Malekith non poteva vedere le dita di Calat tamburellare sulla scrivania, ma le sentiva. Era un anno, oramai, che aveva abbandonato il corpo di Ronac. Era stato lo stesso giorno in cui aveva fondato il suo piccolo regno sulle ceneri di quello di re Levon.
«Quanto ti devo per i tuoi servigi, Malekith?»
«Per l’affare con Clayton? Centocinquanta.»
«Un po’ altino.»
Il suo tono Mal lo conosceva bene, significava che stava sorridendo. Oramai era abituato a capirlo a orecchio.
«I miei prezzi sono alti per un motivo.»
Calat posò il sacchetto di pelle sulla tavola.
«Hai proprio interiorizzato bene la mia lezione, eh? Non vale la pena vivere, se si vive male.»
L’alfnar aprì il sacchetto, diede una sbirciata e lo richiuse. Nemmeno la vista del denaro riusciva a fargli passare il bruciore allo stomaco.
«A cosa serve vivere, se non lo si fa bene?» Gli fece l’occhiolino. «Era questo che mi dicesti.»
Niente, il fottuto sorriso gentile di Cale continuava a tornargli in mente.
Un vecchio castello e due marmocchi che gli ronzano attorno. Sai che bella vita.
C’era qualcosa che lo pungolava più della stizza, però. Un vuoto allo stomaco, quel bruciore che gli toglieva le forze.
È tornato a casa. Quel bastardo ce l’ha fatta.
Si morse l’interno della guancia, ma la voce non lo lasciò in pace nemmeno stavolta.
A differenza tua.
«Come mai non sei rimasto dal tuo amico cassadoriano?»
«Tu come cazzo fai a saperlo? Mi spii?»
Una risata compiaciuta vibrò nell’aria.
«Anche. Ma per me sei un libro aperto, Mal. Un’altra lezione, quella più importante, non l’hai appresa bene.»
«Ah sì?» Malekith si raddrizzò sullo scranno. «E sentiamo, allora, dimmelo tu perché non sono rimasto.»
L’uomo invisibile fece un sospiro, come se fosse stufo che Mal non ci arrivasse da solo.
«Perché, per quanto tu faccia finta di essere Fern, ti brucia. Brucia a Malekith, al principe Malekith.»
La sua sedia cigolò appena, i suoi passi accarezzarono il pavimento e il tappeto, girando attorno alla scrivania.
«Non so se ti bruci di più non essere Cale o non essere Fern.»
«Meglio che essere te, no?»
L’alfnar mantenne il suo sorriso, ma strinse il pugno. Il dolore allo stomaco divenne più acuto. Calat aprì la finestra che dava sul versante innevato della montagna. L’aria gelida fece condensare il suo respiro all’istante.
«Perché? Perché sono il cattivo? Calat il Folle, sì? Quello stesso Calat che ha costruito il castello in cui ti trovi adesso, con delle nozioni di meccanica e distribuzione dei pesi che gli architetti del tuo palazzetto a Espya nemmeno immaginavano.»
«Ammazzavi persone per divertimento.»
«Non per divertimento, per utilità. Se devi costringere un uomo con la paura, uccidi il suo amico davanti ai suoi occhi, lo minacci. Se devi studiare la magia, fai degli esperimenti.»
Malekith fece un ironico pfft.
«Come creare costrutti e farli impazzire? Legare la mente della gente dentro pupazzi di legno?»
«Chi è l’immortale, tra noi due, qui?» Calat rise. «Ci sono le statue di Mors, Mordgaine e Ostrit sui pinnacoli della cattedrale di Kell. E nell’unico pinnacolo vuoto doveva esserci la mia statua. Fino a cento anni fa mi chiamavano Santo, Malekith.»
«E hanno smesso quando hai cominciato a sperimentare su cavie vive. Usavi le persone.»
«Perché tu non le usi, le persone, Mal? Non stai indossando la maschera di un uomo che hai ucciso tu, solo perché quella che avevi prima non ti piaceva?»
Il sorriso scomparve dalle sue labbra. Mal si alzò ribaltando lo scranno.
«Tu…»
«Io cosa? Invidi Cale, ma ti senti in colpa perché, forse, alla fine, non era così difficile fare quello che ha fatto lui.»
Ci fu uno scrocchio, forse le dita di Calat.
«Continui a non capire il senso della metafora del melograno.»
L’alfnar ringhiò, sprezzante.
«L’ho capito il senso della tua fottuta metafora. Significa che, come scegli scegli, ti ritrovi sempre nella merda.»
«Sbagliato.»
Poteva immaginare Calat agitare il suo indice invisibile per fare segno di no, con quel tono da superiore. Serrò i pugni, desideroso soltanto di schiantarli sulla sua maledetta faccia.
La condensa del fiato del negromante fu spazzata via dalla brezza.
«Il senso della metafora è cosa fai con il melograno. Cosa sai di una persona, se non lo mangia?»
Mal non rispose. A Calat non doveva fregare un cazzo, da tanto era innamorato del suono della sua voce.
