Autunno, 1243 A.D.
Mal aveva un nodo alla gola che andava su e giù da quando aveva lasciato Fern ed era corso da Calat.
«Fern mi ha chiesto di andare con lui. C’è una missione a cui vuole che partecipi. Io, specificamente io.»
Il golem fece un’alzata di spalle da dietro la sua scrivania.
«E cosa c’è di diverso dal solito?»
Eccolo, il nodo dentro la sua trachea, che tornava a stringere.
«C’è… c’è qualcosa che non va.»
«In cosa consiste questa vostra missione?»
«Andare sul Mont Noire e trovare a re Levon un’arma, qualcosa che gli faccia vincere la guerra. Nella squadra c’è anche un mago, un certo Trèville. Sua maestà, nel frattempo, intende scontrarsi con i ribelli nella valle ai piedi della montagna. Non so cosa c’entro io, in questa storia.»
Calat ridacchiò. Allungò la mano e le sue sottili dita d’acciaio presero un melograno da una ciotola. Mal aggrottò le sopracciglia.
«Lo trovi divertente?»
«Trovo divertente te, mio giovane amico. È buffo che, per un motivo o per l’altro, tu finisca spesso a chiedere consiglio a me. Specie contando che non lo accetti mai.»
Infilò un coltello nel frutto e lo aprì in due, poi in quattro pezzi, lasciandolo sgocciolare nella ciotola. Iniziò a sgranarne uno.
«Ho elaborato una metafora osservando come la gente mangia i chicchi di melograno. A te piace?»
«Possiamo tornare alla mia questione?»
«Certo. Hai bisogno che ti dica se fidarti o meno di Fern. E io ho bisogno che mangi questo melograno.»
Mal sbuffò dalle narici.
«È troppo strano. Questa missione l’ha voluta il re, la guerra…»
«La guerra civile, lo so.» Calat gettò via la buccia, annoiato, e passò al secondo. «Re Levon ha fatto lo stronzo e un manipolo di feudatari gliela vuole fare pagare. Nulla di nuovo sotto al sole di Kell.»
«Io… c’era qualcosa di strano in Fern. Come se avesse bisogno di me.»
«E quando non l’ha avuto?»
«Che intendi?»
«Sei stato tu quello mandato a catturare Ven, ricordi?»
L’alfnar abbassò la testa e guardò il tappeto. Calat l’aveva cambiato, ma lui ricordava quando, a due passi dal punto in cui stava, aveva colpito Venice e fatto rimbalzare la sua nuca sulla stoffa intrisa di sangue.
«Vuoi insinuare che… potrebbe tradirmi?»
Il golem ridacchiò, gettando via un altro pezzo di melograno svuotato dei suoi chicchi.
«Kell, ero così stupido anche io da giovane?» mormorò.
Mal avvampò e serrò i pugni. La rabbia gli annodò ancora più stretta la gola, tanto da soffocargli le parole.
«Tradirti? Malekith, Fern è una persona, e le persone usano le altre persone. È semplice. Non è questione di tradire o non tradire…»
L’alfnar, schiumante d’ira, sbatté le mani sulla scrivania.
«E allora quale cazzo è?»
Calat rimase in silenzio e inclinò un poco il capo. La maschera metallica che aveva per volto fece correre al giovane un brivido lungo la schiena. Il golem spinse la ciotola di chicchi di melograno verso di lui.
«Si capisce molto guardando la gente mangiare il melograno. Se lo mangia.»
«Tu non lo puoi mangiare, per esempio» ringhiò Mal.
Calat lo ignorò.
«C’è chi manda giù tutto e ingoia anche gli ossi, chi mastica quasi con rabbia e li spezza, rovinando il sapore…»
«E chi li mangia uno per uno e non si gode un cazzo. Basta stare attenti e non farsi strozzare, bella morale.»
L’alfnar tuffò la mano nella ciotola e si mise un pugno di chicchi in bocca. Il golem si appoggiò allo schienale.
«Pensavo fossi venuto per trarre ispirazione dalle mie sagge metafore.»
Mal deglutì la poltiglia aspra e schioccò la lingua.
«Ero venuto per dei consigli, non per delle metafore. Ma come vedi, non mi sono strozzato.» Piantò le mani sulla scrivania e si chinò in avanti. «Sai cosa penso? Penso che tu voglia farmi dubitare di Fern, solo perché io voglio lavorare per lui e non per te. Da qui il motivo di questa forzata metafora.»
Calat fece uno dei suoi sottili sospiri metallici.
«Forse, Malekith, verrà il giorno in cui non dovrai mangiare melograni e potrai usarli per fare metafore forzate. Ma di certo, quel giorno non è oggi.»
***
Il vento era una lama che gli sfregiava gli occhi, lo costringeva a tenerli socchiusi. Malekith tirò la sciarpa sul naso per l’ennesima volta. Oltre al gelo che lo tagliuzzava da fuori, c’era quella fame, dentro al suo stomaco, al fegato, ai polmoni, che corrodeva ogni sua vena. Aveva bisogno di una dose. Dannazione, almeno nella fortezza di Calat la sua voglia si era attenuata. Anche se era abitata da quel golem mezzo matto, Mal rimpiangeva di non essere lì, e di essere venuto sul Mont Noire.
