Inverno, 1253 A.D. 

 

Qualcosa gli si era piantato in gola, si agitava come un verme. Cale deglutì per costringerlo a scendere, e continuò ad allontanarsi dal rifugio a passo pesante. Oramai la porta azzurra era del tutto sparita tra gli alberi.

Niente, quel fottuto groppo che gli stava piantato appena oltre l’ugola non voleva saperne di scendere. Un brivido gli percorse l’esofago, giù fino allo stomaco e poi di nuovo su, spingendo per uscire. Mollò la lanterna a terra e vomitò tra le radici di un albero. Un fiume acido gli risalì la gola. La faccia gli andava a fuoco, l’intero corpo gli andava a fuoco. Non riusciva a respirare. Si appoggiò al tronco, un altro conato lo fece sussultare e rigettò ancora. Ansimò per riprendere fiato, ma era come ingoiare tizzoni ardenti. Sulla lingua aveva un sapore come di melograno marcio. Sputò, ma non servì a niente. Gli prudevano le mani. Le tempie martellavano.

«Ragazzo? Stai—»

«Fanculo!»

Sfoderò Tfalminaaz e si scagliò contro l’albero. La luce della lanterna pulsava. Piantò l’acciaio nel legno ancora e ancora, ogni impatto gli faceva risalire una scarica elettrica attraverso i muscoli. Urlò, la resistenza della spada che urtava il legno era puro piacere.

Muori, muori, cazzo!

Schegge di legno saltarono per aria.

«Ragazzo!»

Ignorò la voce della spada. Il fusto dell’albero pulsava di rosso, come fosse coperto di sangue fresco. Ruggì e continuò a colpire. La lama si incastrò nel legno e la ruotò per far leva, si buttò di spalla contro il tronco e spinse, la schiena in fiamme.

Crack!

L’albero, segato per oltre metà dai suoi fendenti, crollò. Cale riprese la spada e ci si appoggiò, ansimando. Quel saporaccio acido gli graffiava la lingua.

«Ragazzo, calmati. Sembri—»

«Mio padre? Sembro mio padre?» ringhiò.

«Sì.»

«E allora fanculo mio padre.» Alzò l’elsa davanti agli occhi. «E fanculo anche a te.»

Scagliò via la spada di punta, e Tfalminaaz si piantò in un tronco a pochi passi da lui, la lama che si fletteva su e giù. Aveva voglia di spezzare in due quella maledetta arma sul suo ginocchio, o di sradicare tutti gli alberi di quella dannata foresta. Si guardò le mani. Tremavano. Il volto di Malekith gli passò davanti agli occhi, con quel fottuto sorriso copiato da Fern. E il fuoco si spense. La sola prospettiva di tornare indietro gli fece diventare il cuore di piombo, ma le mani non gli prudevano più.

«Perché non…» strinse il pugno, ma era senza più forze. «Perché non lo odio?»

«Forse non è con lui che sei arrabbiato.»

«E con chi cazzo dovrei esserlo?»

Tfalminaaz non rispose. Rimase lì a ondeggiare piano, nella penombra ai margini della luce che gettava la lanterna.

Non ho fatto niente.

Non aveva fatto desistere Thiago. Non aveva aiutato Malekith, quando serviva. Non aveva salvato Talia.

«Non ho fatto nulla. Nemmeno una volta.»

La rabbia gli montò di nuovo in corpo, esplose come un incendio. Restò fermo a tremare, i denti serrati, lasciando che lo bruciasse. Senza fare niente. Afferrò la lanterna e andò a prendere Tfalminaaz. Lo estrasse con uno strattone e riprese a camminare.

«Si può sapere che ti prende? Dov’è che andiamo?»

«A Forge. Vediamo quanto c’è davvero di Samwhaine in me.»

 

***

 

Cale fece un profondo respiro. La stanza sotterranea era più larga di quella in cui avevano compiuto il rituale lui e Bazachel. Questa era circolare, fatta da tanti anelli digradanti, che finivano nel cerchio dove stava lui ora, come una piccola arena.

«Sei sicuro che funzionerà?»

La punta fredda di Tfalminaaz gli pungeva il petto appena accanto allo sterno, tra quarta e quinta costola. La reggeva per la lama, pronto ad affondarla nel petto nudo. Bazachel, in piedi su uno dei gradini più alti, incrociò le braccia.

«Dubiti della mia magia dopo l’ultima volta?»

«No. Solo—»

«Sei tu che mi hai chiesto di farlo.» Il klyn agitò un dito. «Vedere se la rabbia che hai è la stessa di tuo padre. Solo Tfalminaaz lo sa, e solo lui può fartelo vedere.»

«Da parte mia, non mi pare la migliore idea di tutte. Ma non nego che possa funzionare.»

Cale fece un sorrisetto nervoso.

«Cerca solo di non ammazzarmi.»

«Aprire un cuore nel modo che stiamo per fare non differisce tanto da quanto faresti con una normale spada. Devi resistere abbastanza, o non potrò richiuderlo.»

Il cassadoriano prese un lungo respiro. I cristalli di Sangue di Drago disposti in cerchio attorno a lui, poggiati su glifi incisi nel terreno, brillavano tenui.

E va bene.

