Combacia. Combacia tutto alla perfezione, figlio di puttana.

Sempre più carichi a Hallton, sempre meno a Berry. Il registro parlava chiaro. Fern aveva ragione. Si rigirò tra le dita uno dei pugnali da lancio e sbuffò una boccata di fumo rosso sangue. Il corto manico vibrava contro il suo palmo. Addossato allo stipite dell’ingresso della biblioteca, attese. Avrebbe voluto afferrare il cranio del mago e schiacciarlo sotto le dita, sbriciolargli le ossa a pugni, strappargli la testa dal collo.

Cazzate. Gli basta un gesto per farti a pezzi. Resta concentrato.

Non sapeva neanche più se quella fosse la voce di Fern o di suo padre. Nella sua testa suonavano uguali. Il portone si aprì, e il suo stomaco si contrasse.

Ci siamo.

Scagliò la lama in aria con tutta la forza che aveva. La sentì ancora, anche quando aveva già lasciato la sua mano, e impresse tutta la forza che aveva sull’acciaio. Ven schioccò le dita, uno stridio acuto tagliò l’aria. Il pugnale esplose in una pioggia di schegge.

«Lo sapevo.» La sua voce era carica di odio.

Mal saltò via dallo stipite, una frustata di energia si schiantò sul legno, sparando schegge tutt’intorno. Si acquattò dietro a uno degli scaffali, robusto e spesso. Si era quasi aspettato di poter sorprendere lo stregone con il coltello. Quasi. Il suo corpo bruciava, le incisioni della Predisposizione erano incandescenti.

«Dove siete, tu e quel fottuto pupazzo?»

La voce di Ven era vicina nemmeno tre metri. Mal lanciò un coltello verso il fondo della sala, serrò le palpebre e deviò la sua traiettoria in un’ampia curva, facendolo rimbalzare su uno scaffale opposto a dove si trovava. Uno schiocco, un tuono. Qualcosa esplose, foglie e brandelli di carta piovvero dal cielo.

«Sai che posso scovarti!»

Mal balzò avanti, i muscoli ardenti, come riempiti di piombo fuso. Un reticolo di glifi dorati baluginò su una delle librerie. Un fremito gli attraversò il corpo, i segni d’oro tremolarono. La libreria divenne trasparente. Dall’altra parte, Ven aveva gli occhi come due tizzoni ardenti. Fece scattare la mano. Mal spinse con entrambe le sue e il dolore della Predisposizione gli morse la carne. La libreria volò avanti, la saetta del mago la fece esplodere. L’alfnar partì di corsa verso la porta dello studio. L’aria attorno a lui si addensò, si arrischiò a lanciarsi un’occhiata alle spalle. Ven si librò in aria e alzò una mano, un globo di luce incandescente apparve sul suo palmo.

«Vieni qui, pezzo di merda!»

Lanciò un altro coltello e piroettò avanti, evitando che l’incantesimo di Ven lo centrasse. Il pavimento sfrigolò dietro di lui. Si aggrappò a un mobile e saltò di lato. Una folgore incenerì il legno, una zaffata di bruciato gli investì le narici. Mal rotolò, fintò un salto a sinistra e invece balzò a destra. Ven piantò le dita nel tappeto e l’alfnar avvertì un fremito attraverso la stoffa. Qualcosa gli afferrò una caviglia. Mani di tessuto vermiglio si contorsero dal tappeto e gli si avvilupparono addosso, per impedirgli di fuggire.

Cazzo!

Gli aghi gelidi del terrore gli si piantarono nel petto. Ven si raddrizzò ansimando e alzò il braccio, come al rallentatore, caricando una nuova folgore. Le sue dita si contorsero, attraversate da spasmi. Mal si forzò a concentrarsi, come gli aveva insegnato Jana quando si erano addestrati a lanciare i coltelli sotto l’effetto della droga. Nella sua mente sentì il peso dei lumi a olio attaccati al soffitto e li strattonò giù, le incisioni sulla pelle gli lanciarono una fitta fin dentro alle ossa. Il tappeto prese fuoco e le mani lo lasciarono andare.

