Calat indossò il secondo guanto metallico. Era molto più sottile di quelli che Mal gli aveva visto usare quando Ven era ancora a capo della baracca.
«Ero sicuro che saresti venuto, amico mio.»
Anche lo studio era cambiato. L’aveva spostato più in alto, in una delle torri che spuntavano dal fianco innevato della montagna. Dalla finestra entrava una luce gelida, che si rifletteva sul centinaio di maschere di metallo lucidato appese ai muri tappezzati di scarlatto. Malekith storse la bocca. Si sentiva osservato da quegli occhi vuoti, come quelli del golem dall’altra parte della scrivania.
«Ho ricevuto la tua lettera.»
«Altrimenti non saresti qui, no?»
«Cosa proponi?»
Le dita sottili di Calat presero un melograno dello stesso colore delle pareti. Lo incisero e iniziarono a togliere la scorza.
«Un lavoro. Non sarà una passeggiata, ma tu e i tuoi amici siete più che qualificati. Vi metterò a disposizione una squadra.»
Mal incrociò le braccia possenti al petto.
«Che tipo di lavoro?»
«Esplorazione archeologica. Ho ottenuto i permessi e gli incartamenti del caso quando re Levon, che riposi nel fuoco di Kell, era ancora vivo. D’altronde, quell’ipogeo era mio.»
Male, molto male.
Puzzava di inculata lontano un miglio, per dirlo alla maniera di Fern.
«Se è tuo…»
«È crollato tempo fa. Ho già fatto riaprire l’ingresso e ho recuperato le mappe.»
Mal fissò quei due buchi neri che il golem aveva al posto degli occhi.
«Di nuovo, io allora a che ti servo?»
«Tu, Cale e Fern siete… affidabili. Avete quasi ammazzato il mio braccio destro, ed erano sei anni fa, anche di più.»
Calat tolse la membrana bianca dal melograno con un gesto delicato. A uno a uno sgranò i chicchi, con un rumore sgradevole, simile a ossa che scrocchiano, ma più sottile. Li lasciò cadere in una ciotola di ceramica.
Ancora quell’affare?
«E poi, Malekith, perché credo di conoscerti bene. Siamo molto simili, te l’ho detto più di una volta. Sei la persona giusta da mandare da lei.»
L’alfnar si alzò.
«Basta. Parla chiaro o…»
Calat annuì piano, senza smettere di sventrare il frutto.
«Siediti.»
Strinse i denti. Avrebbe voluto sferrargli un pugno su quel pezzo di latta che aveva al posto della faccia, ma il solo pensiero lo fece rabbrividire. Anche in quel corpo, Calat poteva ammazzarlo?
Ha ucciso un semidio. Ha ucciso… chissà quante cose.
Si risedette.
«Lei è… come spiegarlo in maniera semplice? Un fantasma, potremmo dire così.»
«Un fantasma.»
«Non è un fantasma delle favole, mio giovane amico. Non è semplice da spiegare. Ho fatto esperimenti su di lei e su altri. Tre bambini. Tre maghi.»
«E ora sono morti?»
«I loro corpi sì, o non sarebbero ancora lì. Alcuni degli uomini che ho impiegato nello scavo hanno visto una donna giovane, dalla pelle diafana e i capelli corti, che diceva loro di andar via.»
Malekith scosse la testa, la bocca sempre contratta in una smorfia.
«Sembra proprio un fantasma delle favole.»
«Il punto è che mi serve che la incontri. Mi serve che parli con lei. Al resto penseranno i suoi sogni.»
Finito di sgranare il melograno, Calat lasciò la buccia sul tavolo e passò a un altro.
«I suoi sogni, eh? Mi pareva di averti detto di parlare chiaro.»
«Se la sua mente è ancora viva, così è per quelle dei suoi fratelli. Li ho cresciuti insieme, e insieme hanno poteri immensi. Avrà sognato del tuo arrivo, ne sono certo.»
Mal sbarrò gli occhi.
«Tre maghi assieme?»
«Era un esperimento, te l’ho detto. Uno riuscito, oltretutto.»
«Beh, te lo scordi. Io non ci vado. Come la mettiamo?»
Sapeva di star giocando col fuoco. Vedeva già quelle dita d’acciaio affilato schizzare oltre il tavolo e piantarglisi nel collo, scavargli nella carne. Calat inclinò un poco la testa di lato.
