Era quasi il tramonto. Il sole scendeva davanti a loro, alla fine della strada. La carovana proseguiva pigra. Oltre il bordo della scarpata, a destra, crescevano degli abeti, radicati in un piccolo avvallamento alcuni metri più giù. Le loro cime sfioravano il ciglio della strada, tanto erano alti. A sinistra, invece, la parete rocciosa irregolare saliva, spoglia e minacciosa, come volesse crollare sul convoglio. Cale cercò di incontrare il suo sguardo, ma Mal lo distolse. Era da quando aveva fatto rinvenire il suo amico a schiaffi che l’altro lo guardava così.

«Mi vuoi dire cos’è successo là dentro? Hai una faccia…»

«Cale, se sei mio amico, non chiedermi nulla. Fatti bastare questo.»

Estrasse dalla borsa il pugnale. Le crepe scavate nell’osso pulsavano, rosse. Piccoli frammenti galleggiavano in aria, appena sollevati dalla sua superficie, come privi di peso.

«Oh santissimo Kell.» Il cassadoriano sgranò gli occhi. «Quello è—»

«Osso di drago» sputò Mal. «Una cazzo di eresia, ecco cos’è.»

«Mal, chi te l’ha dato?» bisbigliò l’amico, facendosi vicino a lui. «Perché—»

«Cale, ti prego. Non voglio coinvolgere anche te.»

Non avresti dovuto farglielo vedere.

Scosse la testa per zittire la voce, ma quella continuò.

Non hai scelto niente, né l’amore, né il trono.

Chiuse gli occhi. Nel buio dietro le sue palpebre lo aspettava lo sguardo di re Dimas. Cos’aveva fatto quell’alfnar per renderlo così? Come poteva tradire di nuovo Berry?

Tu non vuoi né lui né il trono. Tu vuoi essere un eroe.

Il pugnale tremò più forte. Alle sue spalle, un grido tagliò l’aria. No, non un grido. Un suono a metà tra un ruggito e uno stridio. Qualcosa esplose. Luce e fumo inghiottirono l’ultimo carro della fila. Una ventata di calore sferzò la faccia di Malekith, il panico gli sommerse i polmoni come un’onda. Fern si voltò e spronò il cavallo, piantandogli gli stivali nei fianchi, l’elvsten alla guida del carro al centro fece lo stesso.

«Via!»

Dalla parete rocciosa, a sinistra, venne giù qualcosa. Una massa enorme, nera. Ali da pipistrello sulla schiena, coperta da un folto pelo scuro e ispido. Quattro zampe da rettile, tutte squame e artigli, e occhi d’oro fuso sulla testa, tre volte quella di un bue, a metà tra un lupo e una lucertola. Una coda frustò l’aria. Il mostro c’era eccome, altro che dicerie. E puntava lui, con quel suo muso appuntito, quelle sue zanne snudate. Lui e Cale fecero scattare i cavalli quasi in contemporanea, schizzarono in avanti affiancandosi ai carri.

«Cazzo!»

Il cassadoriano si voltò.

«Dobbiamo—»

Un altro ruggito stridulo coprì le sue parole. Un’ombra oscurò il sole. Mal strinse le redini, il cavallo nitrì terrorizzato e saltò avanti. Qualcosa sotto di loro cedette, l’alfnar ebbe la sensazione che lo stomaco gli stesse cadendo nel vuoto. Gli formicolarono le budella. Il fianco della scarpata si sbriciolò sotto il peso del mostro. Fu abbastanza intelligente da togliere i piedi dalle staffe. Non era il suo fottuto stomaco, era lui che cadeva nel vuoto. L’aria gli ruggiva nelle orecchie, o era il mostro? Un carro intero gli sfrecciò accanto, lasciandosi dietro una scia di monili recuperati dall’ipogeo.

Kell onnipotente, ti prego…

Il bosco in fondo alla scarpata lo attendeva come una fauce, i pini aguzzi a fare da zanne.

 

***

 

Gli bruciavano i polmoni, ma doveva continuare a correre. Almeno due costole erano rotte, anche di più. Conosceva la sensazione. Dolore a ogni respiro, a ogni falcata. La spalla pulsava, la ferita alla fronte pulsava. Non doveva fermarsi. Non poteva fermarsi. La bestia si muoveva tra gli alberi. Era leggera, più leggera di quanto pensasse, il terreno non vibrava neanche sotto le sue zampe. Come aveva fatto a far crollare la scarpata, allora?