«Fermo, traditore!»

Mal si voltò e balzò nello studio. Qualcosa gli esplose alle spalle e lo sollevò, scagliandolo come un giocattolo attraverso la stanza. Si schiantò contro la scrivania, le costole urlarono di dolore. Vomitò aria, sulla lingua un sapore metallico. Ruzzolò sul tappeto, lordo di sangue.

«Figlio di puttana di un traditore!» Sentì lo scalpiccio delle scarpe di Venice. «Vieni qui, fatti ammazzare!»

Il mago emerse dal fumo sulla soglia. Mal sputò e si puntellò su un gomito per alzarsi.

Se Ronac non faceva quello che doveva con quel maledetto cuore, era morto.

Distrai il nemico, diceva Fern. Rendilo prevedibile.

La sua voce era sempre stata così simile a quella di re Dimas? Si accucciò, pronto a saltare.

«Tuo padre sarà fiero, Ven. Lui un giocatore d’azzardo, tu un traditore della Corona. I Chastaine fanno progressi.»

Gli occhi di Chastaine si incendiarono come tizzoni.

«Io traditore? Tu, piccolo…»

Sollevò la mano e gli venne incontro, ma non finì la frase. Mal vide con la coda dell’occhio Calat, acquattato accanto all’ingresso, alzare un pugnale e piantarlo nel cuore, costellato di lunghi cristalli appuntiti. Uno schiocco, come il colpo di una frusta, gli perforò i timpani e si tramutò in un grido acuto. Fu come avere una pioggia di chiodi nella testa. Strinse i denti e si premette le tempie, rannicchiato a terra. Cessò di colpo. Rotolò. Sotto le dita avvertì il familiare contatto del pugnale nero, il suo fremito all’estendersi del manico. Ven era appoggiato al bordo della parete. La mano sinistra era premuta sull’orecchio, tra le dita gli colava del sangue.

«Figlio di puttana… cosa mi hai…»

La sua voce era distorta, o era il fischio nelle orecchie di Malekith? Il mago barcollò verso di lui. I suoi occhi non brillavano più, erano colmi di sangue e capillari spezzati.

«Cos’hai fatto?»

Col manico, Mal gli assestò una botta allo stomaco, facendolo piegare in due. Mulinò la lancia e gli centrò il naso. Un fiotto rosso macchiò di nuovo il tappeto. Ven crollò e l’alfnar gli appoggiò la punta contro la gola. Il corpo di Berry, steso senza vita nell’erba, gli attraversò la mente. Gli occhi gli si erano bagnati, bruciavano. Bruciavano anche i segni dove Venice aveva inciso, per ore, durante la Predisposizione. Aveva già le profonde occhiaie, al tempo, ma gli sorrideva.

Tieni duro, diceva.

Non c’era più quella faccia nell’uomo che aveva davanti. Era un viso stravolto dal dolore, così magro e…

Quando si era gettato sul Bazachel, a casa di Dreke, per salvargli la vita. Lo rivide, nitido come se gli stesse davanti. Le mani gli tremavano. Tutta la sua voglia di spappolargli il cranio a pugni era scomparsa, la fiamma di una candela spenta da vento.

«Fallo, traditore.» La voce del mago era un sussurro, niente più. «Abbi il coraggio di ammazzarmi.»

Mal scosse la testa.

Eri mio amico!

«Ammazzami.» Lacrime rosse di sangue uscivano dagli occhi di Venice. «Avanti! Abbi il coraggio!»

Ma lui non ce l’aveva, per niente. Non l’aveva mai avuto.

Ha ucciso Berry.

