Inverno, 1249 A.D.
Uno scossone lo svegliò. Assi di legno umide sotto di lui, un gran male alla fronte e freddo tutto attorno. Cercò di tirarsi su, ma qualcosa di freddo e rigido, che gli bloccava i polsi, glielo impedì. L’istinto lo fermò. Si irrigidì e cercò di stare più fermo che poteva. Un fiocco di neve gli cadde sul naso. Col tacco dello stivale, allungando la gamba, tastò del metallo. Sbirciò verso l’alto.
Una rete?
Una griglia scura, regolare, si frapponeva fra lui e il cielo bianco.
Una gabbia.
Una gabbia su un carro che cigolava. Cercò di muovere ancora le mani, ma aveva i polsi bloccati da manette di ferro. Qualcuno gli aveva buttato addosso una pesante coperta che puzzava di piscio.
Fanculo, Kell fottutissimo.
L’avevano preso, alla fine. Un colpo di tosse davanti a lui, a cassetta del carro.
«Quanto manca a Kawsten?» La voce era di un ragazzo, non doveva avere più di vent’anni.
«Mezza giornata ancora.» Una voce più vecchia, questa. Si raschiò la gola e sputò. «Fottuti i Draghi bastardi, ci voleva proprio ‘sto freddo di merda.»
Kawsten.
Non avevano ancora lasciato il Failund. Era ancora abbastanza vicino al rifugio.
Fern.
Se avevano catturato lui…
Si guardò attorno, curando bene di non far rumore. La gabbia poteva contenere anche tre persone, ma Malekith era lì da solo. Per una qualche incredibile botta di culo, aveva le mani e legate solo con una corda alle sbarre. Una corda umida e scivolosa, gonfiata dall’acqua. Le sue dita vi passarono sopra, saggiando la qualità dei nodi.
Un cappio e un nodo a doppia asola. Bel tentativo.
Una gassa d’amante era legata alle sbarre, una cazzata da sciogliere, ma se ne sarebbero accorti. Incominciò a lavorare coi polpastrelli, ripassando tutti i nodi che aveva imparato da Fern. Andava tutto troppo bene, il suo istinto da codardo glielo urlava. Spostò appena il capo e diede un’occhiata al suo fianco. Un terzo uomo stava seduto sul retro del carretto, la mano appoggiata sull’impugnatura di una corta lama appena incurvata, lo sguardo sulla strada dietro al veicolo.
Fottuto il…
L’uomo voltò la testa verso di lui. Con gli occhi socchiusi, fingendo di essere ancora svenuto, Mal attese. Il cuore gli batteva così forte nel petto che era sicuro che i due a cassetta lo potessero sentire.
Calma. Devi trovare Fern. Calma.
L’uomo seduto sul retro voltò di nuovo la testa sulla strada. Sfruttando la coperta che gli avevano gettato addosso, Mal riprese a lavorare. Il ragazzino fece come un pigolio.
«Tays ci raggiungerà a Kawsten?»
«Tuo fratello ci raggiunge quando ci raggiunge. Smettila di fare tutte queste cazzo di domande.» L’altro sputò di nuovo. «Deve prima finire il lavoro con quel Fernar.»
Il cuore di Malekith mancò un battito.
Cosa cazzo è successo? Come hanno fatto a prendermi?
C’era un buio profondo e imperscrutabile nella sua mente. Non sapeva da quanto durasse, e inghiottiva anche gli ultimi ricordi che aveva. Era come scrutare nella notte senza un lume.
Io e Fern ci siamo divisi, lui tornava al rifugio, io andavo… dove andavo?
Ricordava un vicolo illuminato da una lanterna, la luce arancione sulle pietre.
Andavo al Saltafossi?
Fanculo a dove era stato. Cinque anni lontano dal Gardaire e si faceva fregare in quel modo?
Mi sono rammollito, o sono diventato un demente.
Il cappio era slegato, le manette libere. Tenne la corda in mano per far sembrare che fosse ancora attaccata e si fermò a riflettere. Aveva la bocca impastata e un sapore amaro in gola. Doveva aver dormito come un ubriaco per chissà quanto, qualsiasi cosa gli avessero dato doveva essere bella forte.
Come se sapessero che sono un Predisposto.
Lo dovevano aver tenuto d’occhio per bene. Improbabile che fosse andato solo quel Tays che il ragazzo aveva nominato, a sbarazzarsi di Fern. Almeno altre tre persone, senza dubbio, o ci avrebbero lasciato le penne. Dei bastardi ben organizzati. Le dita avevano funzionato bene, e voleva dire solo una cosa. Le voci gliene diedero conferma.
«Non è ora?» Di nuovo il ragazzino.
«Cazzo ne so? Una dose quando il sole è alto, ha detto Tays, ma con ‘sto tempo di merda…» sbuffò. «Quando si sveglia gliene diamo ancora.»
Bene.
Sbirciò il tizio seduto dietro. Tozzo, testa rasata e un paio di cicatrici in faccia. Quella lama al fianco e un pugnale dall’altra parte, solo un giustacuore di pelle sopra ai vestiti imbottiti. Buttarlo giù a pugni sarebbe stata un’impresa, visto com’era ridotto quel naso, spezzato in almeno tre punti. Sembrava un vecchio cane da caccia, grosso e pesante, incattivito dalla vita.