Espirò, staccò appena la punta di Tfalminaaz dalla pelle e se la conficcò nel cuore. La lama sgusciò come un’anguilla tra le sue dita, una puntura fredda gli trapassò la carne. Uno stridio gli attraversò le orecchie, i cristalli avvamparono. Strinse Tfalminaaz con tutta la forza che aveva. L’ombra della spada, proiettata per terra dal bagliore dei cristalli, si staccò e si librò nell’aria. Era nera, come fosse solida. Dalla sua elsa sbucarono delle dita, un polso, un avambraccio. Una figura di pura ombra emerse dalla lama, come se quella fosse una fessura per un altro mondo. L’essere appoggiò i piedi sulla pietra e afferrò la spada. Cale impugnò Tfalminaaz e indietreggiò. Lo stridio si abbassò a rumore di sottofondo. La luce emessa dai cristalli diede nitidezza all’ombra. Capelli rossi, pelle pallida e occhi verdi come smeraldi. Samwhaine era tanto giovane che lui e Cale parevano due gocce d’acqua, se non che per occhi e capelli. Le gambe del cassadoriano lo spinsero ancora indietro, lontano da suo padre. In un lampo, rivide il momento in cui gli aveva sfregiato il sopracciglio, rischiando di accecarlo.

Io non…

Samwhaine scattò in avanti e menò un fendente alla testa, Cale lo bloccò di puro istinto. Suo padre sferrò un taglio a sinistra e uno a destra, sfruttando l’impeto dell’attacco, e costringendolo a indietreggiare e girare, continuando a dargli terreno.

Non stai facendo niente. Non fai mai niente.

Cale allungò un affondo, ma senza convinzione, solo per guadagnare spazio. Il volto di suo padre divenne scuro, i capelli bianchi. Durò solo un istante, ma lo sguardo di Malekith lo trafisse come una lama. Samwhaine deviò il goffo affondo e ripartì, fendente alla testa, taglio a sinistra, taglio a destra. Cale allungò in anticipo la spada per parare l’ultimo colpo, e suo padre fece cambiare l’attacco con uno scatto del polso. La lama gli si schiantò sulle dita. Un lampo di dolore, e l’inferno che gli esplodeva sotto la pelle. Cale serrò la mano ancora più forte, i denti stretti, nonostante il dolore.

Non hai fatto niente.

Samwhaine sogghignò. Era lo stesso sogghigno di Malekith.

Basta.

Attaccò con un taglio veloce alla testa, prendendolo in contropiede. Falciò al petto, un altro colpo alla testa, fintò e attaccò alla spalla. La lama d’ombra parò per un pelo. Il volto di suo padre mutò ancora, i tratti si ingentilirono, gli occhi divennero quelli mansueti di Talia. Una mossa prevedibile. Cale fintò alto e affondò un calcio nel ventre scoperto dell’avversario, spingendolo indietro. Calò un fendente tanto forte che la spada d’ombra vibrò.

Papà combatterebbe così?

Quella non era Talia, non era suo padre, non era nemmeno Malekith. Fintò un attacco da destra, l’avversario ci cascò. Un mulinello sopra la testa, e la sua lama scattò a sinistra. Era in ritardo, poteva tagliargli la gola.

Io non sono papà.

Lo lasciò parare, un goffo blocco all’ultimo secondo. Sfruttò il suo sbilanciamento, e afferrò l’elsa dell’arma, spingendo con la sua per fare leva.

Non è lui che odio. Non è lui, che non ha fatto nulla. Sono stato io.

Strappò via dalle sue mani la lama d’ombra.

E questa è la mia spada.

Samwhaine indietreggiò, la bocca aperta e gli occhi sgranati. Il suo corpo tornò a essere fatto di buio, le ombre strisciarono sulla pelle. Gli occhi sfumarono dal verde all’azzurro, proprio come quelli di Cale. Il cassadoriano unì le due spade, quella d’acciaio e quella di tenebra, l’una sull’altra. Lo stridio finì, la luce si spense. La stanza di pietra era davvero troppo buia, adesso. Cale ansimò e barcollò fino a uno dei gradoni. Si sedette e si sfregò gli occhi per riabituarli al buio. Dall’alto provenne un lento applauso.

«Impressionante, lo devo ammettere.» Bazachel trotterellò giù, verso di lui. «Ma non capisco perché non l’hai ucciso.»

«Cosa c’era da uccidere? Ho capito cos’era, tutto qua.»

«E cos’era, sentiamo un po’?»

Cale riusciva a distinguere già meglio la sua brutta faccia. Aveva una sfumatura di curiosità che non gli aveva mai visto. Sorrise.

«Penso fosse il mio rimorso. Tiro a indovinare, eh.»

Il klyn rimase zitto, ma aggrottò le sopracciglia, infastidito.

«Ah ah! Ti ha tappato la bocca, eh, vecchio bastardo?»

«Taci.» Bazachel guardò di sottecchi il cassadoriano. «Non mi hai risposto. Perché non—»

«Non l’ho distrutto?» Cale fece spallucce. «È stato lui a spingermi qui. Sarà lui a portarmi fino a casa.»

Si passò una mano sulla fronte bagnata di sudore e se la pulì sui pantaloni. Non c’era nessuna ferita, ma le ossa gli facevano ancora male per il colpo inferto dalla lama d’ombra. Si sfiorò il petto, accanto allo sterno. Nemmeno un graffio, grazie a Kell. Bazachel si passò piano la lingua sulle labbra, col sopracciglio sollevato.

«Vuoi andare ad affrontare tuo padre?»

«L’idea è di parlare con lui.»

«Samwhaine non è mai stato tipo da perdersi in chiacchiere.»

Cale sospirò.

«È un rischio da correre, temo. Se ti andasse di venire con me…»

«Io?» Il klyn sollevò l’angolo della bocca in una smorfia. «E perché dovrei tornare a vedere il brutto muso di tuo padre?»

«Così potrai finalmente dirmi quanto c’è di lui in me.»