Gridò, per soffocare quella voce. Non riusciva ad affondare la punta, non riusciva. Lo colpì con tutta la forza che aveva, sotto al mento. Il capo di Ven scattò indietro e sbatté contro il pavimento. Nella testa di Mal risuonava ancora quell’urlo stentato, più una supplica che una sfida. Non voleva smettere.

Abbi il coraggio…

 

***

 

Calat zoppicava ancora un po’.

«Ho dato il segnale. Arriveranno tra poco.»

Si sedette davanti a Malekith, abbandonandosi di peso sulla sedia. Mal annuì. Era tutto uno strano incubo, quello. Il peggio era che non sapeva cosa fosse meglio, se andare fino in fondo al sogno o svegliarsi e sperare che passasse.

Abbi il coraggio.

Calat scosse una mano, gettando gocce di sangue sul tavolo.

«Ven teneva un po’ di soldi nascosti nel—»

«Cosa cazzo me ne importa, dei soldi?» sibilò Mal.

Il golem fece spallucce.

«A cosa serve la vita, se non la si vive bene?»

L’alfnar si alzò di scatto, facendo stridere la sedia sul pavimento. Prima che potesse fare due passi, la voce del golem di pezza lo fermò.

«Posso farti una domanda?»

Malekith sbuffò.

«Perché non l’ho ucciso?»

«Sì. È per l’esperimento che ti dicevo prima. Vorrei capire una cosa.»

Su tutte le posate, l’argenteria, ogni specchio, ogni cazzo di maledetta superficie riflettente della sala, il volto di un Malekith vecchio e ringhiante scandiva una sola parola.

Codardo.

Erano le parole che gli aveva detto Venice.

Non vuoi nemmeno vendicare Berry. L’ha ucciso lui!

L’aveva ucciso, era vero. Ma non cambiava la realtà. Pensò di nuovo al suo corpo, steso nell’erba e col petto bucato, nella speranza che gli desse l’impeto per andare a uccidere il mago, chiuso nella stanza antimagia. Un eroe che vendica la morte dell’amato, una bella favola. Ma la vendetta era un sentimento degno dei nobili, degli eroi. Non gli scattò nessun istinto omicida, nessuna furia sacra da romanzo di cavalleria.

Tu sei un codardo, in fondo alla tua sporca anima. Non te la meriti, la vendetta. Non ti meriti niente.

Calat fece una specie di sospiro molto lieve, appena udibile.

«Siamo davvero simili, tu e io, Malekith. Mi ricordi me da giovane.»

«La cosa dovrebbe essere un complimento?»

Il golem fece una risatina.

«Che ne dici di lavorare per me? Mi piaci.»

«No, grazie.» Mal si assicurò di avere il pugnale pronto. Sempre meglio, con uno così. «Resterò con Fern.»

«Oh, tanto meglio. Presto immagino che lavorerà per me anche lui.»

Si tirò su e passeggiò sul pavimento di pietra. Mal si impose di non indietreggiare, ma le viscere gli si torsero, strette dalla paura. Calat inclinò un poco il capo. I due fori nella maschera parevano pozzi di pura oscurità.

«Ti consiglio, allora, di non far parola con nessuno, riguardo a me. Per due motivi.» Sollevò il pollice. «Primo, sai che, se si viene a sapere, cercheranno di uccidermi. Ma non ci sono riusciti non so quante volte, e tu sai che io non cercherò di ucciderti. Io ti ucciderò, se lo farai. Chiaro?»

La sua voce era allegra, come se non lo stesse minacciando affatto. All’alfnar, però, corse un brivido fin dentro al cranio.

«E secondo» Ronac sollevò anche l’indice, «potrei tornarti utile, se un giorno tu avessi voglia di riprendere la strada per il trono di Espya.»

A Mal salì un conato di vomito su per la gola. Che si fottesse lui, il trono di Espya e tutto quanto. Lui non era un eroe. Non sarebbe mai tornato. Non disse nulla di tutto questo, però. Gli mancò il coraggio.