Facciamo un po’ di teatro.
Si infilò due dita in gola. Il conato partì con molta più forza di quanto si aspettasse, e in un attimo vomitò una poltiglia marrone punteggiata da pezzetti di cibo. Rimase abbastanza lucido da girarsi supino e iniziare a recitare. Emise dei versi strozzati, sempre più serrati.
«Porco cazzo! Si sta strozzando!»
Il carro si fermò. Mal proseguì la sua recita.
«Muovi il culo!» ringhiò il vecchio. «Il principino non vale un cazzo da morto!»
Suono di stivali che affondano nel fango. La sua mente rimase inchiodata su una parola.
Principino.
La porta della gabbia si aprì con uno stridio di metallo non oliato. Un calcio lo fece voltare prono, Mal sopportò il dolore a denti stretti. Attese, come un predatore, che le mani sgraziate di Naso Rotto lo tirassero su. Era più basso di lui, la sua testa arrivava poco sopra al collo di Malekith. L’alfnar non gli diede il tempo di capire che, se la corda fosse stata legata, non si sarebbe potuto alzare. Sferrò una gomitata, la traiettoria nata da un calcolo nella sua testa. Un calcolo corretto, visto che il naso scrocchiò sotto il colpo. L’uomo grugnì di dolore, si sbilanciò all’indietro. Mal gli si buttò sopra di schiena, atterrarono nel fango gelido, lui sopra, l’uomo sotto. Dietro l’orecchio sentì il fiato caldo di Naso Rotto, spremuto fuori dai polmoni dal suo peso. Mal si avvitò su sé stesso rapido come una serpe, le dita puntarono al pugnale. Lo strappò dal fodero, l’acciaio brillò sotto quel cielo grigio chiaro. Si scagliò sullo sterno dell’uomo prima che quello potesse muoversi. Il coltello si piantò di punta, spinto dal peso dell’alfnar, e spaccò l’osso con uno scrocchio. Passi alle sue spalle sguazzarono nel fango mezzo congelato.
«Figlio di puttana!»
Abbandonò il pugnale e si alzò facendo perno col ginocchio sul cadavere di Naso Rotto. Il vecchio brandiva qualcosa che gli era familiare, un coltellaccio dalla lama nera. Gli occhi cerulei erano puntati sul suo collo, la bocca contratta sotto la barba spelacchiata. Mal si gettò sul pugnale all’ultimo, incastrando il polso dell’uomo con la catena delle manette. La lama gli passò vicina al petto, ma l’altro era sbilanciato e troppo debole. Lo tirò nel fango, gli afferrò la mano e diede una torsione secca. L’articolazione del polso fece un suono umido, come un ramo marcio che si spezza. Gli piantò una ginocchiata in fronte, afferrò il pugnale dalla mota, il manico fremette al contatto con le sue dita. Glielo passò sulla gola, l’acciaio nero scavò un solco profondo nella trachea. Uno spruzzo di sangue bollente gli arrivò in faccia.
«Fermo!»
Non aveva sentito rumori metallici, ma il ragazzetto che gli stava davanti gli puntava contro una balestra carica. A occhio era un modello da caccia, leggero, ma nei due metri che li separavano bastava e avanzava a farlo secco. Si limitò ad ansimare e a guardare il giovane che aveva davanti. Gli occhi lucidi, grossi come castagne e le mani sottili che tremavano reggendo il fusto dell’arma lo smentirono. Altro che venti, quello non arrivava nemmeno ai diciassette anni.
Peccato.
Ebbe quasi la tentazione di parlargli. Quasi. Si spostò di lato, il manico del suo pugnale si allungò. La punta toccò la balestra. Il ragazzino chiuse gli occhi e serrò le dita sul grilletto. Il dardo sfarfallò oltre la spalla di Malekith, sibilando. Affondò all’inguine, la punta della lancia si conficcò tra la gamba e il cavallo, strappando al ragazzo una specie di gridolino acuto, come un cigolio. Gli occhi strabuzzarono in fuori.
Colpo di merda.
Con le mani legate era difficile governare la lancia ma, prima che crollasse in ginocchio, Mal raggiunse il suo collo con un altro affondo. La cuspide ne strappò via metà, lacerando pelle e carne come se fossero un sacco di farina. Il ragazzino piombò ad arrossare la mota, il sangue che pompava fuori dalla giugulare. L’alfnar sputò.
«Figli di puttana.»
Andò verso il carro. Il rifugio non doveva essere troppo distante, e con un po’ di fortuna Fern non si era ancora fatto beccare. Il cavallo che trainava il veicolo era rimasto fermo, nonostante le grida e il sangue. Doveva esserci abituato. Qualche ora nella neve, tagliando per i boschi, e li avrebbe raggiunti. Con la coperta si pulì il volto imbrattato di sangue. Il vento gli tirò in faccia la neve. Il suo fischio era identico a quelli del fottuto Mont Noire, cinque anni prima. Quando avevano ucciso il re.
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