«Malekith, ti manca la vita di corte?»
«Cosa?»
«Il cibo saporito, carne e cacciagione, frutta di stagione, un letto di piume. Ti mancano?»
Più le elencava, più Mal si rese conto del dolore alla schiena, dello stomaco mezzo vuoto e di quanto cazzo gli mancasse addentare un arrosto fatto come si deve.
Anni e anni a fare la vita da sorcio.
«Ti ricordi quel che ti dissi, la notte che catturammo Ven? A cosa serve la vita se non la si vive bene?»
Sollevò la mano destra, grondante di succo di melograno, così simile a sangue.
«Quanto?»
Non meno di mille reali, più equipaggiamento e…
«Ottocentocinquanta reali d’oro, più tutto quello che vi porterete dietro, tranne un paio di cose. E un lasciapassare per uscire dal paese.» La voce di Calat pareva divertita. «Anche per i tuoi amici, stessa offerta.»
Mal si costrinse a mantenere una faccia di bronzo.
«Mille e cento reali. Cosa me ne frega del lasciapassare?»
«Malekith, Malekith… non offendermi. Pensi che ti abbia chiamato ora per caso? Devo dedurre che ti piaccia avere sul collo il fiato dei tuoi vecchi colleghi?»
Figlio di puttana.
Mal lo fissò con ira, una rabbia impotente che minacciava di strozzarlo. La mano destra gli tremava, la nascose accanto alla coscia.
Mi ha inculato con tutti i calzoni, fottuto Kell.
Cosa poteva fare, però? La guerra civile peggiorava di giorno in giorno. Dopo l’ultima volta, di battaglie e razzie non ne voleva più vedere.
Se resto qui, una balestrata nella schiena, prima o poi, non me la leva nessuno.
Calat rovesciò una manciata di chicchi di melograno nella ciotola.
«Inoltre, se vorrai accettare l’offerta che ti feci cinque anni fa, ti ricordo che so essere molto generoso. Con quei soldi e il mio aiuto, potresti anche tornare a Espya.»
Eccolo, il suo asso nella manica. Fare leva sul passato. Mal sbuffò dal naso. Forse lui e Calat erano davvero simili come diceva, perché ci aveva pensato anche lui, e più di una volta. Aveva abbandonato quel sogno per Berry, ma lui non c’era più. Si era ripetuto che non gliene fregava più nulla di casa sua, ma il pensiero continuava a ritornare. Deglutì.
«Posso farti una domanda?»
Calat annuì.
«Prego.»
Sulle labbra di Mal si disegnò un sorrisetto.
«Stai per farmi di nuovo la metafora del melograno?»
Il golem rise e spinse la ciotola piena di chicchi rosso rubino sul tavolo, verso di lui. Assomigliavano a tanti piccoli cristalli di Sangue di Drago.
«Sì. Di nuovo la metafora del melograno.»
Mal allungò una mano verso la ciotola.
«Come ti ho già chiesto, vale la pena perdere tempo a lavorare il melograno per il suo sapore? Alla fine dura un attimo, è pieno di ossicini e ti lascia le mani imbrattate.»
Calat sollevò la mano metallica e mosse piano le dita sporche di rosso.
«Quelli che si accontentano succhiano due o tre chicchi e sputano gli ossi. Che fatica, dicono, non ne vale la pena, e intanto non godono per nulla. Era tua, questa definizione, no?»
Lo disse con un tono ammiccante, che fece sbuffare l’alfnar.
«Sì.»
«Ma quelli che vogliono mangiare tutto, spesso lavorano di fretta, sprecano il succo, e quando masticano spezzano i semi, rovinando il sapore. O, magari, ci si strozzano pure.»
«Me lo hai già detto.»
«E ricordi cosa mi rispondesti?»
«Sì. Basta non farsi strozzare.»
Mal fissò in silenzio la massa di chicchi e scosse la testa.
«Mi sembra sempre un po’ tirata come metafora.»
«Lo so, ma le metafore sono fatte apposta per essere distorte. Questa serve al suo scopo.»
«Perché vuoi che lo mangi, stavolta?»
Calat intrecciò le dita.
«Per lo stesso motivo per cui lo volevo la prima volta. Fammi vedere come mangi un melograno, dico io, e ti dirò che persona sei. Mangia quel melograno, e saprò cosa vorrai fare con l’oro della ricompensa.»
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