Non pensare.

Corri.

Incespicò. I contorni della sua visuale erano sempre più neri. Aveva i polmoni che bruciavano, la gola strozzata da un conato di vomito.

Aria!

Si aggrappò a un ramo basso e si schiacciò contro un tronco. Ingoiò aria, ogni respiro una stilettata. Prese il pugnale nero. Quello d’osso avrebbe fatto poco, o magari avrebbe fatto pure peggio. Il cuore gli martellava fin dentro alle orecchie, ma ci sentiva ancora. Quelli erano passi, passi umani. Non il suono di quella massa di squame, pelo e denti. Mal indietreggiò verso un punto in cui gli alberi si diradavano. Il sole era caldo, ma lui continuava ad avere i brividi. La cosa uscì dalle frasche, schiacciando rametti e foglie. Non era un mostro.

«Chi…?»

Corporatura massiccia, unghie come artigli, ciuffi di pelo ruvido e scaglie sulla pelle nuda, al centro del petto, tra i seni. Ma gli occhi erano i suoi. Occhi d’oro fuso.

«Shar?»

La maga allargò le labbra in un sorriso terrificante, lo sguardo fisso su di lui. Pareva che le avessero squarciato il volto per farla sorridere. La bocca era piena di denti appuntiti, molti più del necessario, come se ne fossero cresciuti altri.

«Malekith…» gracchiò.

«K-Kell onnipotente, Shar… sei tu?»

«Ci sono q-quasi, Malekith.» La voce della donna si ridusse a un bisbiglio complice, come se fosse contenta di rivelargli un segreto. «C-ci sono quasi.»

Lui deglutì.

«Ci sei quasi a cosa?»

Il volto di lei ebbe uno spasmo. La guancia si contrasse e si gonfiò, del pelo nero le sbucò da sotto la pelle. L’alfnar indietreggiò, il pugnale stretto in mano. Quello d‘osso, nella sinistra, pulsava ancora e ancora. Shar ringhiò, si curvò su sé stessa e premette la guancia, come per costringerla a tornare al suo posto. Alzò su di lui uno sguardo supplichevole.

«Non te ne andare. M-manca poco.» Scoprì di nuovo i denti deformi in un sorriso. «Sono quasi un drago. Sono quasi completa.»

Allungò la mano artigliata verso di lui. Scaglie e pelo si mischiavano sulle dita e sul dorso.

«Posso essere il tuo drago. Devo solo mangiare… mangiare un’ultima volta.»

I suoi occhi si spostarono sul pugnale d’osso. Si leccò le labbra con una lingua grossa il doppio del normale. Dall’angolo della bocca le colò un filo di bava.

Kell…

Le parole che aveva detto Berry, una vita fa, gli tornarono in mente. Voci su un mago scomparso. Voci in cui c’entrava Shar.

Vuoi essere un eroe? Ammazza il mostro.

«No!» Cercò di zittire suo padre, ma lo sguardo che gli rivolse la maga era proprio quello di un mostro affamato.

«Non te ne andare!»

I suoi occhi si fecero più grandi, spalancò le mascelle. Squame e peli le invasero la pelle.

«Dammelo!»

Venne avanti, braccia protese e artigli in fuori. Il manico del pugnale nero si estese. Glielo aveva insegnato lei, bastava l’impulso di un pensiero. Affondò, dritto nel cuore. Shar pareva non aver visto la punta, ci si impalò da sola. Quasi da sola. Fece un singulto, un verso così piccolo e ridicolo, per un essere così mostruoso. Un fiotto di sangue fumante le eruttò dallo sterno, aperto a metà. I peli e le squame caddero, la bocca si fece un poco più piccola, tutta storta per contenere i troppi denti. Gli cadde tra le braccia, pesava come un macigno. Malekith franò in ginocchio per tenerla. I suoi occhi rimanevano quelli. Due pozzi d’oro, due monete fresche di conio. Uguali a quelli di Berry. Il sangue le uscì anche dalla bocca, gliene tossì una boccata addosso. Era rovente, gli bruciò la pelle, ma era un dolore lontano. Riusciva solo a guardare lei che lo supplicava con gli occhi. Anche Berry era morto così?

Shar allungò la mano per squarciargli il volto con gli artigli, o forse solo per sfiorarlo, ma tossì di nuovo e non ci arrivò. Chiuse gli occhi e non li riaprì più.