo risuonarono dei passi e una voce parlò in myrhyan.

«Dove cazzo è finito?»

I due sgherri di Dreke sbucarono nel cortile. Il borseggiatore, alle loro spalle, fece scattare il braccio. La daga si piantò nel collo dell’alfnar che aveva tirato Mal per i capelli e aprì la carne come fosse burro. Un fiotto di sangue schizzò per terra, l’alfnar cercò di stringersi la ferita e crollò. L’altro si girò, la sciabola di Malekith ancora per metà dentro al fodero. Lo spadaccino in rosso affondò, la punta della spada, entrò nel petto dell’alfnar e uscì dalla schiena. Quello strabuzzò gli occhi, dalle labbra gli uscì un verso a metà tra un singulto e un grido. L’uomo estrasse la spada e, con un solo movimento del braccio, gli tranciò la gola. Lo sgherro di Dreke cadde accanto al suo compare. Lo spadaccino gli strappò il pugnale dalla gola e pulì entrambe le lame sul suo corpo. Mal indietreggiò e incespicò sui suoi stessi piedi.

«Kell onnipotente…»

Lo spadaccino accennò alla sciabola con la punta della spada.

«Mi sa che quella è tua, mio giovane amico. Scusa per lo scherzo dei soldi.»

Kell benedetto, cosa diamine…?

«T-tu chi sei?»

Lo spadaccino rinfoderò le sue armi. Si strofinò con due dita la benda nera che gli copriva l’occhio sinistro.

«Mi chiamo Fernar. Per gli amici Fern.»

Infilò il piede sotto la sciabola di Malekith e la lanciò in aria. La afferrò al volo e si avvicinò al giovane scoprendo i canini sporgenti in un sorriso sghembo.

«Tu puoi chiamarmi “Signor Fern”» disse, allungandogli l’arma.

Malekith fece per prenderla, ma la mano gli tremava. Strinse il pugno per farla smettere.

«Vuoi uccidermi?»

L’uomo lasciò che prendesse l’arma. Si sistemò il ciuffo di capelli e lo infilò in un corto codino sulla nuca.

«Mi sembravi più sveglio, ragazzo. Se volessi ucciderti, ti ridarei la spada?»

Mal inspirò. Il peso familiare della sciabola, il suo bilanciamento, la sensazione dell’impugnatura sotto le dita, tutto lo riportò al momento in cui suo padre gliel’aveva consegnata.

Sono fiero di te, figlio.

Gli occhi presero a bruciare.

«Lo sai usare, quel bel ferro?» Fernar sputò per terra. «O te lo porti dietro per far scena?»

Il giovane alfnar guardò la lama, come se la vedesse per la prima volta. «Sì. Sì, la so usare.»

«Saresti pronto a dimostrarlo?»

Malekith indietreggiò.

«Perché?»

Fernar allargò le braccia.

«Perché, se sei abbastanza bravo, potrei offrirti il lavoro giusto per infilarlo in culo a Jeno Dreke.»