La voce di Calat era dubbiosa.

«Risarcimento?»

Le sue dita metalliche ticchettavano a ritmo sulla scrivania. Mal serrò i denti e non abbassò lo sguardo. Le costole e la spalla pulsavano di dolore a ogni respiro. La cicatrice sulla fronte prudeva. Continuò a fissare quella maschera lucida, quasi volesse specchiarcisi.

«Tutto l’oro che avevamo trovato è perduto, due carri su tre distrutti, del bottino non rimane che fumo. Quindi, se vuoi questo,» agitò piano il pugnale in osso di drago, «devi darmi un risarcimento. Senza contare la faccenda di Shar.»

Calat non si scompose. Il suo tono rimase piatto, senza nemmeno un velo di minaccia.

«Ho mandato te apposta, no?»

«Tu sapevi. Sapevi del mostro, sapevi che era lei» sibilò l’alfnar. «E mi hai usato come—»

«Sì. Io ti ho usato. E tu, Mal, ti sei lasciato usare.»

Malekith strinse il pugnale.

«Cosa?» ringhiò.

Il golem si alzò e passeggiò dietro la scrivania.

«Mi ricorda tanto Mors, questa tua storia con Shar. Il mio caro, vecchio amico Mors. Hai letto qualcosa, a proposito, o sbaglio?»

«Sì. L’hai ammazzato.»

«A sangue freddo.»

L’alfnar fece una smorfia di sdegno.

«A sangue freddo, sì. Ne vai fiero?»

Calat rise.

«Hai idea di come fosse Mors? Era così grosso che la tua Shar sarebbe sembrata una bambina in confronto a lui. Solo un coglione l’avrebbe affrontato lealmente.»

L’alfnar non mutò espressione e sbuffò dal naso.

«Questo cosa c’entra con me?»

«Io ho ucciso Mors perché era diventato pericoloso.» Il golem guardò fuori dalla piccola finestra alla sua sinistra. «Ma gli volevo bene, come tu ne volevi a Shar. Io ti ho evitato il peso di sapere chi affrontavi. Ma siamo onesti, Malekith, se l’avessi saputo l’avresti fatto comunque. I soldi ti servono, o non mi avresti chiesto della ricompensa.»

Alzò un dito.

«Com’è che l’hai chiamata? Risarcimento?»

Mal sputò sul tappeto.

«Fanculo. Se me l’avessi detto, io…»

«Tu cosa? Saresti andato a salvare la damigella in pericolo?»

Bastardo pezzo di merda.

La parte più brutta di quella storia era che, in fondo, lui sapeva che Calat aveva ragione.

«Avrai il tuo risarcimento.»

«Cosa?»

Il golem fece spallucce.

«Le cose che hai detto sono vere, e io ti ho promesso soldi e un salvacondotto per te e i tuoi amici.»

Si avvicinò a lui, e Mal ebbe l’istinto di indietreggiare col busto, fino a schiacciarsi contro lo schienale della sedia. Le costole gli lanciarono una fitta.

«Ma non ti darò nemmeno un tallero se adesso non vieni con me.»

Calat lo superò e aprì la porta dello studio.

«C-cosa?»

Sei fottuto.

«Piantala di dire “cosa” come un demente e seguimi. Hai la mia parola, se volessi la tua vita non mi premurerei di non sporcare quel tappeto e ti ammazzerei qui.»

 

***

 

Scesero di un livello, nelle zone appena restaurate, fino a giungere in una stanza circolare che doveva trovarsi, grosso modo, alla base della torre. Non aveva finestre, la luce veniva da un lampadario che pareva una montagna di candele. Dall’altro capo rispetto a dov’erano entrati c’era un tavolo ingombro di roba, accanto un affare, forse uno specchio coperto da un panno. Una serie di piedistalli di metallo, sottili e alti quanto un uomo, disegnava un anello attorno al centro della sala. Sulla loro sommità erano incastonati da barre metalliche dei cristalli di sangue purissimi, grossi come un pugno, tagliati in forma di ottaedri allungati.

«Dammi il pugnale, Malekith. Voglio che tu veda una cosa.»

L’alfnar aprì la bocca per replicare, ma Calat lo precedette.

«Avrai tutto l’oro che ti ho promesso. Hai la mia parola.»

«E da quando la tua parola vale qualcosa?»

L’altro non rispose, stese solo la mano. Mal esitò, le dita serrate sul manico d’osso. Avrebbe potuto ucciderlo, con quello?

Vuoi fare l’eroe?

Gli allungò il pugnale, Calat lo prese con delicatezza. Indietreggiò fino al centro dell’anello formato dai sottili piedistalli di ferro. Sollevò il pugnale, che ancora palpitava come se fosse vivo, alto sopra la testa. Se lo piantò nel petto. Malekith sussultò.

Kell fottuto!

