Inverno, 1245 A.D.

 

Mal sfiorò il manico del pugnale nero con le dita. Era diventata un’abitudine dura a morire. La porta gli si chiuse alle spalle, mozzando il soffio di vento gelido che si era portato dietro entrando al Cane e il Secchio. Spazzò con lo sguardo la locanda. Nessun alfnar ma, in compenso, parecchi brutti musi, specie i due vicino alla porta. Facce piene di cicatrici e sguardi truci. Come li guardò, li abbassarono sulle loro birre. Un paio di ragazze niente male, tutte e due umane. Per il resto, una bettola anonima come tante. Erano quelle che preferiva. Si concesse un attimo per indugiare sulla scollatura di una che si chinava ad appoggiare un vassoio. Spostò gli occhi e colse il farsetto rosso sbiadito di Fern e l’impugnatura della spada di Cale. I suoi passi non fecero quasi rumore sulle assi coperte di segatura bagnata. Un tizio gli piantò addosso uno sguardo troppo torvo per i suoi gusti. La faccia di cazzo era un tipo magro, con la pelle butterata e i capelli unti. Ricambiò la sfida con uno sbuffo minaccioso. Lo stronzo notò la sua stazza, capì la mala parata e tornò al suo liquore. Mal gli passò accanto apposta, sfiorandolo con il gomito.

Uno secco così lo spezzo con una mano.

Raggiunse i suoi, tirò indietro la sedia e ci si lasciò cadere sopra con uno sbuffo.

«Ciao.»

Cale alzò appena lo sguardo dal bicchiere per rivolgergli un cenno.

«Ciao, Mal.»

Fern gli strizzò l’occhio e schioccò le dita per chiamare la ragazza. L’alfnar si appoggiò di peso allo schienale, facendo cigolare il legno. Intrecciò le dita e le scrocchiò. Lo spadaccino si strofinò la benda sull’occhio e appoggiò i gomiti al tavolo.

«Saputo qualcosa?»

«Nulla che non sapessi già.»

L’alfnar sfoderò il suo sorriso migliore alla cameriera appena arrivata e le cinse la vita con un braccio. La tirò a sé, lei rise, senza nemmeno fingere troppo. Vista la clientela di merda, Mal doveva sembrare ancora meglio, in quella bettola.

«Che vi porto, signore?»

«Liquore di malto, uno per me e uno per il vecchietto.»

Tirò fuori dal borsellino un paio di monete e gliene mise una in mano. Fece ruotare l’altra fra le dita e l’appoggiò nella fessura tra le sue tette.

«Ce ne sarà un’altra tutta d’oro, se dopo mi segui sul retro.»

Il sorrisetto che aveva stampato in viso era una copia e una figura di quello di Fern, tranne che per i canini sporgenti. Funzionò, come al solito. La civetta finse di arrossire e si chinò, col pretesto di sussurrargli all’orecchio, facendo strusciare il seno lungo il collo e la spalla.

«Arrivo subito, signore.»

Si allontanò. Cale alzò la testa per lanciare all’alfnar un’occhiata amara. Prima che potesse tornare a specchiarsi nella sua mezza pinta di birra, Mal gli diede un pugno scherzoso sulla spalla.

«Avanti, non fare il bambino.» Abbassò la voce. «Li hai visti quei due accanto alla porta, no?»

Cale annuì.

«Li ho visti, sì.»

«Non mi pareva da te, in effetti, una scopata di questi tempi.» Fern ridacchiò. «Il buon gusto ti è tornato, però.»

Mal lo ignorò.

«Li avete riconosciuti? Sono uomini dei servizi segreti?»

«Non hanno una faccia familiare, ma da quando è morto re Levon, non credo esistano più servizi segreti. Ora sono solo un gruppo di stronzi che cercano di vincere la loro guerra civile.»

«Quindi non sai chi sono?»

Fern sospirò.

«No, Mal. Ma immagino che, se ti seguiranno dopo, quando andrai a farti la tua scopata, saremo sicuri che sono quelli che ci stavano alle calcagna.»

Mal annuì piano, senza staccarsi dal volto il suo sorrisetto. Lo spadaccino si grattò il pizzetto.

«Bella pensata, complimenti vivissimi, signor genio. Vogliamo tornare alla lettera?»

Si interruppe e aspettò che la ragazza appoggiasse i due bicchieri sul tavolo e lanciasse un’occhiatina all’alfnar. Mal le diede una pacca sul culo.

«Arrivo tra un minuto, tesoro.»

Appena se ne fu andata, sospirò. «E torniamoci. Ti ho detto che non ho nulla di nuovo.»

«Perché sei così diffidente verso Ronac?»

Se sapessi chi è gli staresti alla larga pure tu.

«Mi sembra strano. Dopo più di due anni da—» Si morse la lingua per zittire i ricordi. «Due anni di silenzio, e mi chiede di andare da lui. Da solo. E, peggio ancora, capita giusto quando abbiamo bisogno di cambiare aria, e i vecchi colleghi ci stanno addosso.»

Osservò i gesti di Cale e si trattenne dal sorridere. Passava dal bicchiere a sbirciare i due alla porta, lo sguardo seminascosto dai capelli. La mano destra, che loro non potevano vedere, era posata sulla testa dell’ascia, al fianco. Si immaginò la scena. Al minimo movimento di uno dei ceffi, una fetta di cervello si sarebbe stampata sulla parete. Fern fece un’alzata di spalle e bevve un piccolo sorso dal bicchiere di peltro.

«Sai che non voglio costringerti, Mal.»

«Lo so che ne abbiamo bisogno. Mi sto rompendo il cazzo anch’io di vivere così. Già al servizio della buonanima del re era uno schifo.» Sputò a terra. «Figurati adesso, dopo il casino al Mont Noire e…»

Gli tornò in mente il freddo di quella montagna maledetta, le raffiche di aghi ghiacciati, gli ululati degli spettri. Il suo corpo che tremava, e non per il gelo, ma per l’astinenza da Sangue di Drago. La voglia di vomitare, la gola riarsa, lo stomaco che si contorceva. Grazie a Kell, era passato oltre quella merda.

Dovevo saperlo che era un’idea del cazzo. Infatti, sua maestà Levon ci ha lasciato il collo, sia maledetto lui e il suo piano idiota.

Scosse la testa. Bevve il liquore tutto in una volta, lasciando che gli esplodesse come un incendio nei polmoni. Abbatté il bicchiere sul tavolo e si alzò in piedi. Fern lo osservava, l’angolo della bocca sollevato in un sorriso accennato.

Lo so cosa vuoi dire, dannazione a te.

Inspirò a fondo. Era davvero stufo. Stufo di rintanarsi in quelle bettole da due soldi. Stufo di quel liquore di malto che bruciava e non sapeva di niente, stufo della neve, di centellinare i soldi e guardarsi le spalle. E stufo anche dell’aria depressa di Cale, per dirla tutta. Da quando era tornato, e aveva scoperto cosa aveva combinato Ven, si era chiuso in un’ostinata cupezza che persino lui faticava a scalfire. Cambiare aria gli avrebbe fatto bene. Lavorare per Calat voleva dire grandi rischi potenziali, ma anche culo parato e moneta sonante. Tanta moneta sonante. Abbastanza da prendere il volo e levarsi da quel Gardaire del cazzo, e andarsene via, magari nel Failund, a nord.

«Entro stasera decido» concesse, chinandosi in avanti e appoggiando le mani al tavolo. «Ora, se posso, mi farei una scopata. Se quelli mi seguono, fateli secchi.»

Il sorriso di Fern si allargò.