Posò le dita sulla sporgenza sul fianco della bisaccia, per assicurarsi che il pugnale che gli aveva dato Calat fosse ancora lì. Dove altro sarebbe potuto andare? Percorse il suo profilo irregolare, pieno di deformazioni.

Se me lo trovassero addosso mi impiccherebbero come eretico, o peggio.

Ritrasse la mano. Gli ordini di Calat non si discutevano, e lui era stato zitto. Tanto più che, senza quell’affare, poteva scordarsi di tornare indietro vivo. Fidati di lei, aveva detto. Mal si fidava solo del suo istinto, e quello prometteva guai. Avrebbe dovuto fidarsi di un fantasma che doveva pugnalare? Un pugnale in osso di drago per ammazzare un fantasma. Da non crederci. Alla fine, anche Fern aveva dato la sua approvazione. Meglio un’esplorazione potenzialmente pericolosa che una coltellata alla schiena assicurata.

Se entro un mese non siamo fuori da questo cazzo di regno non ne usciamo più.

Gettò un’occhiata dietro di sé, sulla carovana della spedizione. Fern stava in coda, i due carri leggeri avanzavano spediti sul terreno irregolare del passo montano. A sinistra, qualche metro oltre il bordo della strada, il terreno finiva. Lo strapiombo precipitava nella foresta sottostante, dieci metri e più di caduta libera. Non si vedeva nemmeno più il villaggio dove avevano lasciato le riserve. Cale, che cavalcava accanto a lui, gli gettò l’ennesimo sguardo mesto. Non aveva fatto altro da inizio mattinata, e Mal non l’aveva mandato a fanculo solo perché sapeva già cosa voleva dirgli. Si rifiutava con tutta l’anima, ma tanto era solo questione di tempo. Decise di tagliare la testa al toro e avvicinò il cavallo a quello del cassadoriano.

«L’ho sentito anche io, del mostro.»

Cale non alzò gli occhi dalla strada davanti a sé.

«La carovana è esposta, anche per un branco di idioti sarebbe facile farci cascare di sotto.» Sputò a terra. «Figurati per un abominio impazzito.»

Le sue parole producevano nuvolette di condensa nell’aria gelida. Il sole splendeva pallido nel cielo striato dalla foschia.

«Sono voci, Cale. E poi, secondo te, perché noi due siamo in testa alla marcia e Fern è in coda?»

«Dici che è uscito dalle rovine, Mal? Il mostro, intendo.»

«No, o sarebbe uscito prima. Dev’essere qualcosa arrivato da fuori. Magari…» esitò, «magari gli interessa qualcosa all’interno. Sempre che esista.»

Cale mugugnò.

«Sì. Sarebbe meglio se avessimo un mago con noi.»

«No. Basta maghi, grazie.»

L’amico prese fiato, pronto a incalzare di nuovo con la solita storia. Niente, quando si metteva in testa qualcosa conveniva dargli una coltellata, piuttosto che cercare di farlo desistere.

«Sai cosa intendo, Malekith.»

Cale ci girava intorno da quando era tornato alla miniera di Calat.

Quel posto di merda deve aver rievocato i vecchi ricordi.

Non poteva dargli torto, però. Li aveva rievocati anche a lui.

«Sì, lo so.»

«Da quant’è che non vedi Shar?»

Mal sospirò.

«Da prima ancora che tu lasciassi il circo, lo sai. Non ti ho mai chiesto che cosa ti ha fatto tornare, a proposito.»

Cale scosse la testa.

«Mi ero solo illuso di poter fare qualcosa, di avere potere sulla mia vita. Un’illusione che è passata in fretta.»

Restò zitto per un po’, continuando a guidare assieme a lui la colonna. Ma ora che gliel’aveva messa in testa, Shar non voleva più uscire. Una notte aveva sognato di averla accanto a sé, di sentirla piangere. Non l’aveva abbracciata. Sarebbe stato da ipocriti. Lei lo aveva guardato, con quegli occhi dorati così simili a quelli di Berry. Si era svegliato, senza riuscire a decidere se stringerla oppure no.

Hai abbandonato anche lei. Abbandoni sempre tutto.

Serrò i denti. Forse era giusto accettare l’aiuto di Calat, tornare sul trono. O almeno provarci, provare a fare contento almeno papà.

«Insomma…» riattaccò Cale, «non ti ricorda i bei vecchi tempi?»

Mal sputò per terra.

«Quelli in cui ero un coglione ingenuo? Certo, bellissimi. Mi mancano proprio.»

«Andare a espugnare antiche fortezze, esplorare rovine… come quando ci siamo conosciuti.»