La pietra delle pareti, il legno delle assi sotto di lui, la stessa aria, pulsarono all’unisono. La stanza batté come un enorme cuore, e coprì ogni suono. Tu-tum. Il golem incespicò in avanti e piombò a terra. Le fiamme delle candele avvamparono. Dove prima stava in piedi il pupazzo, la luce si addensò e prese forma. Apparve un uomo dai tratti femminili, o forse addirittura una donna, bella ma androgina. Capelli lunghi, brillanti come fuoco vivo, e occhi che parevano braci accese. La pelle aveva una strana sfumatura grigiastra che incupiva il suo pallore. Svanì subito. La luce tornò la stessa, e non ci fu più nulla. Con un sibilo, uno scricchiolio appena accennato, dei nuovi cristalli iniziarono a crescere su quelli già incastonati nel ferro. Pulsavano anche loro, come fossero vivi. Creavano forme sgraziate, irregolari. Sembrava un muschio fatto di tanti, piccoli cristalli.

«Affascinante, vero?»

Qualcosa trascinò il corpo del golem fuori dall’anello. Come se fosse stato spinto, uno dei piedistalli rovinò a terra, sbriciolando la formazione di cristallo rosso che si era formata in cima, e che non accennava a smettere di crescere. Mal si guardò intorno, i muscoli attraversati dallo spasmo del panico. Le costole e la spalla gli lanciarono una fitta.

«Calat? Ma dove…?» La voce era la sua. «Che cazzo è successo?»

«Mi sono liberato della mia maschera, Malekith.»

Passi diretti al tavolo in fondo alla stanza. Le cianfrusaglie che vi erano sopra volarono via e rimbalzarono sul pavimento. Dei vestiti si sollevarono a mezz’aria. Un giustacuore a due file di asole, scuro, con il collo alto, calzoni attillati e altri indumenti di una moda passata da un secolo. Il panno sopra lo specchio prese vita e si gettò a terra da solo. Malekith rimase basito a guardare i vestiti infilarsi, uno per uno, addosso a un corpo che non c’era. Da ultimo, sul capo invisibile, Calat si pose una corona di ferro grezzo, che parve levitare e poi appoggiarsi sul nulla. L’alfnar scosse la testa come per snebbiarsi la vista. Era diventato pazzo?

«Non ci sto capendo un cazzo. C-cosa hai fatto con quel pugnale? Perché Kellquiss voleva—»

«Oh, Kellquiss. Facevo molto affidamento sul suo giudizio, era sempre stata la più equilibrata di loro. Sapeva quanto me che, se qualcuno li avesse fatti uscire da lì, il continente sarebbe diventato cenere nel giro di un anno. Tre maghi, le menti unite tra loro; era un potere troppo grande.»

«Cenere? Quelli parlavano di sogni, di una guglia infinita. Loro mi hanno—»

Si fermò. La figura invisibile stette a rimirarsi allo specchio, a sistemare la corona con mani trasparenti.

«Li ho fatti crescere assieme, sin dai primi momenti, per superare gli effetti negativi del Campo di Aurenbeck, per farli abituare ad avere le menti fuse. Il mio esperimento più fallimentare, ahimè. Sai perché?»

Calat parlava come se adorasse sentire il suono della sua voce. Mal doveva concedere, però, che aveva un qualcosa di magnetico.

«Perché hai creato una banda di pazzi?»

Si morse la lingua, ma ormai l’aveva detto. Calat rise di gusto.

«No, Malekith. Come le persone, gli esperimenti servono se hanno uno scopo. Quei bambini non ne avevano, e qualcuno prima o poi glielo avrebbe dato, se non fossi arrivato tu. L’osso di drago serviva solo a immagazzinare per un poco il loro potere.»

Fece un cenno in direzione dei piedistalli di ferro, ora ricoperti di cristalli rossi.

«Quelli erano solo una contromisura. Se non ci fossero stati, ora probabilmente saresti solo sangue sul muro.»

Mal indietreggiò, per sicurezza, con uno sgradevole senso di vuoto nello stomaco.

«Hanno assorbito l’energia in eccesso?»

«Sì. Molto bene, impari in fretta.» La voce dell’invisibile tradì una vena di sorpresa. «Avevo bisogno di molto potere, un corpo nuovo non si crea dal niente. Ho dato loro uno scopo. In una parola, li ho—»

«Usati» lo interruppe l’alfnar. «Come hai usato me.»

«Precisamente.»

Malekith gli si avvicinò. Sbirciò nello specchio, ma non vide nulla più di quello che vedeva prima.

«Cosa fai? Riesci a… vederti?»

La corona ruotò in aria e si voltò verso di lui.

«Ha importanza, Mal? Non mi serve uno specchio per sapere chi sono.»

«Questa me l’hai già detta. Cosa ti rende così sicuro? Come fai a sapere chi sei? Tutta quella metafora del cazzo sul melograno…»

Si accorse che, nel parlare, la sua voce non aveva il tono che voleva dargli. Voleva fosse una domanda, ma pareva più una supplica.

