Sbucò in una sala irregolare, larga. Le quattro pareti salivano all’infinito, si perdevano nel buio. Non c’erano porte, archi o passaggi. Non c’era nessun ingresso, e nessuna uscita.
Come…?
La donna davanti a lui aveva gli occhi chiari e i tratti gentili. Si sfiorò i corti capelli bruni. Per Mal, era fatta di carne e ossa come tutte le donne; non sarebbe potuta essere più diversa da un fantasma. Lui non ne aveva mai visti, però.
«Sei arrivato. Ti aspettavo.»
La sua voce aveva una strana eco, come se riverberasse nelle sue orecchie. Mal si guardò attorno.
Arrivato, sì. Ma dove?
«Tu sai chi sono?» Abbassò gli occhi sul pugnale. «Sai perché sono qui?»
«Lo so.»
«Tu… come ti chiami?»
«Il mio nome è Kellquiss.»
«Calat mi ha detto di parlare con te.»
La luce azzurrina che illuminava la stanza sfarfallò, divenne meno forte.
«Come sono arrivato…?»
«Qui?» Completò la donna dalla voce gentile. «Ricordi mai da dove vieni quando inizia un sogno?»
«Sono in un sogno?»
La bocca delicata di lei si piegò in un sorriso amaro.
«È l’unico luogo in cui mi è concesso vivere.»
Le sue esili spalle si alzarono e si abbassarono, assieme alla stoffa leggera della tunica azzurra.
«Per poco ancora, visto che tu sei giunto. Malekith, sangue dei re.»
L’alfnar fu percorso da un brivido. La luce sfarfallò ancora, e lui guardò verso il soffitto. C’era qualcosa che si agitava nelle ombre.
«Questa è la guglia infinita. Un sogno che si ripete in eterno e cresce, e continua a crollare su sé stesso.»
«Crollare?»
Kellquiss annuì piano.
«Non preoccuparti. Fintanto che sogno, la guglia non crollerà mai del tutto.»
«Tu stai sognando qualcosa che si rompe e che si ricrea all’infinito?» Mal si grattò la testa. «Perché?»
«Per tenere impegnati i miei fratelli.»
Ce n’erano altri due, aveva detto Calat.
«Dove sono?»
«I loro corpi sono polvere, oramai. Ma la mente di tre, nel corpo di uno, può generare prodigi. Prodigi pericolosi.»
L’alfnar strinse il pugnale.
«Cosa devo fare?»
«Uccidermi.»
A Mal parve, con la coda dell’occhio, di cogliere i muri fremere.
«Sei l’eroe che nostro padre ha mandato a uccidermi. L’eroe con due anime, l’eroe che muore due volte.»
Mal serrò i denti.
«Donna, tu non sai chi hai davanti. Io non sono un eroe.»
Lei sorrise ancora, gentile.
«Un codardo che muore da eroe cos’è? Un codardo, o un eroe?»
Gli parve di diventare di ghiaccio. Il pugnale d’osso di drago continuava a pulsare tra le sue dita, ma lo ignorò.
«M-morire da eroe?»
Di morire non aveva nessuna voglia, che fosse da codardo o meno.
«Tu… hai visto il futuro?»
«Nella guglia non si vede il futuro. Si vedono i sogni.» Kellquiss sollevò una mano. «Guarda tu stesso, le tue due anime.»
Il rumore del vetro che si infrange gli graffiò i timpani. La luce divenne bianca, le pareti brillarono e si deformarono, la stanza si allargò. Dal nulla sorsero degli scalini, un podio sotto i suoi piedi, un trono accanto a lui. Inciampò e ci cadde seduto sopra. La sala del trono di Espya, con i finestroni di vetro colorato, la foresta di colonne di marmo e il pavimento intarsiato, prese forma davanti ai suoi occhi. La corona sul capo, la veste porpora bordata di bianco.
Sono il re.
Era leggero, leggero come una piuma. Era tornato a casa, ce l’aveva fatta. Un lamento venne dal basso. Berry era riverso sulla scalinata che portava al trono. Una lunga, interminabile scalinata, così lunga che non ne vedeva il fondo. Il mezzo-morag vomitò sangue sui gradini di marmo. I suoi occhi d’oro si alzarono su Malekith.
«Aiutami. Non mi lasciare…»
L’alfnar balzò giù dal trono e si fiondò verso di lui.
«Berry!»
Una scossa di terremoto. Il trono prese a sbriciolarsi, e la scala sotto a Berry anche. Mal si bloccò, pietrificato. Avanti, o indietro?
Scegli ora, codardo.
Suo padre apparve accanto a lui, gli occhi ridotti a due fessure.
«Siediti. È un ordine.»
«No!»
Voleva correre da Berry, ma non riusciva a muovere un passo. Suo padre era così deluso, così amareggiato. Poteva fargli anche questo?