L’alfnar sorrise in risposta a quelle parole, e il cassadoriano fece lo stesso.

Sembra passata una vita.

«Era per quello che dicevo di Shar. Dev’essere stato difficile… dopo Berry. Forse tu e lei…»

Mal aveva preso un paio di coltellate, nella sua vita, tra cui una alla spalla e una all’avambraccio. Questa fu più dolorosa, la sentì appena sotto lo sterno, strisciargli fin dentro al cuore.

«Lascia stare.»

Il resto del viaggio passò in silenzio, ma il danno era fatto. Mal si sforzò di pensare all’organizzazione, a come gestire le risorse all’ingresso, all’ordine di marcia. C’era l’essere che infestava le montagne, da considerare. Certe voci parlavano addirittura di un drago, ma Calat aveva confutato la teoria. L’immagine del corpo di Berry buttato a terra, come un pupazzo, il petto rosso di sangue, l’erba scura sotto di lui, fece irruzione nei suoi pensieri. L’odore di cenere gli aggredì le narici. Strinse i denti finché le gengive non presero a fargli male, strinse ancora più forte.

Avrei potuto salvarlo. Se non fossi stato un ingenuo idiota, avrei capito il piano di Ven. Se fossi stato l’eroe che credeva lui, un eroe per davvero…

Le orecchie gli ronzavano. Cosa poteva fare con la ricompensa? Cosa voleva capire Calat, con quella stupida metafora del melograno? Mise la mano nella bisaccia e accarezzò l’impugnatura piena di gobbe e sporgenze del pugnale in osso di drago. Cosa ci avrebbe fatto, Calat, con la ricompensa?

 

***

 

L’ipogeo era freddo. Ovvio, visto che era quasi in cima a una montagna, ma Malekith rimase colpito dal gelo che pervadeva l’aria. Sbuffò una nuvola di condensa. Lui e Cale si fermarono davanti a un masso grosso quanto un carro, crollato a bloccare l’ingresso di un corridoio. Deviarono a destra e si infilarono in un cunicolo. Una delle pareti era inclinata, come se la montagna stessa ci si fosse appoggiata addosso.

«Mal, senti, mi dispiace… per prima. Per Shar.»

«È tutto a posto. Solo, non parliamone più.»

Cale scosse la testa.

«Io ti ho sempre visto come un fratello maggiore. Siamo simili, io e te.»

Uscirono dal cunicolo e sbucarono in un corridoio più ampio, con lanterne appese ai ganci alle pareti.

Qui gli esploratori della spedizione devono essere già passati. Perché non l’hanno segnato sulla mappa?

«Mi dispiace per quello che è successo, Mal.» Il cassadoriano lo fermò, mettendogli una mano sulla spalla. «Mi dispiace non essere stato qui. Avrei potuto…»

«Saresti morto anche tu, Cale. È stato meglio così, non avresti potuto fare nulla.»

L’uomo si morse il labbro inferiore e si piegò un poco, come se avesse appena preso un colpo al petto. Mal tentò di sorridere.

«Ehi, non intendevo…»

Una pulsazione attraversò l’aria. L’alfnar fu invaso da un formicolio, e anche il pugnale nella sua bisaccia pulsò. Era come se un’onda l’avesse investito. Si voltò, ma non c’era niente.

«L’hai sentita anche tu?»

Cale lo guardava in modo strano. I suoi occhi erano appannati, il suo capo ciondolava piano. Crollò a terra.

«Cale!»

Del fumo azzurro fluì fuori dal suo naso, dagli occhi, dalla bocca e dalle orecchie. La voce del cassadoriano echeggiò tra le pareti, ma era distante, come se provenisse dal fondo di un pozzo.

«No! Non può essere chi dici tu! Mio padre non è un mostro!»

Il pugnale fremette ancora nella bisaccia, e Mal indietreggiò, continuando a guardarsi intorno.

Kell benedetto…

Lo impugnò nella sinistra, e il freddo dell’aria sparì. Una scarica elettrica gli percorse il braccio e l’arma vibrò ancora, come a volerlo tirare avanti. C’era un’altra voce, distorta che riverberava tra i muri, più evanescente di quella di Cale. Il pugnale d’osso lo tirò ancora. Da quando le fiammelle delle lanterne erano diventate blu? Mal avrebbe voluto mollare quell’affare e darsela a gambe.

Codardo.

Aveva previsto quella voce. Sapeva che lo avrebbe detto, sapeva che aveva ragione. Iniziò a camminare, un piede dopo l’altro, lasciandosi guidare dal pugnale.