«Perché io sono chi voglio essere, amico mio.»

L’alfnar sentì una mano posarsi sul suo braccio.

«Tu, a differenza mia, no. Mi ricordi tanto me stesso, Mal, te lo dico sempre.»

Lui non sapeva se stare fermo o scappare. Il tocco di Calat era caldo, gentile, ma la sua voce gli faceva accapponare la pelle.

«Te stesso…» mormorò. «Allora tu, tu sai chi sono. Devi saperlo.»

Calat fece una risatina. Malekith immaginò il volto femmineo che aveva preso forma dalla luce sorridere, gli occhi incandescenti scrutargli l’anima.

«Ti racconterò una storia, Malekith. La storia del perché ho ammazzato Mors. Quella che i miei amici Ostrit e Mordgaine, quando li hanno fatti santi, non hanno raccontato.»

Sputò quei due nomi con sarcasmo. Tornò al tavolo e sollevò con le sue mani invisibili una massiccia spada, avvolta in un fodero scuro. Era logoro, sbiadito sui bordi, dove il cuoio si era sfibrato.

«Questa me la regalò Mors, il fratello di Mordgaine.»

Mal annuì. I passi delle Cronache dei santi neri e del folle gli tornarono alla mente, ma soffocò i ricordi subito. La storia di Calat, di come era impazzito e aveva tradito i Santi Campioni di Kell, la ricordava sulle pagine dei vecchi tomi del suo precettore. Avere di fronte il cattivo faceva sembrare quei resoconti solo favolette incomplete.

«Perché? Perché l’hai… era tuo amico, ti ha difeso nello scontro con Ledo.»

«Prendila.»

Calat gli porse l’arma dalla parte del manico, un semplice pezzo di legno avvolto in strisce di cuoio consunto. L’alfnar la sfoderò. Era pesante, sbilanciata. Solo tenerla aumentò il dolore alla spalla e al torso, ma strinse i denti e lo nascose. Il metallo era lavorato con perizia, ma la lama pesava troppo sul davanti. L’uomo femmineo che Mal aveva visto non avrebbe avuto gioco facile a manovrare quell’affare. Glielo restituì.

«Un’incudine, vero? Una spada di certo più adatta a uno come Mors.»

«Sì, ma… non capisco. Dove vuoi arrivare?»

«Mors voleva usarmi. Senza cattiveria, è chiaro, ma al tempo io ero come te, stavo scoprendo chi sono. Eravamo in sintonia, le nostre menti pensavano assieme, ognuno estendeva i ragionamenti e le logiche dell’altro. Come fratelli, o come innamorati, se vuoi. Ma Mors non ha mai pensato che io volessi essere diverso. Ha voluto plasmarmi per diventare uguale a lui, senza capire chi fossi. Questa spada ne è la prova. Non è una spada per uno come me.»

«L’hai ucciso perché voleva usarti?»

«Al contrario.» Calat si assicurò la lama al fianco. «Aveva finito di essermi utile. Voleva che io e gli altri non studiassimo Ledo, si rifiutava di compiere quello che lui chiamava “una fottuta eresia”. Mi ostacolava. Così l’ho ucciso, come tu hai fatto con Shar.»

A Malekith salì un groppo in gola.

«Lei… lei era pericolosa. Avrebbe potuto—»

«Mors mi ha quasi staccato un braccio a colpi di spada, dopo che l’ho pugnalato alla gola. Pensi che si sia lasciato ammazzare con calma?»

Calat ridacchiò.

«Non devi giustificarti con me. Io e gli altri volevamo studiare il corpo di Ledo. Qualcosa non andava con quel semidio. Ma è un’altra storia, questa. Parliamo della tua ricompensa.»

Prese da un tavolo una grossa bisaccia e gliela lanciò. Mal non fu pronto a prenderla, e quella gli rimbalzò contro il petto e piombò a terra, vomitando una manciata di monete d’oro, fresche di conio, sul pavimento. Ammiccavano come tanti occhi dorati. Indietreggiò di scatto. Calat disse qualcosa, ma era solo rumore nelle sue orecchie. Mal continuava a guardare quelle monete che lo fissavano.

Codardo e colpevole.

Non erano solo loro a guardarlo. Altri occhi dorati erano puntati su di lui. C’era Berry, accanto a Stan, e Shar accanto a Lize. Quando era diventata così buia, la stanza? Incrociare lo sguardo di Berry fu come sentirsi annegare e ardere vivo assieme. Era così distante eppure così vicino, a due passi da lui, fu troppo. Come un cane che riceve una bastonata, abbassò gli occhi, le lacrime che già salivano. Le ingoiò, fissando di nuovo quelle monete che luccicavano e lo schernivano.

Cosa volevi fare con queste? Niente. Non avresti fatto niente comunque.

Alzò il capo.

«Voglio andare via.»