«Se dici a un uomo di mangiarlo e lui non lo fa, cosa impari? Che vuole fare qualcos’altro. Ci sono coloro che mangiano un chicco per uno, quelli che mangiano tutto. E quelli che piantano il melograno in un campo e fanno crescere un albero, no?»
«E quelli che ci fanno le metafore.»
Calat rise, ma era una risata fredda, come se fosse infastidito.
«Io mi sforzo con te, ma tu non ci arrivi. Ti sei mai chiesto cosa fare, con quel melograno? Una volta che lo sai, vedi anche le altre possibilità. Perché spreco il mio tempo a farti metafore sui melograni, secondo te?»
Lo spettro del ghigno che aveva rubato a Fern tornò ad affiorargli in volto. Se provocare Calat poteva fargli passare quel dannato bruciore allo stomaco e il cazzo di sorriso di Cale dalla testa, meglio.
«Non lo so, suprema maestà. È chiaro che siete un gran pensatore» fece, ironico. «Io non sono come voi, ahimè.»
«No, infatti.» La voce del negromante era tagliente. «Sei come me prima che scoprissi chi sono. Un bambino impaurito.»
Malekith avvampò. Il grido di Alarie gli squarciò i timpani.
Malekith, aiutaci!
«Vaffanculo. Tu non sai cosa mi aspetterebbe, se tornassi.»
Mani invisibili applaudirono con sarcasmo.
«Non ti sei mai chiesto perché mi sia servito di te come criminale e non ti abbia rimesso sul trono? Potevo farlo io se tu mi avessi detto che lo volevi, no?»
Non gli rispose, il volto che andava a fuoco, le orecchie bollenti.
«Avrei solo rimesso sul trono un bambino, non un re. Non l’ho fatto perché tu non hai mai scelto. Mai una di volta.»
Calat richiuse la finestra. Malekith aggirò lo scranno caduto.
«Non prendermi per scemo. Mi avresti chiesto qualcosa in cambio, favori, appoggio…»
«Sì. Ma non è quello che ti ha fermato, o sbaglio?»
L’alfnar rimase muto ancora una volta. Non aveva nemmeno mai pensato di chiederlo a lui, era sempre stata un’idea stupida. Adesso, invece, sembrava la cosa più naturale del mondo.
«Vedi di scegliere chi sei, ragazzo» sibilò Calat, duro. «Io l’ho fatto, e mi è bastata una mezza guerra civile per ricreare un regno. Vedrai cosa farò nei prossimi anni.»
«Tu hai scelto il male.»
«Non ti senti stupido a dire certe cose? E tu cos’hai scelto, l’ascetismo e la preghiera? Non mi pare proprio.» la voce del negromante si fece scocciata. «Sei dello stesso stampo degli idioti che mi hanno bollato come pazzo. Il vero male, ragazzo, è stare fermi e lasciare che le cose vadano avanti. Se un contadino va a casa e decide se ammazzarsi o meno, se abbandonare la sua famiglia oppure no, ne risentono sua moglie e i suoi figli. Se lo fa un re, o un principe, ne risente una nazione. A me non interessano i contadini, ma i re. È con i re che si cambia il mondo.»
«Tu sei pazzo. Trovati qualcun altro a cui dare lezioni, se vuoi un re.» Mal scosse la testa, secco. «Io non voglio tornare a—»
Dalla scrivania, un calamaio si alzò in volo. L’alfnar ci mise un istante a capire che l’aveva preso Calat. Gli sfrecciò contro e lo centrò in piena fronte, il mondo divenne una macchia rossa e nera.
«Ah! Cazzo!»
Qualcosa lo afferrò e lo sbatté di schiena sul tavolo, come fosse un fuscello. Un brivido gli congelò le ossa.
Sono morto.
«Non me ne frega un cazzo della tua seggiola dorata, bamboccio idiota» sibilò l’uomo invisibile. «Se ti avessi voluto lì, il tuo culo starebbe a lucidare il trono da anni.»
Calat inspirò a fondo, come per calmarsi. La presa si allentò, le sue dita invisibili gli lasciarono i vestiti. Si appoggiò al suo petto, il gomito a spremergli il plesso solare, e ridacchiò.
«Oh, tu proprio non capisci di cosa parlo, vero? O non vuoi capire, come i bambini.»
Si tolse di dosso, i suoi passi girarono attorno alla scrivania, la sedia imbottita cigolò e si piegò un poco indietro.
«E a me non servono né bambini, né copie annacquate di Fernar Wayne. Vai per la tua strada, principe Malekith. Non mi occorrono più i tuoi servigi.»
L’alfnar si alzò in piedi, ansimante. Strinse il pugno per nascondere il tremore alle mani.
«Io non… io non sono Malekith. Non più. Io sono Manonera. Ho scelto.»
«Oh, ne sei sicuro? Una sola cosa è certa, della tua decisione.» La voce di Calat si venò di disprezzo. «Tu cerchi di essere un’altra persona da quando sei nato. E non credo potrà mai venirti bene.»
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