«Comunque sceglierò, non sarò mai un eroe.» Crollò in ginocchio. «Non sarò mai un eroe.»
«Ne ho abbastanza di questo piagnisteo.»
La guglia crollò di nuovo su sé stessa, la sala del trono di Espya si spezzò in mille frammenti. Kellquiss lo guardava, il volto distorto da una smorfia di disgusto. Gli occhi le erano diventati neri. Alzò una mano, e la figura del padre di Malekith si contorse. Si vestì di sete scarlatte, raddrizzò la schiena, il volto prese un’altra forma. Quella di zio Varran. Il Cremisi sorrise.
«Vuoi venire a sfidarmi, Malekith?»
L’alfnar si trascinò indietro. Aveva come delle lame di ghiaccio che gli scavavano nel petto, gli impedivano di respirare.
Non è possibile…
Kellquiss fece una smorfia di dolore.
«Lascialo stare, Radaman. Non puoi fermarlo, ci libererà tutti e tre!»
Ringhiò, e parlò di nuovo con la voce di prima, profonda.
«Taci! Sei tu che non vuoi farci uscire, farti ammazzare non sarà una liberazione!»
«Non puoi fermalo. È l’eroe che nostro padre—»
La donna voltò di scatto la testa dall’altra parte.
«Questo non è un eroe! È un verme piagnucoloso, e ora mi darà il pugnale.»
Allungò la mano sottile verso di lui.
«Dammelo.»
«No!»
Mal si tirò in piedi, il pugnale d’osso puntato ora verso Kellquiss, ora verso il Cremisi, che rimaneva fermo a guardarlo col suo sorriso da iena.
«C-cosa cazzo sta succedendo?»
«Uccidimi! Non posso trattenerlo…»
Kellquiss venne avanti, offrendogli il petto. L’alfnar indietreggiò, e la donna sghignazzò, sguaiata, con la voce di Radaman.
«Dammi!»
«Che cazzo volete da me?»
«Puah!» Radaman gli diede uno schiaffo. «Sei come mio fratello, un demente indeciso.»
Gli sputò in faccia e rise ancora, una risata gutturale e sguaiata.
«Non lo so! Non lo so!» Gli fece il verso, distorcendo i bei lineamenti del volto di Kellquiss.
Mal avvampò, la saliva che gli colava lungo la guancia, e serrò il pugnale. La donna ebbe un fremito e si ingobbì. Lo guardò con occhi spenti, grigi, e parlò con una vocetta infantile.
«Non lo so. Cosa faccio? Che devo fare? Chi sono?»
Chi sei, Malekith?
L’alfnar digrignò i denti.
«Smettila.»
La donna si grattò la testa. Chi era, adesso? Kellquiss o Radaman, o addirittura il terzo fratello?
«Non lo so. Cosa scelgo?» Gli faceva il verso, con quella vocina fastidiosa. Si sforzò di non reagire.
«Dimmi cosa… cosa vuoi che faccia.»
Lei gli restituì uno sguardo ebete, appena infastidito.
«Non lo so.»
«Cosa devo fare?»
«Non lo so. Cosa devo fare?»
Mal strinse il pugnale così forte da far tremare la mano.
«Porco Kell, stai zitto! Rispondi solo—»
«Non lo so.»
«È un fottuto gioco, per te?»
«Non lo so. Chi sei?»
L’alfnar inspirò a fondo.
«Vuoi che faccia l’eroe e ti liberi? Non lo sono» ringhiò. «Ma questo lo faccio volentieri!»
La afferrò per il braccio e colpì, mettendoci tutto il peso del corpo. Il pugnale le sfondò lo stomaco come una zanna ingorda di carne. Lo estrasse e la tenne per la spalla, con un affondo brutale lo piantò nella trachea.
«Non sono il tuo eroe del cazzo» sibilò, il volto a un pollice dal suo.
Torse l’osso di drago nella sua carne, sogno o non sogno, e le dilaniò ancor di più la ferita. Strappò, lasciando che gli schizzi caldi gli inzuppassero il collo, il petto, il viso. Il sangue gli si staccò dalla pelle, goccia per goccia, e fluttuò in aria. Il pugnale lo attirò a sé come un magnete, il liquido rosso strisciava dentro l’osso. Kellquiss, riversa a terra con la testa quasi staccata, esplose in mille gocce, attirate dall’arma. L’osso tremò, un battito come di cuore pulsante. Crepe si aprirono sulla sua superficie, la luce azzurrina della guglia divenne rosso cupo. Una fitta di dolore gli attraversò la mano e lo costrinse ad abbandonare il pugnale.
«Ah!»
Galleggiò nell’aria, continuando a pulsare. Di nuovo rumore di vetri infranti, sopra di lui. Il Cremisi era già sparito, il marmo sotto i suoi piedi anche. La guglia infinita gli precipitò addosso prima che potesse svegliarsi.
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