«Folata!»
Avvertito dal grido di uno degli uomini del re, l’alfnar si schiacciò contro la parete dello stretto sentiero ghiacciato. Con un suono a metà tra un urlo e un fischio, una raffica d’aria gelida si abbatté sul fianco della montagna. Si coprì gli occhi con la mano guantata. Ogni respiro era difficile, come se qualcosa gli stesse opprimendo il petto. Le punte delle dita, sotto al guanto, erano già insensibili.
Avevano già dovuto lasciare indietro due uomini, resi ciechi dai minuscoli aghi di ghiaccio che gli spiriti del Mont Noire lanciavano nel vento. Lui non ci teneva a essere il prossimo.
Cazzo, perché ho accettato?
Per Fern. Fern aveva bisogno di lui. Non poteva lasciarlo solo, non poteva. Calat era stato utile, almeno, a fargli capire perché lo spadaccino gli era sembrato strano. Aveva paura. Forse per la prima volta, da quando lo aveva conosciuto. Mal non avrebbe permesso che gli accadesse qualcosa. Aveva già abbandonato suo padre una volta. Non poteva più trovarsi senza guida, da solo. Planchet, l’uomo che il re aveva messo a capo della loro piccola spedizione, afferrò con una delle sue enormi mani il mago designato dal re, il signor Trèville.
«Fottuti geiste! Maledetto cane, è compito tuo fermarli!»
Il suo ruggito sovrastò persino i sibili e i fischi degli spiriti della montagna. Mal rimase ammirato del coraggio di Planchet nello strapazzare così uno stregone. Certo, in confronto alla stazza del cavaliere, Trèville pareva un fuscello avvolto in una palandrana troppo larga. Lo smunto ometto, comunque, non parve per nulla intimorito.
«Oh, mio cavaliere, ma li sto già tenendo a bada. Se non ci fossi io, i loro artigli vi strapperebbero dal fianco del Mont Noire e vi lancerebbero giù a far compagnia alle latrine del campo.»
Il mago puntò l’indice ossuto oltre il bordo del precipizio che stavano costeggiando, indicando lo schieramento di re Levon, svariate centinaia di metri più giù. L’esercito era null’altro che una macchia sfumata, ma si vedeva comunque. Ai piedi di quel cazzo di monte l’aria era fredda, ma tersa. Mal rimpianse di non essere lì, ma solo per un istante. Non se ne sarebbe potuto stare nelle retrovie, e il campo di battaglia sarebbe presto stato un inferno peggiore che quella maledetta montagna infestata. Un altro morso della fame di Sangue di Drago gli lacerò lo stomaco, così forte da farlo piegare su sé stesso.
Per Kell…
Nonostante i vestiti pesanti, tremava come fosse nudo. Si sentiva bruciare e un attimo dopo congelare, lo stomaco continuava a mordere e la sua lingua, ogni volta che passava sulle labbra, era ruvida come una raspa. Fern gli strinse il braccio.
«Forza, ragazzo.»
Non l’aveva nemmeno sentito avvicinarsi, ma vederlo fu un sollievo. Lo afferrò più forte di quanto avrebbe voluto, e un’ombra di preoccupazione velò l’occhio buono dello spadaccino.
«Fern, non ce la faccio.» Esagerò il tono esausto e allentò la presa. «Non ce la faccio più.»
«Avanti, Mal. Manca poco, dannazione. Siamo già sul versante giusto, ancora qualche—»
Una nuova folata di aghi ghiacciati coprì col suo stridio le parole di Fern.
«Fern, ti prego. Ti prego.» Mal lo fissò negli occhi. «Dammene ancora un po’, solo un po’. Quello che basta per arrivare in cima.»
Si lanciò un’occhiata alle spalle. Gli altri avevano già ripreso a camminare, addossati alla parete nera.
«Un’altra dose? Da quanto non ne prendi?»
«Da ieri, Fern. Non ce la faccio più, ti giuro.»
Mal strinse il pugno per non tremare. Lo spadaccino lo guardò per alcuni lunghi istanti, come se stesse soppesando le opzioni.
Ha paura che perda il controllo. Questa cazzo di montagna…
L’uomo sfoderò il suo ghigno abituale, ma c’era qualcosa nel suo sorriso che l’alfnar non riuscì a decifrare in quel momento.
«E sia. Mezza dose adesso, mezza in cima.»
Malekith aprì la bocca per protestare, ma scosse la testa. Meglio accontentarsi. Fern prese il suo sacchetto di pelle sbiancata e ne trasse un cristallo grande appena più di un’unghia del mignolo. Sembrava tanto uno dei chicchi di melograno di Calat.
«Lo dico per il tuo bene, Malekith. Devi esserci anche tu in cima, alla Spaccatura. Mi servi lì.»
La voce dello spadaccino divenne d’improvviso suadente, ma ferma. Gli ricordava quella di papà. Le domande di Malekith si infrattarono in un angolo in penombra della sua testa.
Non posso deludere anche lui.
Annuì e con decisione strinse forte il cristallo nel palmo, pregustando già la sensazione di averlo nel sangue.
«Andiamo a svegliare quegli spettri.»
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